Il professor De Mauro affermava: «Molto di lavoro di analisi, elaborazione e proposta è stato fatto a partire da quando Cassese era Ministro della Funzione Pubblica, all’inizio degli anni Novanta. Molto è stato fatto perché le Amministrazioni imparino a comunicare in modo comprensibile. (…) Ma questi tentativi verranno fuori se la classe intellettuale e la classe politica vorranno lavorare per il resto della gente, per portarla a livelli più alti. Se non lo vuole fare, non ci resterà che fare bei manuali su come andrebbero scritte le leggi».
Anni di sollecitazioni alla leggibilità. Quali risultati? Come vede la questione la professoressa Maria Emanuela Piemontese? Vi proponiamo la sua risposta tratta dal breve saggio “La semplificazione del linguaggio amministrativo. Presupposti, strumenti e prospettive” pubblicato su Treccani.
Anni di sollecitazioni alla leggibilità. Quali risultati?. Queste parole di Tullio De Mauro possono essere considerate, in un certo senso, i sassolini che Hänsel e Gretel lasciano dietro di sé, per segnare il sentiero che li riporterà a casa. Con l’aiuto delle affermazioni di De Mauro vorremmo, infatti, riuscire a ricostruire la strada percorsa fin qui sul tema della semplificazione del linguaggio amministrativo e, nello stesso tempo, dare l’idea dell’intreccio dei problemi e delle difficoltà che accompagna tale processo, tuttora in atto, non senza qualche contraddizione e rischio.Leggi di più
Quali sono i sassolini lasciati, a partire dagli anni Novanta in poi, da chi si è avventurato nel bosco della comunicazione istituzionale e pubblica italiana? Quali le tappe che hanno segnato l’avvio dei vari progetti sulla semplificazione del linguaggio amministrativo italiano? Che precondizioni hanno consentito l’avvio di un processo che, seppure lento e contraddittorio, è ed appare comunque irreversibile? Quali sono i risultati raggiunti e quali quelli ancora da raggiungere?
Prima degli anni Novanta
In altre sedi abbiamo avuto più volte occasione di ricordare come già prima degli anni Novanta – per limitarci solo agli ultimi due decenni della nostra storia repubblicana – alcune tappe significative siano state segnate in una direzione nuova. La direzione nuova cui ci riferiamo è quella che ha portato all’affermazione di un principio che – tradizionalmente – non è mai stato tra le preoccupazioni principali né della nostra classe intellettuale né della nostra classe politica.
Eppure, in altri paesi europei e d’oltreoceano, nei quali la democrazia è più antica e consolidata, tale principio era ed è considerato un diritto sacrosanto della “cittadinanza”, principio del quale quasi neppure si parla più. Si tratta cioè del principio che è alla base delle relazioni tra stato e cittadini, tra amministrazioni e amministrati, tra chi eroga un servizio, qualunque esso sia, di tipo pubblico o privato, e chi a tale servizio accede, come utente o cliente. In tutti questi paesi tale diritto è diventato un fatto di sistema che non ha bisogno di essere continuamente ricordato, difeso e sostenuto.
Il diritto di capire
Si tratta del principio della trasparenza, della chiarezza e della semplicità linguistica nella comunicazione ordinaria tra chi governa, amministra, informa o forma e chi è governato, amministrato, informato, formato. Parliamo del diritto di tutti ad accedere a un’informazione/comunicazione di interesse pubblico, a capire cioè i testi che, per la loro portata e per i loro effetti, condizionano, in un modo o nell’altro, la nostra vita quotidiana, individuale e collettiva. Sotto l’etichetta “di interesse pubblico” includiamo, quindi, i diversi tipi di testo che, in un modo o nell’altro, attengono alla nostra vita di cittadini, ai nostri diritti e ai nostri doveri.
Quali testi devono essere leggibili?
È utile precisare che non ci riferiamo solo ai testi di legge, di norme e circolari, agli atti amministrativi o agli avvisi esposti negli uffici pubblici, ai testi di massima diffusione come quelli di tipo informativo (per esempio quelli giornalistici) o di tipo formativo (per esempio quelli scolastici), ai referti medici o ai testi divulgativi per la prevenzione e la cura delle malattie, ai foglietti illustrativi dei medicinali e ai manuali vari di istruzione per l’utente ecc.
Includiamo tra i testi di rilievo pubblico anche quelli, apparentemente più banali, come i cartelloni che incontriamo per strada o sulle autostrade, nelle stazioni della metro o delle ferrovie, gli annunci sonori diffusi negli aeroporti o nelle stazioni o sui treni, i moduli da compilare per accedere a un servizio, per iscrivere un figlio a scuola o all’università. In mille occasioni quotidiane, tutti noi, anche se adulti, con una buona esperienza del mondo, con un livello di istruzione medio-alta e con una conoscenza accettabile della lingua italiana ci troviamo, non di rado, in difficoltà.
