Disobbedienza civile

La disobbedienza civile oltre il paradigma liberale. Questo breve saggio di Marta Cremascoli (disponibile anche nell’originale inglese) ha origine come tesina per un esame universitario. La crisi della democrazia qui è analizzata attraverso un’analisi del concetto di “disobbedienza civile” ne ripercorre la storia nel pensiero liberale, ne evidenzia gli aspetti positivi ma anche quelli critici. Qui in ItalianaContemporanea il testo è rubricato nella pagina “Digitale e democrazia“.


Riassunto 

Questo breve saggio si propone di discutere la definizione liberale di disobbedienza civile e il paradigma in cui è nata. Pendendo le mosse dalla critica di Robin Celikates, William E. Scheuerman ed Erin R. Pineda alla nozione liberale di disobbedienza civile, questo breve saggio riflette su aspetti non considerati o non trattati dai tre autori. Lo scopo è salvare la disobbedienza civile dalla concezione depotenziante che le hanno dato i teorici liberali per riportarla al suo potere politico e democratico.

Introduzione

In ogni asset politico costituito, qualunque sia il suo tipo, sia esso una democrazia liberale o una monarchia assoluta, il problema del dissenso deve prima o poi essere affrontato. 

Naturalmente, a seconda del tipo di costituzione, la disobbedienza può essere considerata un caso di violazione della legge, e quindi rapidamente repressa con vari mezzi, oppure può essere problematizzata e vista come espressione del potere politico costituente o come mezzo correttivo nei confronti di un’istituzione, una legge o una politica. È in questo secondo caso che la disobbedienza può chiamarsi “civile”, quando cioè essa esprime allo stesso tempo sia il dissenso sia l’urgenza di incidere in tutto o in parte sulla vita politica, senza tuttavia distruggere il principio dello Stato di diritto.

Quella della disobbedienza civile è una nozione relativamente nuova, anche se la questione della resistenza alle leggi ingiuste è antica quanto la filosofia politica. Il problema è stato affrontato, ad esempio, dal Critone di Platone, quando Socrate in nome della legalità rifiuta di evadere dal carcere dopo essere stato condannato a morte, anche se la sentenza è palesemente iniqua (1). Alcuni secoli dopo, pensatori medievali come Agostino e Tommaso d’Aquino teorizzarono la possibilità di disobbedire a leggi ingiuste, giudicate tali perché contrarie alla morale cristiana, e dunque non-leggi (2). In questo caso la disobbedienza ha origine nell’appartenenza religiosa.

Il primo pensatore a concentrare gran parte della sua opera sul tema della disobbedienza civile, ma senza chiamarla così, è stato Étienne de La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria, dove l’autore sostiene che i tiranni, hanno potere solo perché i più accettano di essere soggetti, quindi spetta solo a loro rifiutare il sostegno ad un governo oppressivo. 

In età moderna, a seconda del tipo di costituzione che i filosofi hanno sostenuto, troviamo ad esempio Hobbes, che considerava inammissibile qualsiasi atto di dissenso in nome della solidità dello Stato, mentre Locke rivendicava il diritto di resistere a leggi troppo invadenti, che privano l’individuo dei suoi inalienabili diritti. 

Si potrebbe dire che nell’opera di Locke è racchiuso uno dei principi fondamentali della dottrina liberale sulla disobbedienza civile, quella che questo saggio si propone di discutere e, se possibile, sfidare, basandosi sulle critiche avanzate da Robin Celikates, William E. Scheuerman e Erin R. Pineda.

Prima di analizzare il loro lavoro, è necessaria un’ultima premessa storica. La stessa espressione “disobbedienza civile” è stata utilizzata esplicitamente per la prima volta dal pensatore americano Henry David Thoreau nel suo saggio “On civil disobedience” pubblicato nel 1849, dove egli ammette una forma di non-collaborazione individuale con i fini del governo. È una posizione che coincide con la nozione contemporanea di obiezione di coscienza, piuttosto che con la disobbedienza civile come l’intendiamo correntemente. Ma questa affermazione sarà meglio approfondita e spiegata più avanti.

Nel prossimo paragrafo saranno analizzati e discussi i lavori dei tre autori sopra menzionati in ciò che hanno in comune, ovvero la critica (ed il rifiuto) della definizione liberale di disobbedienza civile e delle sue implicazioni. Saranno anche esaminate le differenze tra i tre autori citati sui temi della violenza e dell’illegalità, evidenziando alcuni aspetti che, ad un’analisi più approfondita, i tre autori sembrano aver tralasciato.

