Cappelli – che storia! Oltre ai cotonifici nel XIX secolo il territorio del Verbano è popolato anche da fabbriche che producono cappelli. La più grande e longeva è una fabbrica che non sta a Intra ma a Ghiffa: è la Panizza, la cui fabbrica non è più nel Verbano dal 1981, ma che continua a vivere in Toscana sotto la direzione di Laura Gamba, classe 1980, pronipote di Natale Gamba, socio (c’era anche Antonio Ferri) di Giovanni Panizza che fondò l’azienda nel 1879 a Ghiffa nell’alto Verbano in Piemonte.
La vitalità di questo cappellificio è testimoniata , tra le altre cose, dal sito web Panizza 1879 che potete consultare anche per la storia dell’azienda, insieme alla voce Panizza di Wikipedia. Sulla storia potete anche leggere uno spigliato articolo di Repubblica del 2021 dal titolo, Panizza, vere opere d’arte da indossare. Una panoramica del lavoro dei cappellifici è nel Museo del cappello di Ghiffa. Questi tre testi (il sito di Panizza, Wikipedia, il museo) vi possono dare un’idea molto precisa dei cappellifici del VCO.
Ma non sarebbe utile ora vedere la vicenda del VCO come caso particolare di un contesto più vasto? vi proponiamo un estratto del saggio di Mario Perugini, L’industria dei cappellifici in Italia dal 1911 al 1971, pubblicata sulla rivista Proposte e ricerche dell’Università Politecnica delle Marche
Nota della redazione: i sottotitoli sono redazionali per rendere più facile la lettura di un testo lungo e complesso.
XIII/XVII secolo: il carattere preindustriale
Cappelli – che storia! La produzione di capeli e bireti in Italia è documentata fin dal XIII secolo, ma si può affermare che abbia assunto dimensioni consistenti solo dall’inizio del Seicento3. Si trattava di manifatture tipicamente preindustriali, con una distribuzione territoriale sicuramente molto ampia perché legata ai consumi e ai costumi locali. In linea generale si può affermare che l’organizzazione produttiva del cappello di feltro fosse basata sul piccolo e medio artigianato urbano, inquadrato nell’ambito del sistema delle corporazioni, mentre la manifattura del cappello di paglia rispecchiava abbastanza fedelmente i caratteri tipici della proto-industria.
Il cappellificio in Italia mantenne sostanzialmente stabili i suoi caratteri tradizionali almeno fino alla metà del XIX-secolo e in molti casi anche oltre. Il primo vero momento di cesura può essere individuato nell’unificazione del Paese, quando cadde ogni residua barriera doganale interna, con la creazione almeno potenziale di un mercato nazionale, e fu realizzato un . sistema di trasporti ferroviari degno di tal nome4.
La seconda metà dell’Ottocento: industrializzazione
Cappelli – che storia! In seguito a ciò, e in concomitanza con l’inizio di un graduale processo di meccanizzazione, la produzione iniziò a concentrarsi nel corso della seconda metà dell’Ottocento in un numero limitato di località’: per la produzione del cappello di feltro spiccavano Alessandria, Monza che aveva assorbito da tempo gran parte dell’originaria produzione milanese, alcuni paesi del Bergamasco come Caravaggio, l’area di Intra sul Verbano, le valli del Biellese e varie altre città come Cremona, Mortara, Voghera e Montevarchi in Toscana; per la produzione del cappello di paglia il centro tradizionale era Firenze con i paesi circostanti (la Signa, Brozzi ecc.), anche a Marostica, presso Vicenza, c’era una rispettabile attività mentre a Carpi, in provincia di Modena, si fabbricavano cappelli con trecce di truciolo; altre località dove si producevano qualità ordinarie in paglia erano i paesi di Falerone, Montappone, e Monte Vidon Corrado in provincia di Ascoli Piceno.
Purtroppo la scarsità e frammentarietà delle rilevazioni disponibili per l’Ottocento non permettono una ricostruzione accurata dell’evoluzione dell’industria del cappello dall’unità d’Italia fino al primo censimento industriale di tipo “moderno”, effettuato nel 1911. Qualcosa di più è tuttavia possibile dire a proposito di uno dei caratteri fondamentali dell’industria italiana del cappello che si andò consolidando fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: l’orientamento all’esportazione.