Abbiamo bisogno spesso, di ricorrere a mediatori di qualche tipo: avvocati, sindacalisti, patronati, commercialisti, centri di assistenza di vari tipi e natura. Perché? Per sapere cosa dobbiamo o possiamo fare in certe situazioni, deleghiamo, siamo costretti a delegare ad altri, agli esperti delle varie materie, il compito di capire per noi, rinunciando così a gestire in proprio un nostro diritto/dovere.
Analfabetismo
Proviamo a immaginare di fronte a quante e quali difficoltà vengono sistematicamente a trovarsi quanti, anche italiani, non hanno, invece, una buona padronanza della lingua italiana, soprattutto scritta, o hanno un livello di istruzione inferiore a quello stabilito dalla nostra Costituzione. Coloro che dichiaravano di non possedere la licenza media, al censimento del 1991, erano il 46,8%, vale a dire la metà, della popolazione italiana. All’ultimo censimento, quello del 2001, era il 33,2%, quasi un terzo della popolazione italiana, cioè oltre venti milioni di cittadini.
(…) (le molte iniziative in Italia da parte delle amministrazioni. Ma…)
Pluralità di iniziative che non diventano sistema
Tutte queste iniziative, a distanza di quindici anni dall’avvio dei progetti di semplificazione linguistica, sembrano ancora accomunate da una logica, per così dire, di sperimentazione e di eccezionalità di interventi che non incidono sul sistema in modo effettivo, diffuso, omogeneo e permanente. L’intenzione di incentivare forme di comunicazione più efficace (e di certificarne la qualità con una sorta di bollino blu, sul modello di esperienze anglosassoni) non bastano, evidentemente, a modificare profondamente modalità comunicative, consolidate e tradizionali, che continuano a essere alla base di una comunicazione che, nella generalità dei casi, sembra rimanere, invece, nella norma, oscura, confusa, contraddittoria o sciatta.
Dalla fine degli anni Novanta si è assistito al fiorire di pubblicazioni, di varia consistenza, teorica e pratica, che, se consentono di apprezzare la crescita di attenzione su questi temi, evidenziano anche la progressiva differenziazione e disomogeneità di approcci, metodi e risultati che producono, qua e là, ancora nicchie, particolari e frammentate, certo di eccellenza, ma non sono ancora la norma e non riescono a intaccare il sistema nel suo complesso.
Perché la frammentazione?
Perché, in Italia, non si riesce a superare tanto particolarismo e tanta frammentazione, nonostante l’interesse e l’impegno della Funzione pubblica per una comunicazione efficace, testimoniata dalla quantità di iniziative promosse negli ultimi quindici anni?
La risposta può forse essere forse intravista, tra le righe, proprio nelle parole-sassolini di De Mauro della citazione d’apertura. Non si può prescindere dalla considerazione di diversi fattori: quale ruolo giocano, in tema di comunicazione efficace e di trasparenza linguistica, la classe intellettuale e la classe politica del nostro paese?
Qual è il grado di accessibilità, a tutt’oggi, delle nostre leggi e norme, esattamente a quindici anni dalla pubblicazione del Codice di Stile di Cassese? Come possono i dipendenti e i funzionari della Pubblica amministrazione, anche quelli animati e armati della migliore volontà, rendere chiara, semplice e precisa la loro comunicazione ai cittadini se i testi di legge, le norme, le circolari a cui devono fare continuamente riferimento sono confuse, contraddittorie e oscure? In una nostra ricerca di qualche anno fa sulla leggibilità e comprensibilità delle leggi italiane, la maglia nera dell’oscurità andava, paradossalmente, alle “circolari esplicative”, seguite dalle leggi e, infine, dai regolamenti applicativi, che sembravano distaccarsi leggermente nella graduatoria, per una maggiore leggibilità e comprensibilità.
A chi capita, come a noi, di insegnare in corsi di formazione sui temi della comunicazione efficace e della scrittura burocratico-amministrativa, succede di fare spesso la stessa esperienza in tutta l’Italia. Quando si chiede ai corsisti, durante i laboratori di scrittura, di analizzare, prima di riscriverli, certi testi, scelti qua e là, cioè di varia provenienza, destinazione e complessità, succede frequentemente una cosa strana ma costante. Amministratori pubblici, con vari anni di esperienza nella pubblica amministrazione e con un titolo di studio medio-alto, fanno fatica a individuare – e a indicare – con assoluta certezza i destinatari, il contenuto e perfino lo scopo di alcuni dei testi analizzati.
