Fugge via il futuro. Guerra Russia-Ucraina, la diaspora degli esuli russi con loro fugge via il futuro. La generazione che aveva resistito e cominciato a costruire un paese nuovo ora s’è decisa a partire per sempre, tramortita dalla vergogna per la guerra. Un’inchiesta di Masha Gessen pubblicata su LaStampa del 24 Marzo 2022 Il testo consta di. 2.604 parole. Tempo di lettura ⏱ 10′. (Traduzione di Anna Bissanti © 2022, The New Yorker)
Fugge via il futuro. Nel mondo che esisteva prima che la Russia invadesse l’Ucraina il 24 febbraio, l’aeroporto internazionale di Vnukovo a Mosca era il punto di partenza per vacanze a sud del confine: Yerevan, Istanbul, Baku. Nel primo fine settimana di marzo, mentre decine di migliaia di soldati del presidente Vladimir Putin avanzavano in Ucraina, l’aeroporto si è riempito di viaggiatori inquieti, molti dei quali giovani, in fuga. I russi che hanno lasciato il Paese dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, secondo alcune stime, sono circa duecentocinquantamila.
Che siano in patria o all’estero, i russi stanno cancellando i loro account virtuali per proteggere loro stessi e chiunque abbia messo un like, lasciato commenti, lanciato petizioni contro la guerra, o anche solo postato qualcosa che contenesse la parola guerra: tutte azioni oggi punibili con quindici anni di reclusione. Nel giro di pochissimo, la Russia è diventata un paria economico nel mondo: le luci si sono spente da Ikea, H&M e Zara. Centinaia di migliaia di persone hanno perso il posto di lavoro.
Anche il mio mondo sta scomparendo. Mi sono trasferita a New York dalla Russia otto anni fa a causa delle minacce del governo alla mia famiglia, ma la maggior parte dei miei amici e parenti sono rimasti a Mosca. A mano a mano che la pressione è aumentata, si sono adeguati. I giornalisti e gli accademici hanno cambiato professione. Gli attivisti hanno sostituito le manifestazioni con opere assistenziali. Adesso, quasi tutti quelli che conosco stanno partendo. Di casa in casa prosegue una sorta di festa. Naturalmente, festa non è la parola giusta, anche se si beve molto. Quando si fa un brindisi alla casa dell’ospite, si beve in nome di un posto che forse si sta vedendo per l’ultima volta. Il mio amico Ilya Venyavkin mi ha detto: «È un po’ come osservare tutti quelli che conosci trasformarsi in fantasmi». Il tempo è rallentato e ha accelerato nella prima settimana di guerra. Ogni giorno si distingueva dal precedente, come se appartenesse a un’epoca storica diversa.
La gente è scappata dalla Russia perché teme persecuzioni politiche, ha paura di essere arruolata e di restare isolata; scappa perché non vuole finire rinchiusa in un nuovo Paese che assomiglia in modo sinistro alla vecchia Unione Sovietica; scappa perché rimanere in un Paese che combatte una guerra è immorale, un po’ come stare a bordo di un aereo che scaraventa bombe sulle persone. La gente è partita dalla Russia perché la Russia che ha costruito e abitato sta scomparendo. E quante più persone se ne vanno, tanto più velocemente scompare. Dmitry Aleshkovsky è uno dei capi del Movimento dei volontari russi. Nell’estate del 2012, quando un’alluvione ha devastato la cittadina di Krymsk nella Russia meridionale e le autorità hanno cercato di insabbiare il caso, Aleshkovsky ha lasciato il suo lavoro di fotografo per i notiziari e ha iniziato a lavorare come volontario per aiutare la popolazione. Poi ha creato Nuzhna Pomosh (Cercasi aiuto), la sua fondazione, e un centro organizzativo di progetti di volontariato, Takie Dela (E così si va avanti). Quando è giunta notizia dell’inizio della guerra, ha capito che quella era la fine, non dell’Ucraina ma della Russia. Aleshkovsky, che ha 37 anni, ha trascorso molto a pensare ai Gulag (il suo prozio Yuz è un sopravvissuto a un campo di lavori forzati e ha descritto la sua esperienza in romanzi e canzoni). Molto tempo fa è arrivato alla conclusione che se Putin avesse mai voluto ricreare il terrore stalinista in Russia nulla lo avrebbe fermato. Se adesso bombarda l’Ucraina, non occorrerà attendere a lungo: imprigionerà molti suoi uomini. La mattina dopo lo scoppio della guerra, Aleshkovsky è salito in macchina con la moglie, la regista Anna Dezhurko, e la loro bambina di pochi anni e si è diretto a ovest, alla frontiera della Lettonia.
