Jheronymus Bosch. Analisi del “Giardino delle delizie” di Finestre su Arte, Cinema e Musica per milanoplatinum.com pubblicato il 22 febbraio 2016
Mentre gli artisti del Rinascimento italiano ed europeo, come Leonardo da Vinci e Albrecht Dürer, si volgevano allo studio rigoroso e oggettivo della natura, le opere del fiammingo Jheronymus Bosch fiorivano di deliri vegetali e animali più sconvolgenti e fantasiosi di ogni bestiario dell’antichità classica o medievale.
Bosch fu un pittore olandese che attraversò tutta la seconda metà del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento e che, mentre in Italia si compiva la celebrazione umanistica dell’intelletto, poneva piuttosto l’accento sugli aspetti trascendenti e irrazionali della vita umana. Egli seppe mettere in scena con grande forza visionaria i conflitti dell’uomo rispetto alle regole imposte dalla morale e dalla religione, e quindi la follia, i vizi, i peccati e le punizioni infernali.
La sua opera più ambiziosa rimane il trittico de Il giardino delle delizie (o Il Millennio), databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid. È un’opera di grande visionarietà e densa di rimandi simbolici, a tal punto complessa che storici e critici non sono mai giunti a darne una lettura interpretativa concorde.
È probabile che il committente dell’opera sia stato Enrico III di Nassau-Breda, Governatore di molte delle province degli Asburgo nei Paesi Bassi, incallito collezionista di opere d’arte e di curiosità esotiche. Alla morte di Enrico III l’opera passò nelle mani del nipote Guglielmo I d’Orange, il fondatore della Casa d’Orange-Nassau e comandante della rivolta olandese contro l’Impero spagnolo alla fine del XV secolo. Nel 1568 il Duca d’Alba confiscò il dipinto e lo portò in Spagna, dove divenne proprietà di Don Fernando di Toledo, dell’Ordine di San Giovanni, figlio naturale del Duca. Dopo la sua morte, all’asta che ne conseguì, Filippo II di Spagna acquistò il Giardino e qualche anno dopo lo portò all’Escorial, dove è rimasto fino al 1939, fino cioè alla sua definitiva collocazione nel Museo del Prado.
Lo sportello di sinistra raffigura Il paradiso terrestre, con la creazione di Adamo ed Eva, lo scomparto di centro è Il giardino delle delizie mentre lo sportello di destra è conosciuto come L’Inferno musicale. Come nel trittico del Carro di fieno, la tavola centrale è quindi affiancata da uno scenario paradisiaco e uno infernale.
Nel primo pannello troviamo la scena, ambientata nel Paradiso Terrestre, in cui Dio presenta Eva al cospetto di Adamo. Dietro la donna e in primo piano giocano nell’erba numerosi animali. Qui, da una fossa circolare, escono fuori uccelli e bestie alate finemente rappresentati nei particolari, alcuni realmente esistenti e altri frutto di fantasia. Un pesce con mani umane e becco di anatra stringe un libro emergendo dalle acque torbide, mentre attorno a lui altri animali dai colori oscuri si mimetizzano nel profondo della pozza. Fuori dall’acqua alcuni rapaci si cibano di rane mentre un felino stringe in bocca una preda.
Al centro del pannello, nelle acque di un laghetto, si trova una complessa costruzione rosa, identificata da alcuni critici come la “Fontana della vita”, formata da motivi floreali e parti in vetro, fittamente incastonata di gemme preziose. Su di essa si posano uccelli di diverse specie, presenti in gran numero anche nella parte sinistra del lago. Su queste sponde si abbeverano alcuni animali, reali o mitologici, come un unicorno. A destra, invece, risalgono dalle acque salamandre e altri anfibi verso una roccia antropomorfa. Più in alto si stende un vasto paesaggio, popolato da numerosi animali, tra cui una giraffa, un elefante e un leone in procinto di divorare una preda appena uccisa, che testimoniano l’influsso della letteratura concernente viaggi esotici.
Già in questo primo pannello, l’estasi calma della Creazione di Eva convive con segnali inquietanti di anomalia e mostruosità: basta osservare la parte in basso, brulicante di animali dei quali solo alcuni hanno forma reale; la maggior parte è fantasiosa, ibrida e metamorfica, grottesca, a tratti spaventosa. Lo stagno in basso da cui fuoriesce tale bestiario sembra un elemento estraneo al paesaggio dell’eden; ha un aspetto tetro e infernale e infatti è raffigurato con gli stessi colori del pannello di destra.
