Mi rendo conto che il mio intervento, innescato dal libro di Drabovitch, arriva con un anno di ritardo. Il tema dell’edizione 2022 del Festival Passepartout – “Fragile Occidente” – sarebbe stato più appropriato. Ma purtroppo la fragilità dell’Occidente e la fragilità della libertà sono temi che rimangono tuttora (e forse più che mai) attuali.
L’ostilità nei confronti di fascismo e nazismo da parte di Drabovitch è dichiarata, anche se dell’uno e dell’altro nel suo libro si parla pochissimo; molto più ampia l’aspra critica del regime sovietico sotto Stalin. L’analogia tra i moderni regimi autoritari è data per scontata, come mostra una pagina che evoca adunate naziste, fasciste e sovietiche. Dietro l’immagine di queste moltitudini si avverte l’eco di un’opera di cui Drabovitch sottolinea l’importanza, pur prendendone le distanze perché «violentemente antidemocratica» (e, possiamo aggiungere, razzista): Psychologie des foules (Psicologia delle folle) di Gustave Le Bon (1895). Si tratta di un libro famoso, tradotto in una quantità di lingue, ristampato fino ad oggi, che fu annotato da Lenin e da Kemal Atatürk, e forse letto da Hitler. Tra gli ammiratori di Le Bon troviamo, oltre a Theodore Roosevelt e a Georges Clemenceau, Benito Mussolini. Nel 1926 Mussolini, ad un giornalista francese che l’intervistava, disse: «Ho letto tutta l’opera di Gustavo Le Bon; e non so quante volte abbia riletto la sua Psicologia delle folle. È un’opera capitale, alla quale ancor oggi spesso ritorno».
È una dichiarazione impegnativa. Ma che cosa aveva imparato Mussolini da Le Bon? Possiamo provare a rispondere partendo da una citazione tratta da Psicologia delle folle. Dopo aver parlato a lungo delle «masse», Le Bon improvvisamente usa il termine «folle»: «Le convinzioni delle folle rivestono i caratteri di sottomissione cieca, d’intolleranza feroce, di bisogno di propaganda violenta, che sono inerenti al sentimento religioso; cosicché si può dire che tutte le loro credenze hanno una forma religiosa. L’eroe acclamato dalla folla è veramente un dio, per essa. Napoleone lo fu per quindici anni, e mai divinità ebbe adoratori più perfetti, mai inviò più facilmente gli uomini alla morte. Gli dèi del paganesimo e del cristianesimo non esercitarono mai sulle anime un impero così assoluto».
Da un’opera che ha conosciuto un successo mondiale non ci aspetteremmo una descrizione così grossolana, imbottita di luoghi comuni. Ma non si tratta di una descrizione neutrale, con pretese scientifiche. Le Bon dichiara esplicitamente di aver scritto il suo libro per opporsi all’avanzata del socialismo, trasformando le masse in folle. Nella folla assoggettata da un eroe, paragonato a un dio, si riconosce un programma d’azione politica rivolto ai meneurs, come li chiama Le Bon – letteralmente, i “conduttori” delle folle (tra poco proporrò una traduzione più pertinente del termine).
La pagina che ho appena citato è stata scritta nel 1895. Letta oggi ha un sapore amaramente profetico. Nella religione secolarizzata che ha circondato, nonostante la loro diversità, le figure dei capi dei regimi autoritari novecenteschi, riconosciamo il risultato di un uso consapevole dei mezzi di comunicazione: adunate, radio, cinema. Le folle, scrive Le Bon, sono deboli, irrazionali, esposte al contagio: «un fenomeno da porsi in relazione coi fenomeni di ordine ipnotico».
Ritroviamo l’ipnosi: quella praticata alla Salpetrière da Charcot, che l’aveva insegnata a Janet, che l’aveva trasmessa ai suoi seguaci diretti e indiretti, tra cui Drabovitch. L’importanza dell’ipnosi nell’argomentazione di Le Bon è evidente: «Osservazioni attente sembrano provare che l’individuo immerso in una folla in azione cade tosto – per effetto di effluvi emananti o per una qualsiasi causa ancora ignota – in uno stato particolare, molto prossimo allo stato di fascinazione dell’ipnotizzato nelle mani del proprio ipnotizzatore». Che Mussolini si sia identificato con l’ipnotizzatore di folle, è fuori discussione. Basta a provarlo il frammento di un discorso che Mussolini fece a Cremona il 19 giugno 1923: «Io guardo nei vostri occhi, che possono guardare i miei e interrogarmi, e domando…».
Questo passo venne citato da Curt Gutkind, studioso che curò un volume di saggi di vari autori intitolato Mussolini e il fascismo, pubblicato nel 1926 in italiano e in tedesco, con un’introduzione di Mussolini stesso. Gutkind, allora un fascista convinto, scrisse: «Il suo sguardo attira con forza magnetica migliaia di occhi nella sfera della sua volontà, scruta quegli occhi, mentre cerca di immedesimarsi nell’animo di questo o quell’individuo, i cui tratti per qualche ragione eccitano la sua attenzione. Ma il più delle volte è la magia reciproca di due grandezze che s’incrocia e incrociandosi sprizza faville. Una di queste grandezze è la Massa, che sente l’incanto dell’Uomo perché sa che è uno dei suoi, perché sa che è il suo signore».
Questo tipo di vacua retorica fascista è ben nota. Ma le metafore usate – che vanno dall’ipnotismo alla magia, alla forza magnetica, ai sottintesi erotici – sono significative, dato che si tratta di un linguaggio condiviso dall’osservatore (Gutkind) e dall’attore principale, ossia Mussolini stesso.
Ma l’ipnotizzatore di folle è un meneur: un termine usato in senso politico da Hyppolite Taine, e reso popolare da Le Bon, che dedicò un capitolo di Psicologia delle folle a I conduttori delle folle (les meneurs des foules) e i loro mezzi di persuasione. Le folle (comprese le folle parlamentari) hanno bisogno di un meneur, di una guida, scrisse Le Bon, dato che «gli uomini che fanno parte di una folla non possono fare a meno di un padrone». Il termine compare in un profetico ritratto del giovane Mussolini, tracciato nel 1919 da un alto funzionario della polizia, Giovanni Gasti: «Questo scrittore efficace, questo oratore persuasivo e vivace, potrebbe diventare un condottiero, un meneur temibile». Meneur, condottiero – e poi duce, Führer. La stessa parola, in lingue diverse, delinea una sequenza tragica, condensata in pochi anni, che trasformò la storia d’Europa e del mondo.