Note
(1) Platone, Critone: “in battaglia, in tribunale o in ogni altro luogo, è necessario fare ciò che ci ordina la città o lo Stato; oppure si deve modificare ciò che la città o lo Stato ritienegono giusto
(2) Agostino d’Ippona, De libero arbitrio: “Lex esse non videtur quae justa non fuerit”  

La definizione liberale di disobbedienza civile e i suoi limiti

La riflessione di Celikates, Scheuerman e Pineda ha un inizio comune: la classica definizione liberale di disobbedienza civile, formulata da John Rawls in A Theory of Justice:

«un atto di coscienza pubblico, non violento, e tuttavia  politico, contrario alla legge, solitamente compiuto con l’obiettivo di apportare un cambiamento nelle leggi o nelle politiche di governo».

Altre caratteristiche, secondo la formula liberale, sono il richiamo al “senso di giustizia della maggioranza” e l’accettazione della possibilità di una sanzione, essendo l’atto “nei limiti della fedeltà alla legge”.

Robin Celikates inizia la sua analisi con l’individuazione di questi cinque pilastri su cui si fonda il paradigma liberale, tutti presenti nella definizione: per qualificarsi come disobbedienza civile, un atto richiede pubblicità, non violenza, coscienza, appello al senso maggioritario di giustizia e la fedeltà al diritto. La formula liberale gli appare subito troppo normativa, perché esclude alcuni atti significativi dal dominio della disobbedienza civile e, soprattutto, depotenzia l’idea stessa di disobbedienza civile, ingabbiandola in una cornice istituzionalizzata che ne elimina il potere sovversivo di contestazione politica. 

La definizione fornita da Jürgen Habermas sottolinea ancora di più quest’ultimo punto: per lui un atto di disobbedienza civile è «annunciato in anticipo» e la polizia deve avere la possibilità di «controllare mentre si verifica» (3). Per questa tradizione, che segue da vicino quella liberale e che William Scheuerman etichetta come democratica, le azioni di disobbedienza civile hanno un significato puramente simbolico, dato che il potenziale conflitto che ne deriva viene disinnescato fin dall’inizio. Sembra, infatti, che ciò che Habermas abbia in mente, a parte l’illegalità, sia qualcosa di più simile a una manifestazione o a una marcia pacifica.

Note
(3)  Habermas, Jürgen, Disobbedienza Civile. Cartina tornasole della democrazia costituzionale  

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La critica di Celikates coinvolge tutti e cinque i pilastri della definizione rawlsiana di cui sopra, salvando solo la sua natura pubblica. D’accordo con Rawls, Celikates ritiene, e sembra ragionevole, che per qualificarsi come disobbedienza civile un atto debba essere pubblico proprio per il suo scopo: segnalare un’ingiustizia all’opinione pubblica e cercare di cambiare l’assetto sociale che rende possibile tale situazione. 

Ma contrariamente a quanto afferma Celikates, un atto di disobbedienza civile può essere anche individuale, a condizione, però, che dia luogo a una implicazione collettiva nel tema in gioco. Egli sostiene infatti che le azioni individuali appartengano al dominio dell’obiezione di coscienza. Tuttavia la condizione di collettività sembra essere un requisito simile a quelli di Rawls, che vuole criticare: è vero, un atto come il rifiuto di Thoreau di pagare le tasse per non sostenere il governo non rientra probabilmente nella categoria della disobbedienza civile, ma è innegabile che molti movimenti per i diritti civili sono nati con le azioni di un individuo. Si ricordino ad esempio Gandhi, Rosa Parks, Martin Luther King Jr. La differenza è che le loro rivendicazioni, pur partendo da individui, sono diventate collettive. Quindi è possibile sostenere che uno dei fattori necessari affinché la disobbedienza civile sia efficace è la capacità di coinvolgere una sorta di sentimento collettivo e azioni organizzate. È qualcosa di molto simile a quanto sosteneva Martin Luther King Jr quando affermava che lo scopo dell’azione diretta è «drammatizzare il problema, che non può più essere ignorato».

Non violenza

I liberali vogliono che la disobbedienza civile sia non violenta per essere perseguita legittimamente ed è in realtà facile trovare esempi di grandi leader di movimenti per i diritti civili che basavano le loro azioni proprio su pretese di non violenza, si pensi ad esempio a Gandhi. 