Anche la parte centrale del Trittico contiene molti elementi di inquietante anomalia, scene e figure che ci ripugnano per la loro incongruenza, che entrano in conflitto con la ragione, la quale si ritrova incapace di conferire significati adeguati. Questo pannello rappresenta il giardino delle delizie, raffigurante l’umanità che si abbandona ai piaceri mondani: l’amore, la lussuria, la fragile bellezza, la dolcezza dei frutti, godimenti e gioie di carattere effimero e transitorio. Secondo altre interpretazioni, esso raffigura la condizione dell’umanità innocente e priva di pudore, così come sarebbe stata se non fosse avvenuto il peccato originale.
In questa distesa verde abbondano figure maschili e femminili nude, circondate da enormi varietà di animali, piante e fiori. Con uno straordinario gusto per l’eccesso e il dettaglio, creature fantastiche si confondono con elementi reali, frutti comuni vengono rappresentati in forme gigantesche e sproporzionate. Le figure sono impegnate in sfrenati giochi amorosi e varie altre attività, in coppie o in gruppi più vasti. Secondo alcuni critici, più che una lussuria peccaminosa, queste scene rivelano una curiosità carnale tipicamente adolescenziale.
Questo pannello centrale può essere grossolanamente diviso in tre fasce orizzontali. In basso una moltitudine di nudi, variamente raggruppati, si abbandona ai piaceri della carne. Alcune figure raccolgono e trasportano della frutta, in particolare fragole e more, e recano fiori, conchiglie e minerali di vario genere. A sinistra ci sono due amanti dentro ad una teca di vetro che rappresenta la fragilità del piacere. I personaggi giocano in acqua o saltano sui prati, cavalcano animali e spesso assumono vicino a questi posizioni particolari dai significati nascosti. Essi sono alla continua ricerca del piacere sessuale, sottolineata dagli elementi intorno, pesci morti, fragole e conchiglie, simboli di dissolutezza, mentre gli uccelli che spiano ovunque offrono una visione morbosa e ossessiva di tale peccato.
Al centro è rappresentata in un prato “la cavalcata della libidine attorno alla fontana della giovinezza”, all’interno della quale si bagnano donne che hanno sul capo corvi, pavoni e ibis. Gli uomini cavalcano i più svariati animali (leopardi, pantere, leoni, orsi, liocorni, cervi, asini, grifoni, ecc.), tratti dal repertorio dei bestiari medievali, formando un vorticoso girotondo.
In alto e in fondo si vede il “labirinto della voluttà”, con lo stagno in cui galleggia l’enorme globo grigio-azzurro della ‘fontana dell’adulterio’ e ai lati delle costruzioni bizzarre composte da vegetali e minerali. Queste ultime, dalla forma alquanto suggestiva e affascinante, hanno un significato sconosciuto, forse riconducibile a qualche principio alchemico. Nel cielo alle loro spalle si notano gruppi di personaggi in volo. Nel lago inoltre si vede una sirena, assieme al tritone simbolo quattrocentesco dell’amore. Il vicino uovo rotto è un tema che ricorre costantemente nelle opere di Jheronymus Bosch, assumendo di volta in volta significati oscuri e incerti.
A destra, poi, la voragine infernale, con al centro la meravigliosa e inquietante figura dell’uomo-albero. Quest’ultimo pannello rappresenta con grande ricchezza e complessità di immaginazione i tormenti della dannazione eterna e deve il suo nome ai numerosi strumenti musicali raffigurati, che nel dipinto, per quel processo di metamorfosi che ritroviamo costante nelle opere di Bosch, diventano strumenti di tortura, inflitta agli uomini da curiosi demoni, i “grilli” (i grùlloi dell’antichità classica, senza più la connotazione giocosa e scherzosa che avevano nella tradizione).
I grilli gotici, tanto diffusi nelle decorazioni medievali e consistenti in esseri compositi il cui elemento dominante è la testa, invadono le opere del Maestro fiammingo: numerosissime sono le teste con gambe, che costituiscono il tipo più semplice di grillo. Tuttavia Bosch non si limita a riproporre i grilli del passato; in lui essi assumono svariate e originali forme, dal grillo-uccello al grillo-insetto.