Giovedì notte, Lika Kremer, una dirigente di 44 anni, e il partner, il 38enne Andrey Babitsky, podcaster e editor, hanno preso parte alle manifestazioni in Piazza Pushkin a Mosca. Babitsky in passato era stato condannato al carcere per aver preso parte a una manifestazione a settembre, e una seconda condanna in meno di sei mesi avrebbe potuto costargli la detenzione. Ma non potevano non andare. Piazza Pushkin è il luogo specifico per queste manifestazioni, l’appuntamento era alle diciannove: la gente è stata perseguita per aver postato informazioni sui social media sulle manifestazioni, e quindi è sempre bene avere un piano predefinito. Kremer, Babitsky e la bambina di venti mesi sono andati in piazza Pushkin, ma l’hanno trovata sigillata dalla polizia. Era buio e pioveva. La gente indugiava di fronte alla metropolitana, trascinandosi sui marciapiedi bagnati. Babitsky è stato arrestato insieme ad alcune centinaia di altre persone, ma è stato trattenuto per poco. Il giorno seguente, Kremer e Babitsky sono volati a Venezia per i festeggiamenti per il settantacinquesimo compleanno del padre di lei, il violinista Gidon Kramer. Sono arrivati in preda a strane sensazioni, come se tutto stesse accadendo per l’ultima volta: questo li ha incoraggiati a salire a bordo di un motoscafo dall’aeroporto, e a pagare 130 euro invece di un taxi a 30 euro. Babitsky ha tormentato di domande gli altri presenti alla festa, a suo dire non arrabbiati abbastanza per la guerra. Si è così convinto che la sua famiglia doveva lasciare la Russia immediatamente. Nel nuovo regime del tempo di guerra lui potrebbe finire in prigione o darsi all’alcool fino a morirne. Tutti i loro figli, però – e tra lui e Kremer ne hanno sei, dai dieci anni vent’anni – erano a Mosca e il volo di ritorno è stato cancellato, come tutti gli altri voli tra i Paesi dell’Unione europea e la Russia. Alla fine, Kremer e Babitsky sono andati a Riga e da lì a Tbilisi, dove hanno organizzato la partenza dei loro figli, che hanno potuto lasciare la Russia accompagnati dalla ex moglie di Babitsky. Il gruppo ha lasciato la Russia l’undicesimo giorno di guerra. Babitsky parla di sé in modo sarcastico ma consapevole come di un signore russo qualsiasi che non piange mai. Quel giorno, però, aveva gli occhi pieni di lacrime. Molti di coloro che hanno lasciato la Russia sono professionisti del settore informatico; sembra che molti si siano sistemati, per il momento, a Yerevan, un hub tecnologico regionale. Altri sono giornalisti, accademici, leader di organizzazioni non governative, e stanno atterrando a Berlino, Tbilisi, Tallinn e Vilnius. La loro partenza accelera un processo in corso da tempo per chiudere sempre più la società civile russa, senza che lo stato debba perseguire e imprigionare le persone una alla volta. Durante un vertice al Cremlino del 16 marzo, sembra che Putin abbia accennato a questo esodo dicendo: «Il popolo russo sa distinguere i veri patrioti dai traditori e sputerà questi ultimi come si fa con i moscerini quando li si ingoia per errore. Sono sicuro che questa pulizia naturale e necessaria non farà che rafforzare il nostro Paese, la nostra solidarietà, la nostra coesione e la nostra prontezza a far fronte a qualsiasi tipo di minaccia».
Arrivato a Tbilisi, Kremer ha preso una camera in un ostello con un materasso sul pavimento. I suoi tre figli, di undici, dodici e quattordici anni occupano un’altra camera nell’atrio. Babitsky ha fatto notare che in circostanze normali Kremer non avrebbe mai accettato una sistemazione del genere. Kremer ripete spesso: «Siamo in purgatorio. È così che dovrebbe essere». Dice anche «Guarda come siamo privilegiati». Sono fortunati, è vero: sono insieme e hanno i loro risparmi. Kremer si augura di comprare un appartamento grande a sufficienza. Prima che le sue carte di credito non fossero più accettate, è riuscita a ritirare svariate migliaia di dollari in contanti. Due giorni dopo il loro arrivo in Georgia, ha consegnato tutto il denaro a una scuola privata in lingua russa come iscrizione e pagamento parziale della retta. Babitsky non è sicuro che la scelta sia giusta, ma Kremer dice che, se non altro, i bambini saranno «occupati per metà giornata e sfamati e assistiti mentre noi abbiamo pochissimo da dare loro». Il secondo giorno di scuola dei bambini, la figlia dodicenne di Kremer è andata a casa di una nuova amica e la vita è sembrata tornare pressoché normale.
