Eraldo Affinati recensisce “Stalingrado”

Eraldo Affinati recensisce “Stalingrado” di Vasilij Grossman: in prima linea tra i demoni del Novecento. Ebreo nato in Ucraina, nel romanzo tradotto solo ora in italiano – cantò la resistenza al nazismo. Poi fu tra i primi a porre sullo stesso piano i due totalitarismi. Ritratto di un grande scrittore. 

Eraldo Affinati recensisce Stalingrado

RecensioneEraldo Affinati recensisce “Stalingrado” sul Venerdì di Repubblica del 1 aprile 2022.

Volgograd: così Nikita Krusciov ribattezzò Stalingrado, in omaggio al fiume nelle cui acque scorre il sangue russo. Tanti anni fa, sulle scalinate del Mamajev Kurgan, la gigantesca statua simbolo della vittoria sovietica contro i nazisti, incrociai lo sguardo di Ivan, in partenza verso la Cecenia. Immaginai potesse essere un obiettore di coscienza, pacifista radicale, incapace di uccidere i civili rintanati a Groznyj e quindi pronto ad affrontare la cella di rigore pur di non rinunciare ai propri ideali. Se per avventura, in questi giorni drammatici, mi capitasse di rivedere, nel medesimo luogo, il fantasma di quella giovane recluta, stavolta diretta a Kiev, penserei la stessa cosa.

Ma oggi non ho più bisogno di imbarcarmi, come feci allora, sul vecchio Tupolev 134 per tornare nella città martoriata e ricostruita, là dove la Falce e il Martello inchiodarono per sempre la Svastica. Mi basta leggere Stalingrado di Vasilij Semënovic Grossman, pubblicato nel 1952 con il titolo, non voluto dall’autore, Per una giusta causa. Un libro la cui traduzione italiana, appena completata da Claudia Zanghetti per Adelphi, aspettavo da tempo, anche se già esistevano la versione inglese e francese.

Narrazione fluviale

Stiamo parlando del primo, leggendario tomo di Vita e destino, concluso nel 1960: chi abbia già affrontato le oltre 800 pagine di quel romanzo – uscito in Italia in edizione integrale solo nel 2008 – e magari conservi ancora negli occhi il brulichio di eventi che vi sono rappresentati, fra madri che piangono i figli perduti, piloti, carristi, minatori, artiglieri e commissari politici, lager e gulag, aerei in fiamme e amori infranti, purissimi eroi e abiette creature, può stentare a credere che fosse preceduto da un testo di pari quantità e sostanza. Eppure è andata proprio così: anzi, a dirla tutta, esiste anche un altro romanzo, Il popolo è immortale, ancora antecedente, composto nel 1943, sempre sullo stesso tema, che prima o poi verrà tradotto. Per intanto abbiamo una “dilogia”: questa la definizione più giusta, secondo l’indicazione di Ferdinanda Cremascoli, la cui preziosa guida, Stalingrado. Il polittico di Vasilij Grossman (Biblioteca di italianacontemporanea.org) suscita ammirazione per l’appassionata e certosina cura impiegate dall’autrice, pronta a inabissarsi nelle due fluviali narrazioni nel tentativo di consegnarci una visione d’insieme.

Sappiamo bene quanto ciò sia impossibile. Nel ricostruire il conflitto che, insieme al titanico scontro di carri armati avvenuto nella piana di Kursk, diede una svolta alla Seconda guerra mondiale, lo scrittore tocca e fugge. È una carrellata di personaggi a cui vengono dedicati capitoli spesso brevi e concisi, a volte lunghissimi, quasi fossero schede intercambiabili. Alcuni di loro, come Viktor Strum, fisico, alter ego dell’autore, ricorrono in entrambe le parti. È un serrato andirivieni di note private e momenti storici, ambienti domestici e stati maggiori. La steppa sembra incombere da una pagina all’altra, coi suoi profumi e i suoi afrori.

In molti ritengono che questo romanzo sia il Guerra e pace del Novecento, ma lo sguardo di Lev Tolstoj sul mondo era sintetico, solare, universale. Grossman appare invece analitico, tenebroso, lenticolare: passa da un episodio all’altro senza soluzione di continuità. Tutto è cambiato rispetto al grande modello ottocentesco: il cielo di Austerlitz evocato del maestro di Jàsnaja Poljana, in cui pareva ancora brillare un ritmo leggero, stendhaliano, pare diventato oscuro, tempestoso. È l’epoca dei lupi, per usare l’immagine di Osip Mandel’štam. A fare la parte di Kutuzov ci sono generali in stile Andrej Erëmenko, condottiero di “paludi e foreste”, il quale però, imbeccato da Stalin, che gli ha ordinato di non fare alcun passo indietro, si rintana nella metropoli assediata trascinandoci dentro l’intera sesta armata tedesca guidata da Friedrich Wilhelm Ernst Paulus.

Consigliamo al lettore di affidarsi al flusso della narrazione, rinunciando alla pretesa di poterla dominare, come potrebbe fare un bambino nelle braccia di sua madre. Ne ricaverà un’esperienza etico-estetica di livello ben superiore a quelle che la letteratura contemporanea ci può consentire. Questo romanzo ridimensiona quelli che abbiamo letto sulla medesima battaglia: dalle Trincee di Stalingrado di Viktor Nekrasov all’Armata tradita di Heinrich Gerlach.