Cappelli – che storia! Esportare
Fra il 1886 e il 1914 le esportazioni di cappelli italiani aumentarono infatti da 399.100 a 21.967.300 unità, per valori rispettivi di 6,8 e 39,4 milioni di lire correnti. In particolare il periodo dal 1896 — anno in cui ebbe termine la “grande depressione” ottocentesca — al 1914 rappresentò per l’industria italiana del cappello un vero e proprio momento magico, legato all’espansione mondiale dei consumi e segnato dall’affermazione di un modello di abbigliamento “borghese” e “occidentale” in tutti i paesi del mondo’.
All’inizio del Novecento la cappelleria italiana poteva essere tranquillamente accostata, con le debite proporzioni, a quei pochi settori manifatturieri italiani’ — automobili, gomma, tessuti di seta — in grado di offrire prodotti tecnicamente validi e capaci di trovare collocazione sui mercati più evoluti, contribuendo in tal modo a ridurre la debolezza della bilancia commerciale nazionale e a sottrarre il Paese alla sua posizione di partner subalterno, in quanto fornitore di prodotti agricoli e materie prime e importatore di manufatti, dei paesi maggiormente industrializzati.
Il rovescio della medaglia era una condizione di sostanziale precarietà: con un mercato interno asfittico e saturato, il proseguimento del trend di crescita dell’industria o anche solo il semplice mantenimento dei livelli produttivi raggiunti dipendevano ormai esclusivamente dalla capacità e dalla possibilità di esportare sui mercati esteri. Qualsiasi avvenimento in grado di minacciare il normale funzionamento e il grado di apertura dei mercati internazionali, si sarebbe ripercosso inevitabilmente anche sui destini dell’industria italiana del cappello.
Ascesa e declino di un modello di “grande impresa”.
Analizzando i dati riportati in Appendice (cfr il file originale), nella tabella 1, appare subito evidente come nel 1911 sia ormai giunto a termine il processo di trasfomazione in senso propriamente industriale del settore.
Caratteri della trasformazione da manifattura a industria
I tre principali caratteri di tale trasformazione sono la concentrazione produttiva in un ristretto numero di località, l’adozione del sistema di fabbrica e la creazione di unità produttive di dimensioni medio-grandi.
Concentrazione territoriale
Le tre province di Alessandria, Novara e Milano sommano insieme il 15% delle unità locali e circa il 76% degli addetti, mentre sopravvive, soprattutto nelle grandi città, un’attività produttiva complementare e a carattere artigianale probabilmente indirizzata al finissaggio e al confezionamento finale dei cappelli prodotti nelle principali aree produttive. Incrociando i dati relativi alla dimensione media delle unità locali (si veda tabella 1) e quelli riguardanti il coefficiente di meccanizzazione (si veda tabella 2) nelle province leader, fra le quali spicca senz’altro la provincia di Alessandria con i suoi oltre 170 addetti in media, si può con una certa sicurezza parlare di una oimai raggiunta maturità del sistema di fabbrica.
Meccanizzazione
Cappelli – che storia! In particolare, i dati relativi al coefficiente di meccanizzazione delle diverse province da una parte rappresentano un’ulteriore prova della struttura produttiva radicalmente differente sviluppatasi in Piemonte e in Lombardia, e dall’altra permettono di effettuare qualche confronto con il livello di sviluppo industriale raggiunto da altri settori industriali. Basti a questo proposito confrontare il valore del coefficiente di meccanizzazione dell’industria del cappello di feltro — pari a 0,26 nel 1911 — con quello del settore vestiario e arredamento9 (settore di cui fanno parte anche le imprese produttrici di cappelli), che si assesta su un assai inferiore 0,07.
Lo scoppio della prima guerra mondiale, nell’agosto del 1914, intervenne a porre fine a questa situazione favorevole e determinò il blocco completo delle esportazioni e le moratorie governative e private su ordini e pagamenti. Le esportazioni italiane, unico indicatore di qualche significato in mancanza di statistiche attendibili sulla produzione, precipitarono dagli oltre 14 milioni di unità a meno di 5 milioni nel 1916, per scendere di nuovo, dopo un biennio di stabilità, a poco più di 4 milioni nel 1918 (si veda la tabella 5).
Taylorismo
Gli effetti della guerra e della successiva fase recessiva degli anni 1920-1922, causata in gran parte dalla mancata liberalizzazione degli scambi internazionali e dall’innalzamento in diversi paesi di barriere doganali protettive delle varie industrie nazionali”, si ripercossero pesantemente sulle imprese italiane. Per poter sopravvivere nella nuova situazione fu necessario attuare un processo di razionalizzazione molto intenso: l’adozione di sistemi di tipo tayloristico — uno su tutti il sistema dei cottimi Bedaux — applicati in alcuni cappellifici italiani fin all’inizio del secolo, pur con modalità particolari, negli anni Venti si generalizzò soprattutto dove il lavoro era già organizzato industrialmente°. Grazie a tale ristrutturazione le imprese italiane produttrici di cappelli in feltro saranno in grado di sfruttare in pieno le favorevoli occasioni legate alla ripresa della domanda sui mercati internazionali.