Tuttavia, sorgono alcuni problemi, anche interni alla formula liberale: per Rawls, la disobbedienza civile rappresenta l’ultima risorsa, quando tutti gli altri tipi di azioni sono stati tentati ma hanno fallito. Sembra quantomeno strano concepire l’esasperazione connessa all’ultimissima risorsa a cui si deve fare appello e la conduzione totalmente pacifica dell’azione, soprattutto in situazioni particolarmente drammatiche. Inoltre, non è sempre chiaro, come sottolinea Celikates, se per esclusione della violenza i liberali intendano solo quella contro altre persone o anche contro gli oggetti. Non solo, di solito non viene specificato se la restrizione riguardi la sola violenza fisica o anche quella psicologica: ad esempio, possiamo qui ricordare, seguendo Celikates, il famoso caso di Laepple del 1969, dove la Corte Federale di Giustizia tedesca affermò che i sit-in erano da considerarsi “violenti” a causa della pressione psicologica esercitata sui conducenti che non potevano accedere alla strada. Se la violenza è intesa in questo senso ampio, però, non solo la disobbedienza civile, ma anche ogni altra forma di protesta diventa illegittima, considerato che se c’è un certo grado di dissenso sorgono comunque attriti.

Come sottolinea chiaramente Erin Pineda, ci troviamo di fronte al problema dell’uso politico della nozione di non-violenza all’interno del paradigma liberale, che cerca di contestare. Secondo questa analisi, i liberali affermano di distinguersi dai conservatori, perché respingono il nesso causale che questi ultimi istituiscono tra disobbedienza e disordine violento. I liberali cioè distinguono tra la rivendicazione, legittima, dei diritti civili e il possibile comportamento violento degli attivisti. 

Tuttavia, anche così facendo, «i teorici liberali tendevano ad accettare le premesse dell’argomento conservatore – che la distruzione e il disordine segnano i confini della società democratica, che le istituzioni politiche americane sono fondamentalmente giuste e richiedono provocazioni esterne solo raramente e in termini ristretti; e quel meccanismo pacifico di legge, ragione e persuasione rimane sufficiente per inaugurare il necessario cambiamento sociale e politico». Un’affermazione, questa, già di Rawls, fondata su di un postulato: poiché viviamo in una società abbiamo l’obbligo politico di seguire la legge stabilita. Sotto questo punto di vista, è chiaro come un atto di dissenso lasci perplessi e debba essere giustificato.

Infine, ciò che resta da dire sulle affermazioni di non violenza è che, in astratto, è comprensibile il motivo per cui i teorici della disobbedienza civile di solito si siano espressi a favore. La violenza è solitamente collegata ad altre forme di protesta, come le ribellioni e le rivoluzioni, che sono molto diverse dalla disobbedienza civile in quanto il loro scopo è distruggere uno specifico ordine sociale, mediante l’uso della forza. La disobbedienza civile è una forma di dissenso che, paradossalmente, esprime il massimo rispetto per lo Stato di diritto e vuole solo che esso sia più inclusivo. La discrepanza è tra la teoria e gli esempi reali di disobbedienza civile che affrontiamo nella società. Questa è infatti una critica in più che può essere mossa a Rawls e agli altri teorici liberali: la mancanza di una lente pratica attraverso la quale molti atti di dissenso possano essere classificati come disobbedienza civile.

Coscienza

Il terzo pilastro delle teorie liberali è meno problematico di altri ma merita comunque un esame. Può infatti rappresentare un criterio attraverso il quale è possibile scoprire che alcune azioni presentate come disobbedienza civile non sono invece altro che proteste interessate. 

Celikates concettualizza questa affermazione con l’espressione “NIMBY”, Not In My Backyard. Quindi, ad esempio, una protesta contro l’energia nucleare potrebbe non essere mossa da una sincera preoccupazione per la stessa questione in gioco, ma dal timore delle conseguenze che potrebbe avere una centrale nucleare se costruita vicino al proprio luogo di residenza. Allo stesso modo, le lotte antiomofobe possono essere perseguite solo per il prestigio che deriva da questa posizione progressista piuttosto che per una vera convinzione della rivendicazione.

Appello al senso di giustizia della maggioranza

Questo punto è molto interessante perché mostra sia un tratto distintivo e positivo del pensiero liberale sia un assunto problematico. Cominciamo dal primo. 

Come sottolinea William Scheuerman nel suo lavoro, collocando in una prospettiva storica la nascita delle rivendicazioni liberali sulla disobbedienza civile, l’appello al senso di giustizia della maggioranza si basa su metodi razionali e persuasivi, tali che tutti possano potenzialmente condividere. Ciò si contrappone alla disobbedienza civile concettualizzata su basi religiose o spirituali, in modo che la sua fonte potesse essere condivisa da un minor numero di persone, vale a dire solo da coloro che aderivano a quella particolare tradizione religiosa o spirituale. In quest’ultimo caso, la disobbedienza civile era vista come «un dispositivo per contrastare il male, una forma di testimonianza divina che richiedeva ai praticanti un comportamento spirituale adeguatamente esigente», come spiega Scheuerman, e questa era la base per una riforma politica o sociale. Un esempio di tale visione è ovviamente Gandhi ma anche Martin Luther King. 

