Fake news, shitstorm, bullshit, hate speech

Fake news, shitstorm, bullshit, hate speech. Come combattere le bugie e la disinformazione? Il web dà spazio a tutti anche agli imbecilli, che sono legione… Cosa serve davvero per arginare il fenomeno? Il web non tanto come infosfera, ma come docusfera. È la docusfera che raccoglie informazioni vere, su tutti: dunque potrebbe essere usata per capire (e quindi gestire) il comportamento di tutti noi, più o meno ma comunque vulnerabili, di fronte alle bugie? Ancora un commento di Maurizio Ferraris sul web e sul suo potenziale positivo, pubblicato su LaStampa del 18 giugno 2022. Si vedano anche gli altri interventi, cliccando qui.

In ItalianaContemporanea il testo è pubblicato in “Digitale e democrazia“. 1.345 parole. Tempo di lettura 5 – 6 minuti.


Il Web esiste solo perché ci sono umani, e una delle proprietà definitorie dell’umano è il possesso del linguaggio, ossia di quella tecnica che, come diceva Talleyrand, ci è stata data per nascondere le nostre idee. Inoltre, anche la persona più verace potrebbe, in buona fede, dire delle cose false. Il che significa che nello spazio dell’informazione la possibilità di trovare delle notizie false o imprecise è molto più alta di quella di trovare delle notizie vere. Questo non da oggi, ma da sempre. Non abbiamo alcun serio motivo per pensare che nelle caverne la percentuale di bugiardi e di imbecilli fosse inferiore all’attuale, e abbiamo la certezza che tutte le nozioni intorno alla spiegazione scientifica del mondo fossero fake news. Venendo a tempi più civilizzati, Bacone lamentava che le biblioteche contenessero più menzogne che verità e, di nuovo, se il progresso del sapere ha aumentato le cognizioni vere, la crescita della popolazione mondiale (da uno a otto miliardi in poco più di due secoli), dell’alfabetizzazione e della possibilità di espressione ha accresciuto il numero dei bugiardi, dei millantatori e dei semplici imbecilli.
Quando Umberto Eco parlava di «legioni di imbecilli» sul Web peccava per difetto. Converrebbe far riferimento a unità militari più grandi, dalla Grande Armée in su.

E mentre il dato antropologico è rimasto stabile, quello tecnologico si è sviluppato, trasformando in incubo quello che era il sogno delle carte costituenti nazionali e internazionali del periodo postbellico, e che si trova bene espresso nell’articolo 21 della nostra Costituzione: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Articolo che era evidentemente scritto per enunciare un principio e che non poteva neppure remotamente prevedere che la libertà di pensiero (quella che Kant sintetizzava con il detto di Federico il Grande: «Pensate come volete, ma ubbidite!») si sarebbe trasformata, grazie a un dispositivo tecnico, nella libertà di espressione del pensiero, ponendo la base di fake news, shitstorm, bullshit, hate speech e altre amenità che hanno un nome inglese semplicemente perché inglese è la terminologia del World Wide Web, ma la cui sostanza è universale quanto il Web, cioè pressappoco quanto l’umanità.

Così, dopo avere incautamente festeggiato, agli albori del Web, la nascita della intelligenza collettiva, da qualche anno i filosofi si trovano a deprecare il regno delle fake news e a proporre, proseguendo una tendenza già attestata nelle teorie proposte da Apel e da Habermas ai tempi di media come la radio e la televisione, delle etiche della comunicazione. Si può facilmente immaginare che il risultato dei tentativi attuali sarà lo stesso che quello dei loro precursori: migliaia di pagine di esortazione alla virtù e alla veracità, alla probità scientifica e alla trasparenza comunicativa, che saranno citate da tanti, lette da pochi e praticate da nessuno, in omaggio a un altro detto di Talleyrand, e cioè che è sempre bene attaccarsi ai principi, giacché presto o tardi finiscono per cedere. Il punto è che alle fake news, shitstorm, bullshit, hate speech non si rimedia creando squadre di fact checking (chi ci garantisce che la correzione non sia a sua volta una bufala? E comunque, in buona regola giornalistica, le smentite non fanno che raddoppiare la notizia che si voleva smentire), né moralizzando il mondo, disegno decisamente troppo vasto, ma riducendo le ragioni che possono indurre a produrre bufale in buona o in malafede.