Confronto con altri paesi di salde istituzioni democratiche
In altri paesi, a partire dalla Svezia, classe politica e classe intellettuale sono talmente consapevoli che non tutte le materie su cui si legifera, delibera, istruisce possano risultare immediatamente accessibili ai cittadini, che corrono ai ripari in partenza, cioè in fase di presentazione di progetti di legge e di discussione degli emendamenti presentati. È per lo meno dalla metà degli anni Settanta, infatti, che il Consiglio dei Ministri svedese si avvale, nelle sue riunioni, di esperti di problemi linguistici, chiamati “tutori della lingua”, intesi come difensori del diritto dei cittadini a capire leggi, norme, disposizioni emanate dal loro governo.
Compito sistematico dei tutori della lingua non è solo segnalare dove si annida l’oscurità linguistica o il rischio di incomprensione dei testi, ma contribuire, insieme ai tecnici e agli esperti delle diverse materie, a normalizzare il linguaggio dei testi legislativi, delle proposte di legge, delle relazioni delle varie commissioni parlamentari, avendo come obiettivo la comprensione dei cittadini.
Riteniamo che questa assunzione di responsabilità da parte della classe politica (e di tutto ciò che le gira intorno) sia la prima, benché non unica via per accelerare quel processo di cambiamento nello stile della comunicazione istituzionale e di interesse pubblico di cui si lamenta(va) la lentezza e la parzialità dei risultati. All’assunzione delle sue responsabilità non può sfuggire neppure la classe intellettuale italiana, troppo spesso narcisisticamente, se non egoisticamente, ripiegata su se stessa e mediamente incapace di guardare in faccia la realtà. Vale a dire incapace di avere chiare le esigenze reali sia del paese, nella sua natura sempre più composita, sia delle nuove generazioni13, strette in una terribile morsa: da una parte fronteggiare richieste sociali sempre più numerose ed elevate e, dall’altra, disporre di livelli di istruzione e competenze linguistiche e comunicative insufficienti per muoversi disinvoltamente e consapevolmente nel contesto produttivo e culturale internazionale europeo.
Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale
Già da alcuni anni opera in Italia una “Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale. Repertorio virtuale della rete d’eccellenza dell’italiano istituzionale”, detta in breve Rei14. La Rei, aperta, appunto, a una prospettiva europea, si prefigge di “essere un insieme di istanze collegate tra loro per condividere strumenti e risorse terminologiche, documentali e manualistiche, avente struttura reticolare e, soprattutto, flessibile” e di “costituire un dispositivo di contatto stabile tra iniziative che mirano a rendere la comunicazione in italiano chiara, comprensibile, accessibile e qualitativamente adeguata. E per creare i presupposti per la condivisione di risorse e strumenti di lavoro”.
Si tratta di un’iniziativa che, nel contesto europeo, vuole e promuove l’apporto di varie istituzioni, professionalità, competenze messe virtualmente a disposizione di quanti quotidianamente si scontrano con i problemi della lingua e delle lingue nello svolgimento della loro attività istituzionale, amministrativa, professionale, per esempio, di traduttori. L’ampliamento della prospettiva comporta naturalmente un ampliamento anche della problematicità dell’approccio e della risoluzione dei problemi segnalati nella comunicazione istituzionale e pubblica specificamente italiana.
Frammentazione, casualità, disomogeneità
L’eccessiva frammentazione, casualità, disomogeneità , in una parola l’assenza di ogni sistematicità nelle esperienze italiane, per quanto eccellenti, non riescono ancora a imprimere un’accelerazione finale verso il processo di semplificazione del linguaggio istituzionale, burocratico e amministrativo italiano. L’ampliamento di questo processo a una prospettiva europea può avere due esiti possibili per l’Italia. Diventare uno stimolo a salire – per tempo e col bagaglio indispensabile – su un treno ad alta velocità che è la modernizzazione amministrativa e produttiva, in epoca di globalizzazione planetaria, oppure trasformarsi in un alibi per rimanere a terra, ai margini della crescita produttiva, politica e culturale.
La scelta dipenderà solo da ciò che noi vogliamo (e sappiamo) fare, anzi da ciò che stiamo già facendo – come classe politica e come classe intellettuale – per legare bene tra di loro tutti i vagoni del nostro paese e consentire ai cittadini italiani, a tutti indistintamente, di salire e viaggiare più civilmente sullo stesso treno, dentro e fuori dell’Italia e dell’Europa. Certamente insieme ai nostri tradizionali compagni di viaggio della vecchia Europa, ma anche insieme ai tanti altri nuovi che si vanno aggiungendo, culturalmente e linguisticamente diversi da noi.