Cappelli – che storia! Un’estate di san Martino
A partire dal 1923 infatti, l’esplosione della domanda dell’America settentrionale e la ripresa di quella dell’America meridionale, di quella inglese e imperiale, particolarmente sudafricana, riporteranno il flusso delle esportazioni italiane ai livelli massimi raggiunti in precedenza.
Attraverso l’interpretazione dei dati ricavati dal Censimento industriale del 1927 è possibile tracciare un profilo delle principali trasfonnazioni dovute alla guerra e alla crisi successiva. Appare subito evidente come alla data del censimento i processi di ristrutturazione e razionalizzazione del settore siano ormai completati e come quest’ultimo stia vivendo un nuovo straordinario momento di ascesa, grazie al forte aumento delle esportazioni. Rispetto alla precedente rilevazione censuaria gli addetti del settore aumentano infatti di quasi 1’80% (da 12.476 a 22.128), e questo incremento della manodopera è generalizzato e comune a tutti i centri produttivi, dagli aggregati di imprese medio-grandi localizzati in Piemonte e nella provincia di Milano, alle botteghe artigiane e semiartigiane presenti nei grandi centri urbani dell’Italia centrale e meridionale.
Montevarchi
Unica novità di rilievo è lo straordinario sviluppo dell’area produttiva di Montevarchi in provincia di Arezzo. L’importanza di questo avvenimento, che porta quest’area al terzo posto in un’ipotetica classifica a livello nazionale per numero di addetti, risulta ulteriormente accresciuta se si considera che in tal modo venne a crearsi un avamposto del cappello di feltro in Toscana, da lungo tempo il “regno” del cappello di paglia.
Segnale evidente degli effetti dello sviluppo tecnico frutto delle ristrutturazioni postbelliche sono i dati relativi al coefficiente di meccanizzazione, che a livello di settore risulta aumentato da 0,26 a 0,46 (+77%), con punte record per le aree produttive del Piemonte, che passano da un coefficiente di 0,23 ad uno di 0,56 (+143%). Per dirla in altri termini, la potenza disponibile risulta più che triplicata rispetto alla rilevazione censuaria precedente, un aumento proporzionalmente più che doppio rispetto al parallelo incremento della manodopera.
Un altro indicatore utile per comprendere l’effettiva importanza del mutamento tecnico avvenuto nell’industria del cappello in feltro negli anni successivi alla prima guerra mondiale è il grado di elettrificazione, riportato nella tabella 2. Come si può ben vedere i dati mostrano una generalizzata e quasi totale16 adozione del motore elettrico da parte delle imprese, con un grado di elettrificazione del settore che passa dal 53% a quasi il 95%, dato quest’ultimo che colloca il settore del cappello di feltre all’avanguardia del più generale processo di “elettrificazione” dell’industria italiana che ebbe luogo negli anni fra le due guerre mondiali.
Ridimensionamento
Gli anni dal 1924 al 1929 rappresentarono dunque un grande momento di ascesa per l’industria italiana del cappello di feltro, ma fu anche l’ultimo. Ad interrompere bruscamente questa vera e propria “estate di San Martino” ntervenne la crisi del 1929 negli Stati Uniti. Al crollo del mercato statunitense, le cui rovine furono prontamente protette negli anni seguenti da rialzi proibitivi delle tariffe doganali, seguirono la chiusura completa di quello dell’America latina e l’istituzione di forti restrizioni — sotto forma di contingentamenti all’esportazione — su alcuni di quelli europei, come ad esempio in Francia..
Negli anni Trenta si assistette ad un progressivo e rilevante ridimensionamento del settore, i cui effetti furono impietosamente evidenziati dalla rilevazione censuaria del 1937. La contrazione della manodopera a livello nazionale rispetto al 1927 si assestò intorno al 38% (da 22.128 a 13.659 addetti), mentre le aree più colpite furono le province di Alessandria (- 61%) e Novara (-62%). È plausibile ipotizzare che in tali zone la crisi spinse i grandi complessi che fabbricavano un prodotto di massa a comprimere la manodopera in proporzione al calo della domanda, mentre i cappellifici medi e piccoli, nati in concomitanza o che avevano semplicemente beneficiato della favorevole congiuntura degli anni Venti, cominciavano a scomparire ad uno ad uno insieme alle nicchie di mercato che avevano occupato prima del restringimento del consumo.
