Ecco perché la scrittura morirà. La scrittura è un’invenzione umana e come tutte le cose umane finirà, anzi sta già morendo: si possono già registrare le avvisaglie.
Ecco perché la scrittura morirà. Gli studenti universitari, almeno i miei, sono creature particolari. Io li sottopongo a simpatiche vessazioni, del tipo «fatemi una presentazione a braccio, per mezz’ora, come se foste al posto mio». Inutile dire che mi diverto più io di loro. Una di queste creature, parlando del fenomeno x e y nel remoto passato, se ne è uscita con la stentorea dichiarazione che il fenomeno x era «diacronicamente sincronico». Il che ha senso solo nella sua testa, finché non ci riflettiamo su.
«La scrittura non morirà mai», quante volte l’ho sentito dire. E invece, questa cosa che usiamo tutti, sui computer, sui telefonini, su carta, con penna, con polpastrelli, con tasti, sta morendo. E vorrei spiegarvi non tanto come stia morendo, ma perché.
Gli esseri umani hanno inventato la scrittura circa cinquemila anni fa, in parti diverse del mondo, come creazioni originali e indipendenti. Non una volta sola, come si pensava tempo fa. Questo significa che il nostro cervello e gli stimoli che venivano dall’ambiente hanno prodotto scintille creative che ci hanno portati nella stessa direzione. Il processo non è genetico, perché la scrittura, al contrario del linguaggio, non è radicata nella nostra architettura genetica: è un prodotto artificiale. Non ha cambiato il nostro Dna, e il Dna non l’ha plasmata. È anche un’invenzione recente, almeno in termini relativi. E come prodotto culturale ha avuto, per ora, vita limitata. Cinquemila anni sono niente, in termini geologici, ma anche in termini culturali. I primi disegni, le prime figure datano a 45.000 anni fa circa, quindi ce ne sono voluti circa 40.000 per rodarla. Un apprendistato lungo, centellinato, graduale. Poi ci sono persone come me che non vogliono costruire linee nette di demarcazione tra figure messe in ordine, sequenze, codici grafici, e quello che chiamiamo “scrittura”, e che si serve di un alfabeto, ma questo è – forse – un altro discorso.
Insomma, questa cosa che chiamiamo comunemente scrittura, è un’invenzione dell’uomo tra le tante, che ha avuto il suo inizio in un punto (o in molti punti) e ora sta facendo il suo stretching creativo nel nostro presente, assumendo molte forme. La scrittura, nel nostro tempo, è ovunque. A livello globale e generale, siamo una società grafomane: non si è mai scritto così tanto nella storia del mondo come ora. Quello che stiamo vivendo è il picco della scrittura: il suo boom, il suo “diacronicamente sincronico”.
È qui, ora, che la possiamo descrivere per come è stata e come è. E dire che è quasi arrivata alla fine. Le cause, o meglio, i prodromi, della sua fine sono tre.
Il primo prodromo è sistemico, insito nella sua stessa natura: la sua configurazione astratta. Non parlo solo dell’alfabeto romano che usiamo noi, parlo di tutte le scritture, anche quella cinese, anche quella araba. Ai nostri occhi le geometrie stilizzate e astratte vanno tendenzialmente bene, le configurazioni schematiche dei segni delle lettere sono il risultato di una progressiva compressione che, nel tempo, ha eliminato tutti gli orpelli e i fronzoli delle icone originali (pensate alla A che era, in origine il disegno di una testa di bove) e bada solo all’essenza riconoscibile del segno. Ma questa astrazione che adesso è la A non è quello che abbiamo usato per migliaia di anni per comunicare. Le immagini sono fondamentali per la nostra comunicazione, anche se sono arbitrarie e aperte all’interpretazione. Tra scrittura e immagine, l’immagine vince sempre.
Voi chiederete: ma come fai a comunicare, per esempio quello che stai scrivendo ora, attraverso immagini e basta? Avete ragione, non è possibile. Non è possibile, infatti, rendere con un’immagine il senso di “possibile”. Ma solo perché la scrittura che usiamo è fatta così. Il problema, e questo è il secondo germe del declino della scrittura, è che abbiamo standardizzato questa modalità di comunicazione scritta e non un’altra. E per come è, sembra fare bene il suo lavoro, ma non è così. Ci sarebbero altre vie. Ci sono altre vie, che da un lato sono più universali e immediate, dall’altro non hanno una tradizione ancora radicata.
Pensate agli emoji, le faccine che usiamo su WhatsApp. Non sono scrittura, ma solo perché le icone degli emoji sono ancora molto aperte, sono ancora disegni e non segni. Se noi dovessimo, un giorno, chiudere il loro repertorio e renderlo standard, a livello non di linguaggio globale (un solo sistema per tutte le lingue del mondo), ma a livello di lingua specifica (italiano, inglese, eccetera) e creassimo le basi della standardizzazione, avremmo una scrittura molto più immediata (perché iconica) rispetto ai segnetti lineari e geometrici che usiamo adesso. Potremmo comunicare a livello ideogrammatico, insomma. Più immediati, più veloci. Vi ricordo che parlo solo di sistema, non di sfumature di significato. Il lavoro è comunicare, non avere una penna raffinata. E io parlo di potenziale sistemico, di ingranaggio, di architettura.
Gli emoji non sostituiranno la scrittura, non vi preoccupate. Ci penserà tutto il resto. E qui si parla non di sistema, ma di veicolo, di forma. Un paio di anni fa, al Museo della Tecnica di Stoccolma, hanno organizzato una mostra sulle 100 invenzioni più importanti della storia, e hanno chiesto a gruppi di adulti e adolescenti di stilare due graduatorie separate. Qual è stata l’invenzione più importante? Per gli adulti: la ruota, seguita dall’elettricità e dal telefono. La scrittura era trentesima. Per gli adolescenti la prima era il computer. La scrittura, non pervenuta. Eppure, il computer presuppone la scrittura. Forse i giovani la ritengono talmente ovvia da darla per scontata? Ed eccoci qui, allo strumento.
Le cose date per scontate dagli esseri umani muoiono. Si ammalano di una malattia irreversibile a livello culturale. Non ricevono cura, non sono nutrite di cultura. Diventano, se sono fortunate, specie in via di estinzione, da preservare. E poi, irrimediabilmente, vengono superate. Tra cento anni non ci saranno più. Ci saranno voci, immagini, immagini e voci. La scrittura, fissa e rigida, astratta e geometrica, diventerà un dinosauro da teca di museo. Tracce che rimangono impresse come tradizione storica, scritte su qualche foglio al macero, perse tra i bit di archivi digitali presto obsoleti. Le sinapsi del nostro cervello forse diventeranno biblioteche, forse diventeremo telepatici e comunicheremo senza scrivere. Qualunque sarà il veicolo, tangibile e concreto, oppure effimero ed etereo, ha poca importanza (tanto non saremo qui a vederlo), ma la scrittura morirà perché è un fatto umano. Come tale è imperfetta, ma non è la sua astratta imperfezione che ne segnerà il tramonto. Almeno non solo quella. Il vero problema è che è troppo viva oggi e allo stesso tempo è già sorpassata. Perché ciò «che soltanto vive può soltanto morire. Le parole, dopo il dialogo, giungono al silenzio». Lo dice anche Eliot.