Dimissioni e scuse. Le pratiche inevase. All’inizio, come accade spesso nelle liriche di Primo Levi, c’è un vocativo. Un vocativo che si rivolge, … a chi? al capo dell’ufficio, dell’azienda, del laboratorio, chissà. È un resoconto finale in prima persona, incentrato esclusivamente sulle proprie mancanze, su ciò che non è stato fatto, su ciò che è stato scordato, trascurato.
Lirica del 1981 inclusa nella raccolta Ad ora incerta di Primo Levi. Il testo è ora raccolto nel secondo volume delle Opere, Romanzi e poesie, pubblicate da Einaudi, Torino, 1988. L’analisi del testo è di Ferdinanda Cremascoli su Italianacontemporanea.com nella pagina dedicata a Primo Levi.
Il testo
Signore, a fare data dal mese prossimo
voglia accettare le mie dimissioni
e provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive. 5
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
una parola saggia, un dono, un bacio;
ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi, 10
provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare
città lontane, isole, terre deserte;
le dovrà depennare dal programma 15
o affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
costruirmi una casa,
forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro 20
meraviglioso, caro signore,
che avrebbe rivelato molti segreti,
alleviato dolori e paure,
sciolto dubbi, donato a molta gente
il beneficio del pianto e del riso. 25
Ne troverà la traccia nel mio cassetto,
in fondo, tra le pratiche inevase;
non ho avuto tempo per svolgerla. È peccato,
sarebbe stata un’opera fondamentale.
La videoguida
L’analisi del testo. Dimissioni e scuse
All’inizio, come accade spesso nelle liriche di Primo Levi, c’è un vocativo. Un vocativo che si rivolge, … a chi? al capo dell’ufficio, del laboratorio, dell’azienda,… chissà.
È un resoconto finale in prima persona, sono dimissioni e scuse.
il discorso è incentrato esclusivamente sulle proprie mancanze, su ciò che non è stato fatto, su ciò che è stato scordato, trascurato. La successione dei dovevo inizia qui al verso 6 dovevo dire, e prosegue al verso 8 dovevo dare; e ancora la verso 13 dovevo visitare, e al verso 17/18 dovevo piantare e costruirmi. Il “dovere” mancato si rafforza nelle sue varianti: l’ho scordato (v.7), ho rimandato (v.10), ho trascurato (v.12), e definitivamente non l’ho fatto del verso 17. Il verso 20, Principalmente avevo in animo, segna il trapasso ad un tema diverso, quello dell’opera letteraria, “il libro” coi suoi effetti benefici: rivelare molti segreti, alleviare dolori e paure, sciogliere dubbi, donare il sollievo del pianto e del riso. Un’opera anche questa non compiuta, una “pratica inevasa” come si direbbe in un buon gergo d’ufficioL’analisi che già abbiamo ascoltato nel titolo.
Quello che non è gergo d’ufficio è che questo impiegato che dà le dimissioni e porge le sue scuse non scrive una lettera, ma una poesia. Una poesia come usa in italiano nel Novecento, un secolo in cui la lirica italiana, dalla lunga e gloriosa storia, esplora incessantemente strade molto diverse e lontane, alla ricerca di un suo nuovo linguaggio.
Gli esperimenti sono tanti. Quelli di Primo Levi sono particolarmente interessanti, perché in lui, buon allievo del liceo classico, mantiene sempre una forte eco la tradizione “alta” della lirica italiana.
Anche Primo Levi, come Pavese ad esempio, è attratto dal verso lungo dal respiro ampio. È un verso che tende ad allungarsi sempre più ma con un limite: anche un elastico si strapperebbe a certe condizioni. Allo stesso modo un verso italiano per quanto esteso non può esserlo senza regola, pena la perdita di identità.
Ad un’analisi metrica questa lirica, Le pratiche inevase, rivela eco classiche persistenti. I primi tre versi sono già rappresentativi del testo nella sua interezza, perché intercalano versi lunghi (vv.1 e 3) all’endecasillabo (v.2). E questi stessi versi lunghi sono ottenuti accostando nei due emistichi un settenario ed un un quinario o viceversa.
Ma vediamo l’analisi metrica di questi ventinove versi sciolti.
L’analisi metrica
Su ventinove versi, ci sono:
nove endecasillabi (vv. 2, 4, 6, 9, 15, 23, 24, 25, 27) ;
dodici versi lunghi ottenuti da settenario più quinario, o viceversa (vv. 1, 3, 7, 11, 14, 16, 17, 19, 20, 22, 26, 29);
due settenari (vv. 13 e 18)
quattro versi ipermetri veri (5, 10, 12 e 28);
due decasillabi ai versi 8 e 21.
Quindi su ventinove versi, ben ventitré (i dodici versi “doppi” e i due settenari che ne riprendono il ritmo, più i nove endecasillabi) presentano versi italiani del tutto riconoscibili. Dominanti sono i versi lunghi ottenuti dalla giustapposizione di settenario e quinario. Sono versi lunghi, non usuali nella lirica italiana, ma nemmeno inediti. Il loro uso ha illustri precedenti nella traduzione italiana della poesia latina, si pensi a Carducci e le sue Odi Barbare. E tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento si contano diverse sperimentazioni del verso lungo ottenuto come accostamento di due versi. Dunque il ritmo di questa lirica è dettato fondamentalmente dalla partitura metrica.
Si può anche osservare che gli endecasillabi hanno un’alta frequenza, sono ben tre in tre versi successivi (vv. 23,24,25), là dove nel testo è evocato il beneficio del “libro”:
che avrebbe rivelato molti segreti, settenario+quinario
alleviato dolori e paure, endecasillabo a maiore
sciolto dubbi, donato a molta gente endecasillabo a maiore
il beneficio del pianto e del riso. endecasillabo a minore
E si può osservare che i versi autenticamente ipermetri danno voce al tema delle scuse: l’io lirico riconosce che tutte le mancanze sono dovute a difficoltà obiettive, ma anche alla propria ignavia, cioè ad una pigrizia mentale, ad una trascuratezza, in definitiva ad una mancanza di coraggio (v, 5); e chiede scusa (v.10): «Mi scusi,». Se ne rammarica «È peccato» al verso 27.
E dunque?
Torniamo così alla domanda iniziale: è una lettera di dimissioni o sono le dimissioni dalla propria vita? Il vocativo iniziale, “signore”, non ha certamente in Primo Levi significato religioso, ma poiché non è un inizio usuale che suonerebbe diverso: Egregio signore, Gentile signore,… lascia immaginare un destinatario più vasto e soprattutto indefinito, una sorta di istanza superiore come già ne Il sesto giorno.