La crisi della “grande impresa”.
Le aree più colpite dalla crisi furono proprio quelle che avevano basato il proprio successo nei primi tre decenni del Novecento su un modello di “grande impresa”, caratterizzato da stabilimenti di dimensioni medio-grandi, fortemente meccanizzati e organizzati per produzioni di grande serie. I dati relativi al coefficiente di meccanizzazione danno un’idea, per quanto indirettamente, di quale dovesse essere la situazione alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale: uno scenario fatto di stabilimenti semivuoti (il coefficiente di meccanizzazione a livello nazionale passa da 0,46 a 0,95) e di macchinari — in alcuni casi probabilmente ancora da ammortizzare — fortemente sottoutilizzati.
Biellese e aretino: le eccezioni
Quasi paradossalmente, ad avvertire in maniera meno dirompente gli effetti della crisi furono le due aree produttive più “arretrate”, quelle cioè che avevano adottato solo parzialmente il suddetto modello di “grande impresa”: l’area del Biellese in provincia di Vercelli e quella di Montevarchi in provincia di Arezzo. Una struttura produttiva più flessibile, composta da stabilimenti di minori dimensioni e caratterizzata da una meccanizzazione meno “spinta”, permisero a queste due aree di assorbire meglio il forte calo della domanda estera. Un ruolo importante fu giocato anche dalle particolari nicchie di mercato occupate dalle due aree, essendo l’una (il Biellese) il polo produttivo storicamente più attento al mercato interno e di conseguenza il meno dipendente dalle esportazioni19 e l’altra (Montevarchi) dotata di buone capacità di penetrazione proprio su quei mercati —soprattutto quello inglese” — ancora relativamente “aperti”.
Cappelli – che storia! Il lungo inesorabile declino
A partire dal secondo dopoguerra l’industria italiana del cappello in feltro continua a sopravvivere ancora per diVersi decenni, ma si tratta solo di un lungo e inesorabile declino. Nonostante il rinnovato vigore dei commerci internazionali all’inizio degli anni Cinquanta avesse favorito una certa ripresa, purtroppo solo congiunturale, anche in questo settore, la rilevazione censuaria del 1951 mostra un’ulteriore contrazione dell’occupazione, che scende per la prima volta sotto la quota dei 10.000 addetti a livello nazionale. L’ area produttiva maggiormente colpita è quella monzese, che perde oltre la metà degli addetti (- 54%) rispetto alla precedente rilevazione del 1937, mentre le rimanenti aree leader si mantengono tutto sommato stabili. La nuova breve fase di crescita, la prima dopo vent’anni di crisi più o meno accentuata, mostra abbastanza chiaramente come le imprese sopravvissute abbiano adottato una strategia ormai esclusivamente difensiva.
La compressione dei salari
Lungi dal creare nuova occupazione, si cerca di sfruttare la ripresa comprimendo il costo del lavoro e potenziando il capitale fisso (la potenza disponibile per azionare il macchinario aumenta — per l’ultima volta — a livello nazionale di circa il 25%), mentre si chiudono gli stabilimenti più piccoli e si concentra la produzione in quelli di maggiori dimensioni (nella provincia di Alessandria la dimensione media supera addirittura i 230 addetti per unità locale).
In parziale controtendenza, ancora una volta, solo la provincia di Arezzo che mantiene e consolida il uo tessuto produttivo fatto di aziende di medie dimensioni, una struttura peculiare di questo polo della cappelleria che permetterà alle produzioni di questa zona, in forme parzialmente diverse e su scala più ridotta, di sopravvivere fino agli anni Ottanta21.
I profondi mutamenti del costume
A mettere fine alla storia del cappello di feltro in Italia in quanto settore industriale di rilievo interverrà nel corso degli anni Cinquanta una profonda quanto rapida trasformazione dei costumi a livello mondiale, che portò in pochi anni all’ abbandono quasi completo dell’uso del cappello maschile e al radicale ridimensionamento di quello femminile. Le ultime due rilevazioni censuarie qui riportate, relative al 1961 e al 1971, raccontano infatti una storia diversa, che illustra la smobilitazione prolungata e controllata di un settore armai da tempo maturo, le cui uniche prospettive residue consistono nella conservazione delle quote residue di un mercato in via di esaurimento.
Guida alla lettura
Cappelli – che storia! Mappa mentale da completare