La tradizione liberale ha districato la disobbedienza civile dalla sua componente religiosa riconoscendo il pluralismo delle società moderne: considerando la moltitudine di modi diversi di concettualizzare il buon vivere, la società ha bisogno di un terreno più ampio su cui fondare quella particolare forma di dissenso che è la disobbedienza civile. Questo fondamento, almeno in una democrazia occidentale, non può derivare altro che dalla facoltà razionale condivisa da tutti che, seguendo anche la Costituzione, dovrebbe portare alla comprensione del “senso di giustizia” che guida l’atto disobbediente.

Un aspetto controverso è quello rilevato da Celikates, il quale sottolinea come l’atto di disobbedienza civile sia spesso necessario proprio a causa della mancanza di questo senso di giustizia nella maggioranza della popolazione.

Un’ulteriore critica alla definizione di Rawls riguarda la natura di questa “maggioranza” a cui fa appello. In linea di principio potrebbe essere inteso come un termine quasi aritmetico: il maggior numero di persone. Ma di fatto, nella realtà sociale, non è solo una questione di numeri, ma di potere sociale (4). 

Rawls afferma che un certo grado di ingiustizia è inevitabile, anche nella migliore Costituzione, e che i cittadini dovrebbero accettarlo, a condizione che il peso di tale ingiustizia sia più o meno equamente ripartito sui diversi gruppi della popolazione. Questo, come sappiamo, spesso non è vicino alla realtà e i gruppi discriminati sono sempre gli stessi. Prendendo atto di ciò, egli afferma che in questo caso, e nei casi di negazione delle libertà fondamentali, possono essere giustificati atti di disobbedienza. Ma allora, come ritenere valide entrambe le affermazioni, quella relativa al ricorso al senso di giustizia della maggioranza e alla coscienza delle situazioni reali che troviamo nel mondo? Rawls sembra non badare alla contraddizione.

Note
(4)  L’interpretazione aritmetica del concetto di maggioranza è una trappola in cui anche Henry David Thoreau è caduto. 
Nella sua opera Sulla disobbedienza civile (1849), egli sostiene che non importa essere da soli nel praticare il dissenso poiché anche in questo caso già si costituisce “una maggioranza di una persona”. Tuttavia, è un’affermazione più retorica che pratica.

Fedeltà alla legge

Abbiamo già affrontato questo punto nel corso di questo breve saggio, per quanto riguarda lo scopo finale della disobbedienza civile, vale a dire il cambiamento di una politica o di una legge. In questo senso, la disobbedienza civile assomiglia più a una pratica riformista che rivoluzionaria. 

Ora vale la pena di soffermarsi maggiormente sul pericolo intrinseco al principio di fedeltà generale allo Stato di diritto: il whitewashing, come sottolineato da Pineda. Il problema, sostiene, è che la struttura stessa dello stato di diritto, nelle moderne democrazie occidentali, si basa sull’effettiva esclusione di alcuni gruppi di persone, la cui azione dissidente viene necessariamente vista come illegittima, o quanto meno disobbediente. Una tale condizione di dominio sistemico può essere contrastata tenendo presente che lo status di disobbedienza civile dovrebbe essere quello di una «prassi decolonizzante», che serve come mezzo di emancipazione democratica, così da assicurare «non solo la sopravvivenza ma anche l’eventuale trasformazione degli oppressori bianchi in concittadini».

Occorre però un’ulteriore riflessione su questo punto. Quando un atto illecito viene riconosciuto come disobbedienza civile e non semplicemente come un comportamento che viola una legge? Vale la pena ricordare il caso delle attiviste per i diritti civili Claudette Covin e Rosa Parks. Entrambe si sono rifiutate di lasciare che un passeggero bianco prendesse il loro posto su un autobus, andando contro la legge. Covin lo ha fatto nove mesi prima di Parks, ma il suo caso non ha avuto la risonanza, la grandezza e l’effetto rivoluzionario che quello di Parks ha effettivamente iniziato. Richiamando la tradizione marxista, è giusto dire che probabilmente è quando gli oppressi sono consapevoli della discriminazione che subiscono che un comportamento illecito può essere visto come disobbedienza civile, come un modo per affermare un diritto fondamentale negato dalla legge. Nell’altro caso, quando il gruppo degli oppressi non ha ancora raggiunto una “coscienza di classe” (ovviamente qui intesa in un senso più ampio di quello economico marxiano), l’atto illecito non ha conseguenze e non innesca una lotta per il miglioramento delle condizioni di quel gruppo e per riaffermare la giustizia.