La loro prima mattina a Tbilisi, Kolmanovsky ha portato la figlia di tre anni a fare una passeggiata. Per mezz’ora si è sentito alleggerito del peso di vivere a Mosca: ha immaginato di vivere lì per sempre, in quella soleggiata città collinare, forse mettervi radici per sempre. Nelle chat su Telegram, subito dopo, ha letto però che i nuovi emigrati a Tbilisi condividevano le loro storie di rifiuto da parte dei padroni di casa locali, di alberghi e banche. I russi non erano graditi.
La Georgia è una delle destinazioni romantiche preferite dai russi, sia turisti sia espatriati. È bella, ha prezzi abbordabili e concede ai russi senza visto di trattenersi fino a un anno. La Georgia per altro è stata anch’essa oggetto di aggressione militare da parte della Russia nel 2008: circa il 20 per cento del suo territorio oggi è occupato dalla Russia. A meno di un’ora di distanza da Tbilisi, i soldati russi stanno costruendo una nuova frontiera di filo spinato lungo una linea quanto più vicina alla capitale, un processo che i georgiani chiamano frontierizzazione. (La vicina Armenia, dal canto suo, dipende dalla presenza dei soldati russi per mantenere il cessate-il-fuoco con l’Azerbaijan, e questo incute negli esuli russi il timore che l’Armenia possa rispedirli indietro, se la Russia ne facesse richiesta). La Georgia si è rifiutata di aderire alle sanzioni economiche internazionali contro la Russia per la guerra in Ucraina. «Che scelta abbiamo?», mi dice Zurab Abashidze, che fa il rappresentante speciale del governo georgiano nelle relazioni con la Russia. «Aderire alle sanzioni farebbe crollare l’economia della Georgia in una settimana, mentre la Russia non ne risentirebbe. E con l’esercito russo qui, abbiamo la responsabilità di evitare di agire in modo da complicare la situazione». Ospitare decine di migliaia di russi in fuga dal regime di Putin equivarrebbe a una complicazione. I normali cittadini georgiani, nel frattempo, sono cauti nei confronti dei russi semplicemente perché sono russi. Online e per strada, i residenti di Tbilisi hanno accusato i russi di essere arrivati in Georgia soltanto per fuggire dalle sanzioni economiche. Sembra che le bandiere gialloblù siano appese e sventolino ovunque, a vetrine alterne. All’ingresso di un ristorante dove incontriamo il rappresentante di un corpo diplomatico, sulla porta è affisso un cartello: «Gloria all’Ucraina! Il mondo deve fermare l’aggressione russa. La Russia è un’occupatrice. Putin è il male in persona. Se non siete d’accordo con queste affermazioni, siete pregati di non entrare». La Banca nazionale della Georgia ha iniziato a chiedere ai potenziali clienti che sono cittadini russi di firmare un documento nel quale dichiarano che la Russia è una potenza occupante e si impegnano a non diffondere la propaganda russa. Lo studioso di Stalin, Venyavkin, è stato felice di firmare, ma la banca ha respinto ugualmente la sua richiesta di aprire un conto.
Nessun confronto è possibile tra Kiev, una città sotto bombardamento, e Mosca. Tranne, forse, questo: quel qualcosa – la resa alla tirannia di Putin – c’è già stato a Mosca. «Ci sarà vero terrore» dice Primakova. «Noi osserveremo da lontano. Ci saranno persone disposte a lanciarsi tra le fiamme. Per loro sarebbe più facile se tutti noi ci lanciassimo tra le fiamme con loro». Primakova è alta un metro e cinquanta, Komanovsky pochi centimetri di più. Indossano entrambi gli occhiali. E tra tutti e due hanno sei figli. Entrambi hanno ripetutamente scaraventato a terra poliziotti di Mosca in assetto antisommossa. «Ho fatto tutto quello che ho potuto, ma non sono un’eroina. Non mi sento in colpa nei confronti degli ucraini, perché non credo che quello che sta accadendo lì sia fatto in mio nome. Tuttavia, mi sento colpevole per tutte le persone che a Mosca si stanno tirando indietro. E, ogni volta che qualcuno parte, tiro un sospiro di sollievo e mi rendo conto di quanto fossi preoccupata per loro. Provo un sollievo egoista, perché significa che mi sento meno in colpa». Responsabilità, colpa, rimorso, vergogna: individuali o collettivi, questi sentimenti non fanno fatica ad apparire in ciascuno dei nuovi esuli russi. «Per i primi cinque giorni non sono riuscito a impedire alle mie mani di tremare», ha detto Aleshkovsky. «Avrei preferito letteralmente bruciare dalla vergogna. Siamo tutti responsabili per questa guerra».
