Giorno della memoria 2025

⬅️ Per il giorno della memoria 2025 vi proponiamo di vedere un film. Si intitola 𝑳𝒂 𝒛𝒐𝒏𝒂 𝒅’𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒆𝒔𝒔𝒆, scritto e diretto da Jonathan Glazer, vincitore di due premi Oscar. Il film è tratto dall’omonimo romanzo del 2014 scritto da Martin Amis, è stata presentata in concorso al Festival di Cannes 2023. Per saperne di più sul film, consultate la voce “La zona di interesse” su Wikipedia.

Giorno della memoria 2025. La recensione al film dal Blog di 𝐆𝐢𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐂𝐚𝐧𝐨𝐯𝐚 è datata 26 febbraio 2024.

Giorno della memoria 2025. Nero. Ancora nero. Solo nero. Per qualche minuto – un tempo che sembra interminabile per lo spettatore in sala – lo schermo su cui si proietta La zona d’interesse di Jonathan Glazer, dopo l’apparizione/sparizione del titolo, resta insistentemente vuoto e oscuro. A suggerire che è con il non visibile (con il non mostrabile?) che dovremo fare i conti? Può significare che quella non è che la prima di una serie di soglie con cui il film ci porterà a confrontarci? A prepararci a oltrepassare il confine fra il nostro mondo e quello in cui il film sta per immergerci? Ma è poi così dissimile, il nostro mondo, da quello della famigliola del comandante Höss, che vive in una villetta con giardino e piscinetta al limitare del lager di Auschwitz?

Lo schermo è nero ma non è muto: l’assenza di immagini è compensata dall’inondazione di suoni. La musica di Mica Levi che risuona sullo schermo buio, distorta e dissonante, non è che l’ouverture di una partitura che per tutta la durata del film si alternerà con il sound design di Johnnie Burn e ci farà sentire i rumori e gli stridori dell’inferno. Non vedremo mai cosa succede nel lager. Vedremo tutt’al più in lontananza il fumo denso che esce dai camini a significare che i forni crematori di cui Höss è responsabile stanno lavorando a pieno regime.

Non vedremo e non vediamo ma sentiamo. Urla, grida, minacce, invocazioni. Colpi d’arma da fuoco, abbaiare di cani, ordini gridati in lontananza, raffiche di mitragliatrice, grugniti, boati, latrati, lamenti. Un costante e assordante mormorio di morte. Il suono del genocidio programmato ci entra nelle orecchie come uno stillicidio continuo e genera un disagio acustico che ci spinge a immaginare cosa sta accadendo dietro il muro, là ove il nostro sguardo non può arrivare.

Glazer – adattando e snellendo l’omonimo romanzo di Martin Amis – ci mostra solo il “fuori” del lager. La vita quotidiana della famigliola. I bagni nel fiume. La cura della serra e del giardino. Le cene in sala da pranzo. L’educazione dei figli. La distribuzione della biancheria e delle pellicce sottratte alle donne ebree rinchiuse nel lager. Il comandante e la moglie Hedwig dormono in letti separati, ma sono convinti – lei, interpretata da Sandra Hüller, lo dice apertamente – che quello sia il paradiso. Il loro Paradiso. Banale dire che stiamo assistendo all’ennesima messinscena della banalità del male. Banale perché qui il Male è tutt’altro che banale. E’ piuttosto cinico, algido, sprezzante. Normale. L’inferno degli altri è la condizione per tutelare e preservare il loro paradiso.

Jonathan Glazer gira la quotidianità con piani fissi e volutamente statici, spesso utilizzando anche le riprese effettuate da videocamere di sorveglianza collocate un po’ ovunque dentro la villa. Quasi nessun primo piano. Le inquadrature come gabbie dentro cui i personaggi sono come imprigionati. L’amministrazione dell’Olocausto e la cremazione degli ebrei come pianificazione di un’ordinaria procedura di lavoro. Ci sono 400.000 ebrei ungheresi che stanno per arrivare? bisogna garantire che i forni siano in grado di “smaltire il lavoro”. Dicono così, nelle loro eleganti divise di morte, gli ufficiali nazisti. La manutenzione dell’orrore. La pianificazione scientifica della morte di massa. Il volto freddo e distaccato della criminalità del potere. Che ama i cavalli e i fiori, ma non ha nessuna empatia verso gli esseri umani.

Che l’Olocausto fosse non visibile e non mostrabile lo sapevamo già, almeno dai tempi di Shoah di Clade Lanzmann.

Jonathan Glazer lo conferma con un film che ha il coraggio di assumere il punto di vista dei carnefici e degli assassini. Quelli che nel dopoguerra si sono autoassolti dicendo che stavano soltanto eseguendo ordini. Milioni di esseri umani gassati nei forni come normale, ordinaria amministrazione. La burocrazia dell’orrore, direbbe Godard. Il risultato è agghiacciante.

Quando il comandante Höss legge alla figlia la fiaba di Hansel e Gretel, e racconta che la ragazzina riesce a salvarsi e liberarsi infilando la strega in un forno e bruciandola, lascia forse intravvedere un’antropologica tensione verso il rogo? Chissà. Chi è e cosa fa quella bimba ripresa con una camera termica che in un bianco e nero spettrale, come un negativo fotografico, sembra seminare qualcosa nei campi? Perché in due occasioni lo schermo diventa totalmente rosso e poi bianco? E cosa vede Höss quando vomitando sangue buca il tempo e vede con noi i mucchi di povere scarpe sfondate e di stampelle ammassate nelle teche della Auschwitz contemporanea trasformata in un perpetuo museo dell’orrore?

In che tempo e in che luogo siamo noi spettatori? Siamo davvero al di qua della soglia del Male? che effetti ha prodotto il film su di noi? Ha acceso l’immaginazione? O l’ha ammutolita e precipitata nell’afasia? E chi non sa nulla di ciò che realmente accade là, oltre il muro, nell’inferno sonoro del nero, come esce dalla visione del film?

Domande. Dubbi. Interrogativi. Pensieri. Silenzi. Una sola certezza: da un film così si esce con addosso un disagio glaciale e sottile. E senza alcuna certezza su dove sia davvero, oggi, la soglia che il film non ci ha fatto attraversare.