Chi era Vasilij Grossman e come aveva potuto ottenere un esito espressivo di tale portata? Ucraino di famiglia ebraica, nacque nel 1905 a Berdyciv, uno degli shtetl più importanti d’Europa, la cui popolazione venne decimata dai nazisti che qui fecero terra bruciata con esecuzioni terrificanti. Ancora oggi il terreno dei boschi limitrofi nasconde migliaia di scheletri. Anche la madre di Vasilij, Ekaterina, finì inghiottita nel gorgo e la lettera d’addio che il figlio le attribuisce prima di morire rappresenta uno dei tesori immortali di Vita e destino: “Da bambino correvi da me perché ti difendessi. In questi momenti di debolezza vorrei essere io a nascondere la testa tra le tue ginocchia così che tu, forte e intelligente come sei, potessi proteggermi”.

A Berdyciv, quarantott’anni prima di Grossman, al tempo in cui questa terra da sempre martoriata e contesa veniva governata dallo zar, vide la luce Joseph Conrad: uno degli scrittori che hanno fondato il sentimento moderno. Ho sempre pensato a tale congiuntura storica come a un segno del destino: nelle opere di questi due grandi maestri scruto l’inferno e il paradiso dell’anima slava. Il volume di riferimento in questo caso è Le ossa di Berdycev di John e Carol Garrard: una radiografia impietosa sulla natura ferina della specie cui apparteniamo.

Le miniere del Donbass

Vasilij Grossman, laureato a Mosca, lavorò come ingegnere nelle miniere dove ancora oggi si continua a combattere (“La poesia del Donbass – i fiumi di lampade che la notte punteggiano i sentieri – mi aveva conquistato” scrisse in Fosforo, uno dei suoi racconti più cechoviani). I primi lavori letterari in cui s’impegnò vengono talvolta rubricati all’interno del cosiddetto realismo sovietico, ma in realtà sin dall’inizio egli ebbe problemi con la censura, come dimostrano i carteggi con Maksim Gor’kij, scherano del regime, e perfino con Stalin, che aveva condannato a morte il popolo ucraino, prima decapitando i kulaki, piccoli proprietari agricoli refrattari al bolscevismo, poi imponendo a tutti una sconvolgente carestia. Una svolta nella produzione di Grossman si verificò quando diventò corrispondente dal fronte per il giornale Stella Rossa, come dimostra la scelta dei taccuini bellici operata da Antony Beevor e Luba Vinogradova, leggibile in Uno scrittore in guerra.

A ben riflettere le centinaia di pagine della dilogia altro non sono che la magmatica trasfigurazione stilistica di questa esperienza. Lo scrittore, coi suoi occhialetti da intellettuale, vive in tutto e per tutto la condizione dei soldati impegnati al fronte. Respira la polvere. Rischia la vita. Interroga i protagonisti diretti. Parla con gli ufficiali. Mantiene sempre un formidabile equilibrio prospettico, un’invidiabile lucidità, anche di fronte alle atrocità cui deve assistere. Ricordiamo che egli è stato, insieme a Il’ja Grigor’evic? Erenburg, l’autore del Libro nero, nel quale si documentava  il genocidio nazista nei territori sovietici dal 1941 al 1945. Chi volesse un compendio della tragedia che filtra in quella testimonianza, dovrebbe leggere L’inferno di Treblinka, composto a caldo nel settembre del 1944, poche pagine sconvolgenti e irripetibili.

Grossman conobbe sulla propria pelle l’infamia dei due totalitarismi novecenteschi: averli posti sullo stesso piano, come lui fece, parve inammissibile. È questa la ragione per cui i suoi articoli, dopo essere stati pubblicati sui bollettini di guerra, furono a lungo insabbiati negli archivi, e le sue opere vennero ostracizzate.

Cavalli impazziti

Ma quando parliamo di Vasilij Grossman non dovremmo mai dimenticare la sua profonda natura di scrittore, incoercibile e refrattaria agli schemi ideologici e politici: dolcissimo e fiabesco, quasi si rivolgesse ai bambini, nel racconto La cagnetta, bastardina catturata per essere spedita nello Spazio; capace di penetrare nell’anima armena descrivendo il bucato appeso ad asciugare nei cortili di Erevan (Il bene sia con voi!); meraviglioso e profetico in Tutto scorre…, il suo testamento finale dove, tornando a Nikolaj Vasil’evic Gogol’, ricorda il paragone presente nelle Anime morte, fra la Russia e una troika (una carrozza a tre cavalli, ndr) impazzita che corre talmente veloce da travolgere e lasciarsi dietro “tutto quanto è sulla terra e schivandola si fanno da parte e le danno strada gli altri popoli e le altre nazioni”. Cosa resta da fare dunque agli uomini che, dopo aver visto la Medusa senza restare impietriti, non credono più al bene, ma solo alla bontà?

Continuare a praticare quest’ultima in modo “illogico”, ci sussurra ancora oggi fra le righe Vasilij Grossman, che spirò a Mosca nel 1964 senza aver avuto il tempo di verificare le conseguenze del suo operato.


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