Nel 1968, il nonno di Babitsky, Konstantin Babitsky, fu arrestato insieme ad altre sei persone nella Piazza Rossa per aver manifestato contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia e fu esiliato in Russia per tre anni. La nonna Tatyana Velikanova, invece, fu arrestata nel 1979, per aver pubblicato un giornaletto clandestino sulla persecuzione politica. Condannata a quattro anni di prigione e a cinque di esilio interno, durante la perestroika ha rifiutato l’amnistia e ha scontato la sua condanna fino alla fine. Babitsky aveva cinque anni quando finalmente è tornata in famiglia a Mosca. «Era una donna d’acciaio» dice Babitsky che non crede di aver ereditato da lei questa caratteristica, bensì la sua volontà assoluta a rispondere delle sue azioni. «Se devo continuare a considerarmi russo, se continuerò a portare nel mondo la cultura russa come un gioiello, allora devo riconoscere che la cultura russa contiene la possibilità di questa guerra, e che è possibile leggere Tolstoj, l’autore dei testi più belli contro la guerra che siano mai stati scritti, e al contempo fare questo». A Mosca, a dicembre, Irina Shcherbakova, studiosa di storia dei Gulag, ci ha accompagnati in una visita della mostra che ha curato per il Memorial, la prima e più importante organizzazione russa di Storia e dei diritti umani. Uno degli oggetti esposti era un vestito blu scolorito e rammendato innumerevoli volte in più punti, uno di quegli oggetti materiali che racchiudono le vicissitudini del secolo sovietico: la proprietaria era una signora che lo indossò a teatro, dove poi fu arrestata, e per tutti gli interrogatori di un anno in carcere. Adesso Shcherbakova è a Tel Aviv, e spera di potersi recare presto in Germania. Il tribunale il 28 febbraio ha ordinato la chiusura di Memorial, e il 4 marzo la mostra è stata vandalizzata in occasione di un raid della polizia. Quello stesso giorno, il Centro Sakharov, museo e istituzione culturale che prende il nome dal dissidente e Premio Nobel per la pace, ha chiuso i battenti. Sverdlin, direttore di Nochlezhka, un’associazione per i senza tetto, ha trascorso i suoi primi giorni di esilio a Tallinn, aiutando altre persone a fuggire dalla Russia distribuendo posti in aerei noleggiati da dirigenti del settore hi-tech. Ha organizzato una videoconferenza su Zoom per dire al suo staff che si sarebbe licenziato: restare al timone dell’associazione avrebbe voluto dire metterla a rischio. Ha programmato di guidare attraverso l’Europa orientale e meridionale fino in Georgia, dove sono andati a vivere molti suoi amici. «Credo che ritornerò in Russia», ha detto. «Sono consapevole di tutti coloro che se ne andarono nel 1918-19 pensando che sarebbero tornati entro un paio d’anni e invece l’hanno fatto settant’anni più tardi. Credo, però, che adesso il regime sia in agonia, un’agonia molto dolorosa per il paziente e per il mondo che lo circonda. Ma penso anche che finirà tutto entro un paio di anni e io potrò tornare!».
Guida alla lettura
L’inchiesta di Masha Gessen si fonda sulla testimonianza dei russi espatriati. Individuate tutte le persone menzionate, fatene un elenco e riassumete per ognuno la storia e le parole. Completate la scheda che abbiamo preparato.
Ilya Venyavkin. «È un po’ come osservare tutti quelli che conosci trasformarsi in fantasmi». Studioso di Stalin avrebbe firmato volentieri la richiesta della Banca della Georgia di sottoscrivere una dichiarazione anti-Putin, ma la banca ha respinto ugualmente la sua richiesta di aprire un conto. Dmitry Aleshkovsky. Movimento dei volontari russi. Estate del 2012, ha lasciato il suo lavoro di fotografo ha creato Nuzhna Pomosh (Cercasi aiuto), la sua fondazione, e un centro organizzativo di progetti di volontariato, Takie Dela (E così si va avanti). Ha 37 anni, ha riflettuto sul Gulag (l'esperienza del prozio Yuz), pensa che Putin potrebbe ricreare il terrore staliniano. La mattina dopo lo scoppio della guerra, con la moglie, la regista Anna Dezhurko, e la loro bambina di pochi anni e si è diretto a ovest, alla frontiera della Lettonia. Andrey Babitsky....