Che tipo di cinema è Dunkirk? Un nuovo genere negli ultimi anni sembra catturare l’immaginazione di chi guarda, ma forse quello di Nolan non è neanche un film.
Matteo Codignola ha scritto questa recensione per Rivista Studio del 12 ottobre 2017.
Su ItalianaContemporanea il testo è rubricato nell’Archivio Storico alla voce “Guerra”. Il testo ha 1.454 parole e richiede circa 7-8 minuti per la lettura.
Ho visto Dunkirk due volte. La prima, quest’estate a New York, ho capito una sola parola, in 106 minuti: «Home». La pronuncia Kenneth Branagh – l’attore meno provvisto di labbra nella storia del cinema, e comunque più ostinato nel rifiuto di usare ciò che ne occupa il posto –, rispondendo a una domanda, piuttosto retorica, su cosa sia la flottiglia di natanti improvvisamente comparsa all’orizzonte della Manica. Il resto se l’è portato via il sadismo di Nolan, o se si preferisce la sua estetica: una colonna sonora tanto superba quanto invasiva, l’ordine dato agli attori di mantenere l’accento del borgo natìo – non importa se sperduto nelle profondità di Galles o Cornovaglia – e il vezzo di fare arrivare le battute da dietro una spalla, un bavero rialzato, o la maschera per l’ossigeno di uno Spitfire.
Non mi sto lamentando però, e per due ragioni. La prima è che mi trovavo esattamente nella situazione auspicata dalla critica più cinéphile degli anni Sessanta, secondo la quale un film andava visto almeno una volta senza senza sonoro, in modo che i dialoghi non interferissero con le immagini – e queste ultime, se erano in grado, parlassero da sole. La seconda, più personale, è un certo debole per le imprese vuoi della Royal Navy vuoi – più ancora – della Royal Air Force, che conosco abbastanza bene e che qui avevo modo di godermi, forse, allo stato puro.
E in effetti. Quando Tom Hardy segna col gessetto la quantità di carburante che gli rimane, ho pensato che Nolan fosse uno di noi, e che per una volta avevo a che fare con qualcuno che sapeva cosa stesse raccontando – il carburante era uno dei grandi problemi dell’aviazione da caccia di allora, specie per i Messerschmitt, che partivano da basi lontane e per combattere avevano giusto una decina di minuti. La Battaglia d’Inghilterra, di cui Dunquerque è stato il prologo, era in effetti anche una lotta contro il tempo, ho pensato, ma la parola stessa – tempo – mi ha fregato. Appena ha preso forma, mi ha infatti evocato il noto vizietto di Nolan: inoculare in qualsiasi storia, che lo richieda oppure no, una visione personale e piuttosto confusiva della relatività ristretta. Quindi ho lasciato immediatamente perdere il gessetto – e ho fatto bene, dato che di lì a poco ho capito che la vicenda si svolgeva al tempo stesso in un’ora e in una settimana, senza che al solito si capisse bene in che modo – e mi sono concentrato sui dogfight aerei.
Che in effetti sono splendidi, anche se non precisamente inediti – mentre il vero latrato degli Stuka al cinema non si era mai sentito, e finalmente si è capito da cosa nascesse il terrore che ispiravano. Tutto bene insomma, nonostante le continue, fastidiose interruzioni – i preparativi e la traversata del barchino di soccorso, i vari tentativi da parte di singoli e gruppi di sottrarsi alla morte per annegamento, e la contemplazione forzosa della sola trovata visiva del film: la spiaggia vuota e quasi solarizzata, con le linee scure dei reggimenti del Bef. Era dai tempi di Io ti salverò che un semplice graffio del nero sul bianco non dava così rapidamente accesso all’inconscio, e chapeau. Ma alla fine, mentre il caccia di Hardy plana in silenzio sulla spiaggia, mi sono anche chiesto che razza di film avessi visto. E ho pensato che magari le parole – per quanto scarne, per quanto elementari – mi avrebbero aiutato a capirlo.
Non è stato così. Con pochissime eccezioni i dialoghi – che in italiano sono riuscito a cogliere – oscillano fra il vacuo e il solenne, e se ad alcuni («Dove andiamo, padre?»; «In guerra, figliuolo») si applica in automatico il controcanto del soldato Joker («Chi sei tu, John Wayne?»), altri sconfinano nel comico involontario (nessuno quanto la domanda «Sei anche tu nella Raf?», rivolta da un pilota abbattuto al figliuolo di cui sopra, un palese quindicenne). Del resto, la rinuncia alla consistenza drammaturgica è un punto fondamentale del programma di Nolan, o il suo protagonista non si chiamerebbe Tommy, che per gli inglesi significa prima di tutto «marmittone». Quanto alle sottotrame, o sono un tantino imbarazzanti (vedi l’idillio criptogay fra Tommy e l’altro milite ignoto, il francese, che sboccia nelle circostanze meno propizie) o, come nel caso della piccola odissea del peschereccio bombardato, risultano quasi incomprensibili, visto che Nolan non ci fa la grazia di spiegare se i fatti si stiano svolgendo, si siano già svolti, o siano l’anticipazione di una sciagura a venire.
