«La gentilezza non dura. Solo l’arte dura», dice Colm a Padraic; non si può trascorrere la propria vita a discorrere di stronzate con uno sciocco. Stronzate, letteralmente: «L’altro giorno mi hai parlato per più di due ore di quello che hai trovato nel letame della tua asinella. Due ore!». Come impiegare allora questo tempo? Essere buoni sulla terra, gentili, giusti, come Padraic (comunque pure questo non è facile: «it takes strenght to be gentle and kind» – cantava Morrisey)… o essere ricordati per sempre – ma da morti – per ciò che si ha fatto: per l’arte, per l’illusione della vita eterna che questa ci regala (o almeno, provarci). Ma l’arte si sconta con isolamento, e sacrificio.
E solitudine e noia generano violenza – contro gli altri e contro sé – sembra volerci dire McDonagh. Questa piccola isoletta al largo d’Irlanda, in verità, è piena di violenza. Invisibile agli occhi, ma vera. Si nasconde nelle case, nei rapporti famigliari, nei segreti. Ognuno dei personaggi conserva in sé (e cela) le proprie tristezze, i suoi tormenti. Nessuno sfugge. La sorella di Padraic, Siobhan, piange di notte, in silenzio. L’unica cosa che tiene in vita la locale negoziante è il gossip più stupido di persone stupide e disperate. Il poliziotto del paese molesta suo figlio, suo figlio è tormentato da un senso immenso di impotenza, e nessuno gli vuole bene. E di chi è la colpa? Della noia, della monotonia, o dell’impossibilità di una via di fuga? Di tutte e tre queste cose?
Se in In Bruges lo spazio dove si svolgeva la storia, la città belga, era un vero e proprio Purgatorio – dove due killer sono intrappolati in attesa di giudizio (saranno uccisi oppure no?) qui l’ambiente in cui si muovono i personaggi assomiglia più a un carcere. Che chiude, opprime. Il paesaggio stesso – per quanto splendido – è in fondo monotono, piatto. Il mare funziona da barriera – muro blu, inespressivo. Di fronte, sulla terraferma, la guerra (quella Civile Irlandese – siamo nel ’23). La Storia. Ma distante, quasi irreale – un rumore fuori scena. Noi siamo qui fuori dalla Storia, dalla vita, lontani; Storia e vita non appartengono all’isola. Inisherin non è che il territorio della noia. Dove anche bontà e affetto alla fine si tramutano in vendetta e meschinità.
A Inisherin anche colline e prati sembrano personaggi, attraversati dalle loro inquietudini. Il paesaggio è specchio delle emozioni dei suoi abitanti. In lunghe inquadrature aeree sorvoliamo alte scogliere e verdi campi limitati da muretti di sassi, sotto una luce soffice filtrata da croniche nubi atlantiche. Fra qualche situazione buffa e la tenerezza di un’asinella (o di un Border Collie) ci cattura la malinconia. Questi posti, dice Colm osservando ciò di cui parla, «sono carichi di tragedia». Tragedia sul serio. “The Banshees of Inisherin” (tradotto in italiano “Gli spiriti dell’isola”) spesso fa ridere, vero, ma è a conti fatti un film tragico. La noia è un sentimento che avvinghia tutto. È fisica, è concreta – poche cose da fare, poche da vedere. Interni spogli e pudding, umidità. Nulla di nuovo sotto il sole dell’isola. Ma è anche un abito dell’anima: un modo di esistere in questo spazio, senza possibilità di fuga. «Oh… ecco un altro sogno che se ne va» sospira, osservando un piccolo lago del colore del piombo, un innamorato deluso.
Le facce scelte per Inisherin sono quelle giuste: poco piacenti, spesso persino brutte, noiose e mediocri (questa una qualità che spesso non si rintraccia nei film italiani: da noi le facce cinematografiche sono spesso fin troppo pulite – pertanto irreali). È come se nell’inespressività di questa gente fosse scritto tutto l’abisso di inevitabile tristezza di questo piccolo mondo antico – nel loro pallore, nei capelli sporchi. E anche in quello che vestono: vecchi maglioni sformati (comunque belli, va detto, splendidamente irlandesi e soffici). Certo anche interpretare personaggi noiosi non deve essere stato facile – per un attore forse la cosa più difficile, entrare in sintonia con una persona del tutto mediocre. Questo valido in particolare per Colin Farrell – la sua interpretazione è magistrale – che rende sì con grande intensità il dolore di Padraic, ma soprattutto la sua limitatezza.
I personaggi di McDonagh abitano ossessioni: in Tre manifesti a Ebbing, Missouri una madre è alla disperata ricerca dell’assassino della figlia. In Sette Psicopatici, la fissazione di uno sceneggiatore di finire il suo script si congiunge alla reale mania omicida di un serial killer suo amico. In The Banshees of Inisherin l’ossessione è più sottile, ma presente: Colm è talmente preso dall’evitare Padraic che sembra dimenticare tutto il resto, anche le cose belle, e quella che potrebbe essere la sua vera ossessione positiva, terapeutica – la musica.
Poi, come nelle tragedie classiche, c’è destino e c’è profetessa. Nel mito Irlandese una Banshee urla all’incombenza di una morte. Il suo grido è annuncio di tragedia. Chi sia la vera Banshee di questa storia non è facilissimo saperlo – probabilmente la vecchia e isolata signora McCornick. Soprattutto nell’aspetto: coperta da un nero perenne (la gente si nasconde dietro i muretti quando la vede), parla per enigmi e insinuazioni. Ma dice la verità. È Jung a descrivere la depressione proprio come «una vecchia signora vestita di nero». Il filosofo svizzero suggerisce però di non scacciarla, questa tetra signora; ma piuttosto di invitarla a casa, trattarla da ospite. Ma tutti qui non fanno altro che sfuggirle. E così si rovinano. Sta proprio qui la colpa di questa gente: scappare dal dolore, dall’inevitabilità della noia, tentare di truffarla o far finta che non esista. Ma McDonagh non dà risposte. È davvero meglio accettarla (o perlomeno più onesto), quest’anziana in nero, abbandonare velleità e speranze di redenzione… o no?
Ma in questo film McDonagh vuole parlare anche di Irlanda. Il rapporto tra i due protagonisti del film fa in qualche modo da specchio alla Guerra Civile Irlandese: così succede che il tuo vicino d’improvviso diventi il tuo nemico. E forse – viene da pensare – anche in passato questi due, volendosi bene, si son fatti del male a vicenda, uno impedendo all’altro di lasciare l’isola e quindi di crescere (un po’ come l’Ira e il governo irlandese, amici, alleati, e poi di colpo avversari). Vivere a Inisherin vuol dire causare dolore, e riceverne altrettanto (vivere in Irlanda, più in generale). Subire violenza non solo dagli inglesi, prima, ma poi anche, più tardi, dai tuoi stessi amici. Cioè da te stesso. Tra tempeste notturne e pinte di Guinness, incendi, alcune risate (ma si ride sempre chiedendosi «è giusto farlo o no?») nelle due ore di questo film tutti cercano amore e nessuno sembra trovarlo. Padraic non lo trova in Colm, Colm in sé stesso, Siobhan nell’isola. The Bashees of Inisherin, Gli spiriti dell’isola, è uno splendido film, e doloroso. «Nessuno ha ormai più il coraggio di fare film tristi», ha dichiarato McDonagh in una recente intervista. Questo di sicuro è un film triste, triste e tragico. Ma anche divertente, e quanto è difficile – quanto è raro – riuscire a tenere assieme queste tre cose.