Le turbe che si sono avventate su Capitol Hill incoraggiate da Trump manifestavano lo stesso disagio che le aveva portate a votarlo, ossia il sentirsi prive di valore e non troppo sottilmente disprezzate da élite liberali e più istruite di loro. Quelle élite, formatesi nelle migliori università, amavano pensare di essere dove erano per via dei loro meriti, e reputavano che la grandezza della loro nazione consistesse nell’avere attuato un processo virtuosamente meritocratico, il cui merito maggiore stava nell’avere permesso a loro, o a persone molto simili a loro, di diventare presidenti degli Stati Uniti. Non stupisce che gli esclusi, che erano poi una maggioranza, abbiano concordemente votato per Trump, e abbiano poi protestato per la sua mancata rielezione che ai loro occhi era una fake news esattamente come fake news erano tutte quelle che l’élite liberale enunciava a proposito dell’autorità della scienza, della efficacia dei vaccini e della virtuosità del progresso sociale su base meritocratica (una meritocrazia ipocritamente definita come oggettiva). Possiamo facilmente immaginare che quelle turbe vedrebbero in una commissione di fact checking una ennesima strategia di dominio delle élite (come dargli torto?), e in tutta l’impresa una montagna di fake news. Perché, non dimentichiamolo mai, come l’inferno in Sartre le fake news sono sempre gli altri: i repubblicani per i democratici e viceversa, i no vax per i pro vax e viceversa.

Il caso dei no vax, in Italia, è stato particolarmente interessante perché, diversamente che nella disfida di Capitol Hill, aveva una componente di élite, intellettuali che rivendicavano il diritto al dissenso, e una componente di massa, gente comune che vedeva nell’opposizione alla politica vaccinale una via efficace per manifestare il proprio scontento, in un momento in cui le vie classiche dello sciopero, dei sindacati e dei partiti non sono più praticabili a causa dei cambiamenti del lavoro e della politica degli ultimi decenni. Ora, non è importante convincere gli intellettuali, perché sono una minoranza, ma è importante rimediare allo scontento della maggioranza, che espone le democrazie occidentali alla perenne minaccia di un voto di protesta o di un commissariamento della politica per opera di governi tecnici con scarso sostegno popolare. E, per rimediare, non occorrono scuole di etica della comunicazione, ma riforme reali in un mondo reale, e risorse per attuarle.

Bene, ma dove trovare queste risorse? Nel Web, purché non ci si limiti a considerarlo come una infosfera, che è, in buona sostanza, lo specchietto per allodole di cui si servono le piattaforme per attirare gli umani, offrendo loro informazioni (vere, inesatte o completamente false) e permettendo agli umani di dire la loro (vera, inesatta o completamente falsa) ottenendo ciò che è più caro a un essere umano, ossia sentirsi dar ragione da un proprio simile, che non mancherà mai, anche di fronte all’affermazione secondo cui la Terra è esagonale e l’America è stata scoperta da Foucault. Se le piattaforme hanno messo su l’infosfera, ossia hanno dato un profilo commerciale a ciò che, nella concezione originaria di Tim Berners-Lee, era una accademia scientifica, è stato dapprima per ottenere profitti dalla vendita di spazi pubblicitari, e poi perché si sono accorte di ciò che non vedono ancora coloro che riducono il Web a infosfera, e cioè che la grande ricchezza del Web non sta nelle informazioni che propone, ma nei dati che raccoglie da coloro che cercano informazioni o enunciano opinioni.

L’isolotto bufalesco e imbufalito della infosfera può infatti indurre gli osservatori a pensare che il Web contenga soprattutto bufale, ma la bufala più madornale è che tutto si riduca alla infosfera. Intorno alla infosfera c’è un oceano, la docusfera, che contiene miliardi di informazioni assolutamente vere, perché sono il resoconto veridico degli atti compiuti dall’umanità. Mentre cerco sul Web le prove del fatto che la Terra è piatta e che la Luna è fatta di formaggio sto rilasciando alle piattaforme informazioni assolutamente veritiere sui comportamenti di un terrapiattista e di un lunaformaggista. La piattaforma se ne servirà per vendermi libri sui miei temi favoriti (se è una piattaforma americana) o per mandarmi in un campo di rieducazione (se è una piattaforma cinese). Ma questo non toglie che delle piattaforme europee, forti della legge sulla portabilità dei dati, potrebbero servirsi di quel tesoro di informazioni per promuovere un nuovo benessere e una nuova giustizia sociale, rimuovendo le ragioni dello scontento che mi hanno portato sui siti terrapiattisti e lunaformaggisti. Per far questo occorre una sola condizione: la capacità, che non è solo filosofica – visto che le prime ad accorgersene sono state le piattaforme – ma che sarebbe bene diventasse anche patrimonio della nostra filosofia e della nostra politica, di scavare sotto l’infosfera e di valorizzare a beneficio dell’intera umanità i tesori, validi perché veri, della docusfera.

Guida alla lettura

L’indice di leggibilità Gulpease misurato su Farfalla-project assegna al testo un punteggio di 44 su 100, è dunque considerato difficile da leggere. Naturalmente la prosa del professor Ferraris è affascinante, ma non vorreste provare a renderla leggibile anche per chi ha una licenza media? Provate a riscrivere il testo, usando un lessico più comune e, soprattutto, scrivendo frasi più brevi.