Poi ci sarebbero i commenti del coro, condensati nelle brevi sentenze emesse dall’uomo più inutile dell’Ammiragliato britannico, un autentico disonore per la categoria: Branagh, sempre lui. Che sarebbe l’altissimo – e intabarratissimo, per una giornata di inizio giugno – ufficiale responsabile della gigantesca operazione, alla quale però assiste senza dare l’ombra di una disposizione, con le mani in tasca, più o meno nello spirito larvatamente contemplativo con cui i pensionati osservano i cantieri della metropolitana. In definitiva, l’unico vero momento di tensione drammatica è quello in cui lo splendido barchino di padre e figliuolo prende a bordo un gruppo di naufraghi coperti di gasolio. Lì lo spettatore inevitabilmente palpita per le sorti di quel mirabile oggetto d’antiquariato nautico, che il combustibile, benché finto, minaccia seriamente di lordare. E quando anziché del film ci si comincia a occupare del set, non è mai un buon segno.
Alla fine della seconda visione, in sostanza, la domanda è rimasta la stessa: che razza di film è Dunkirk, e perché è piaciuto tanto? La risposta non è semplice. Benché uno dei moventi occulti di Nolan sia evidentemente stato superare a destra, senza usare né sangue né interiora, i primi venti minuti del miglior falso documentario bellico fin qui girato (il Soldato Ryan) raccontare i fatti era l’ultima delle sue preoccupazioni. Oltre che un grande enigma militare, Dunquerque fu un’immane carneficina – Hitler si fermò anche perché il suo Maresciallone, come sempre, gli aveva promesso che avrebbe pensato a tutto lui, e pur essendo un professionista dello spergiuro qualche decina di migliaia di morti riuscì comunque a farla –, ma qui l’Operazione Dynamo sembra una coreografia da parata, con la seccante interruzione di qualche petardo.
Beninteso, nessuno pretendeva una ricostruzione storica. Al contrario, quasi tutti hanno insistito sulla valenza onirica del film, sull’impresa straordinaria di presentare la guerra come una scena puramente mentale, dove la morte opera le sue devastazioni e lascia le sue cicatrici. Un incubo, in sostanza. Il problema è che gli incubi capitano alle persone, o almeno ai personaggi, mentre qui mancano sia le une che gli altri. Non succedeva niente di simile nei tre grandi film di guerra degli scorsi decenni, che pure erano costruiti su premesse molto simili, cioè sull’idea di raccontare un viaggio al termine di un’allucinazione. Né Apocalypse, né Full Metal Jacket né La sottile linea rossa. avevano una struttura convenzionale, ma al momento giusto si affidavano a un corpo, o a un volto con una storia, e perfino a qualche parola: la scena di Duvall e il surf dura un paio di minuti, ma a distanza di quarant’anni il napalm e l’odore di vittoria se lo ricordano anche i sassi. Vorrei sapere cosa ci si ricorderà fra quarant’anni di Dunkirk. Non moltissimo, temo, a parte un babbeo controvento su un pontile.
È possibile che questo genere di lettura sia precisamente uno degli infiniti equivoci che il film di Nolan sembra voler ingenerare – il più serio dei quali è considerarlo qualcosa che nemmeno pretende più di essere, cioè appunto un film. Dunkirk si pone infatti in gran parte al di là del cinema come lo abbiamo inteso fin qui, e comunque oltre le piuttosto tediose distinzioni fra fiction e non che tutti i giorni ci affanniamo a tracciare. Di fatto, Nolan sembrerebbe aver scelto un’altra via. Benché momentaneamente affidati alla pellicola, i suoi oggetti svolgono oggi la funzione un tempo affidata alle tavole bidimensionali del test di Rorschach: disposizioni apparentemente rigorose, ma in realtà casuali di forme e colori, fatte per suscitare in chi le guarda interpretazioni, che a loro volta si presteranno ad altre interpretazioni, in una spirale tendente all’infinito.
È come un terzo genere, un terzo sesso narrativo che negli ultimi anni sembra catturare, molto più dei due fin qui noti, l’immaginazione di chi guarda, e anche di chi legge – basta pensare alle biblioteche di presunta metafisica generate da Matrix, alle discussioni tuttora in corso sulla reale identità di Gomorra, o alle pensosità che Dunkirk stesso ha già avviato. Tutto molto interessante: nella sua versione classica, il cinema era una materia affascinante e oscura, su cui la mente dello spettatore tentava di far luce. Oggi sembra avviarsi a diventare una materia piatta e luminosa, atta a indagare un’altra materia oscura: la mente dello spettatore. C’è una differenza, senza dubbio. Ma per gridare Vive la différence forse è ancora presto.