Conclusione

Lo scopo di questo contributo è stato quello di analizzare le aporie della definizione liberale di disobbedienza civile attraverso la lente critica dei lavori di Celikates, Scheuerman e Pineda e anche di cercare di approfondire la riflessione su alcuni punti che sembravano non direttamente affrontati o risolti dai tre autori.

La conclusione che possiamo trarre dopo la presente analisi è che, nello sviluppo storico del concetto e della pratica della disobbedienza civile, i liberali hanno svolto un ruolo cruciale nel liberare questa pratica dai suoi presupposti religiosi e spirituali, facendone uno strumento nelle mani idealmente di ogni cittadino. Allo stesso tempo, però, hanno previsto requisiti molto restrittivi per i comportamenti che secondo la loro definizione possono essere etichettati come disobbedienza civile. Sembra che il problema derivi principalmente dal fatto che i liberali tendono a considerare il patrimonio liberale della società come qualcosa che non necessita di emendamenti, a parte casi davvero eccezionali, probabilmente sottovalutando il grado di possibilità che questi casi si verifichino nella società reale. Ecco perché i casi più famosi di disobbedienza civile in realtà non rientrano nella definizione rawlsiana, e nemmeno di poco.

Se si considera falso il presupposto liberale e si concettualizza invece come possibile un miglioramento costante del principio su cui si fondano le nostre democrazie, la disobbedienza civile diventa un potente mezzo per emendare progressivamente la fallacia delle istituzioni. Inoltre, bisogna riconoscere che in una società in rapida evoluzione come quella in cui viviamo, anche le migliori istituzioni e politiche diventano rapidamente obsolete e necessitano di un frequente ripensamento. La disobbedienza civile può servire come metodo – tra gli altri ovviamente – per contrastare l’irrigidimento dell’assetto sociale e aiutarlo a muoversi ed evolversi in uno più moderno. 

Ecco perché la disobbedienza civile è una forza dinamica e politica che non deve necessariamente essere concettualizzata in modo strettamente liberale. Ovviamente necessita di alcuni requisiti (come ad esempio pubblicità, senso civico, mira al cambiamento sociale) ma questi non devono essere troppo ristretti da escludere o depotenziare la forza di un atto significativo disobbediente. Quindi, al di là della sua definizione, la disobbedienza civile, alla luce di quanto fin qui detto, può essere riconosciuta come uno strumento attraverso il quale è possibile mantenere in vita quello che Benjamin Constant chiamava il “potere costituente” delle persone, una sorta di baluardo per i gruppi che sono vittime di ingiustizie e che si guadagnano uno spazio per affermare i propri diritti violati.

Bibliografia

  • Agostino, De libero arbitrio
  • D’Aquino, Tommaso, Summa Theologica 
  • Celikates, Robin, Rethinking civil disobedience as a practice of contestation – Beyond the liberal paradigm (Ripensare la disobbedienza civile come pratica di contestazione – Oltre il paradigma liberale) 
  • de La Boétie, Étienne, Discourse sulla Servitù volontaria 
  • Habermas, Jürgen, Civil Disobedience. Litmus test for the Democratic Constitutional State (Disobbedienza Civile. Cartina tornasole della democrazia costituzionale)
  • Hobbes, Thomas, Leviatano 
  • Locke, John, Due trattati sul governo 
  • Luther King Jr, Martin, Lettere dal carcere di Birmingham 
  • Pineda, Erin, Seeing like an activist (Dalla prospettiva di un’attivista)
  • Platone, Critone
  • Rawls, John, A Theory of Justice (Teoria della Giustizia)
  • Scheuerman, William, Civil disobedience (Disobbedienza civile)
  • Steven, Vincent, Benjamin Constant and Constitutionalism (“Benjamin Constant e il costituzionalismo” 
  • Thoreau, Henry David, Sulla disobbedienza civile 

Guida alla lettura

Il testo ha l’aspetto tradizionale della tesina che si presenta, quando richiesta, per un esame universitario. Il testo (originale in inglese) ha un titolo, il nome dell’alunna, il suo numero di matricola; ha un riassunto iniziale, una bibliografia finale, delle note (qui con la funzione di dichiarare la provenienza di una citazione), una suddivisione in paragrafi.

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