UN VUOTO DI SENSO
Il racconto del Trittico comincia con l’atmosfera chiara e tranquilla della Creazione di Eva, che rasserena l’animo dello spettatore. Il pannello centrale del Giardino conserva la stessa luce chiara ma contiene un movimento vorticoso di corpi e di oggetti che agitano e disorientano la visione. L’inferno finale ha un registro cromatico totalmente diverso, lontano dalle chiare e luminose tonalità del verde, dell’azzurro e del rosa dei primi due pannelli. Esso è cupo e buio, incendiato nella parte superiore, rischiarato come da ambigua luce artificiale in quella inferiore.
Ma, anche volendo rimanere così in superficie, la narrazione non è così lineare. Se si osserva bene il primo pannello, sotto le figure di Cristo, di Adamo e di Eva, l’inferno sembra aprirsi un varco nel paradiso stesso e, con gli stessi bagliori sinistri, fa emergere mostri e bestie di ogni tipo.
Questa, come la maggior parte delle opere di Jheronymus Bosch, è un brulicare impazzito di animali di tutte le specie, reali e fantastici, magnifici e più spesso inquietanti, grotteschi o addirittura ripugnanti e terrificanti. Un ritorno ai bestiari medievali, nei quali ogni animale, vero o di fantasia, aveva un particolare e riconosciuto significato simbolico, morale o religioso?
L’elenco delle diverse letture di quest’opera è lunghissimo, e il tono irrimediabilmente contraddittorio. Esse oscillano dall’interpretazione moralistica e didascalica a quella esoterica, dalle letture in chiave onirica e psicoanalitica, che vi vedono un’umanità tormentata dall’ansia di dar sfogo agli impulsi repressi dell’inconscio, a quelle in chiave satirica e grottesca.
Tante scene di questo dipinto sono state decifrate attraverso ricerche laboriose in una gran quantità di campi: filosofia, religione, filologia, storia del diritto, folklore, letteratura, alchimia, astrologia e via dicendo. Questo deriva dal fatto che le simbologie contenute in queste opere hanno conseguito una complessità tale, che la loro spiegazione appare, sotto certi aspetti, interminabile: essa non arriverà mai a un contenuto univocamente determinato. Tale complessità crescente di significato ha finito per implodere su se stessa e per far perdere all’immagine la possibilità di essere decifrata.
Questa è ciò che il filosofo, storico e saggista Michel Foucault, nella sua Storia della follia, chiama “ascesa della follia sull’orizzonte della Renaissance”. Essa nasce dal disfacimento del simbolismo gotico, all’interno del quale la rete dei significati spirituali era chiara e riconoscibile. A un certo punto quella rete ha cominciato a sfilacciarsi, a confondersi, quei significati a moltiplicarsi, a sovraccaricarsi, tanto che è diventato impossibile attribuire all’immagine un significato immediato e riconoscibile. Così quelle figure si sono “liberate” dalla necessità di rimandare ad “altro da sé”, cioè di essere “simbolo”; di conseguenza hanno cessato di insegnare, di ricordare e sono diventate delle forme vuote, fantastiche, affascinanti per la loro sorprendente e spettacolare immaginazione, hanno cominciato a brulicare, a moltiplicarsi, a gravitare intorno alla propria follia.
È più o meno la stessa conclusione del gesuita e storico francese Michel de Certeau, secondo il quale “il quadro si organizza in maniera da ‘provocare e deludere’ ogni traiettoria interpretativa” e che “la tracimante pienezza dei dettagli, colmando ogni particola di spazio, tuttavia determina un vuoto, e non un pieno, di significato”. (De Certeau)
Il dipinto, con la sua esorbitante abbondanza di figure e di stranezze, è come uno sterminato rebus, che gioca con il nostro bisogno di decifrare, facendo leva sulla pulsione tutta occidentale di leggere, cioè di attribuire narrazioni e significati, a ogni cosa. Porsi di fronte a questo Trittico è come compiere un viaggio in un labirinto: l’occhio erra sull’opera attraverso innumerevoli direzioni. La visione di quest’opera si compie come un’esperienza di smarrimento. Percorrendola si moltiplicano gli incontri, squisiti piaceri per lo sguardo vagabondo, ma tutte queste delizie non sono che effimere tappe di un viaggio privato di senso, perché quanti più dettagli, e forme e scene lo spettatore acquisisce, tanto più il quadro complessivo si fa opaco e oscuro. L’opera si nasconde nel proliferare impazzito di elementi. Il suo significato si cela mostrandoli, il quadro “organizza esteticamente una perdita di senso” (De Certeau). Secondo De Certeau, in breve, quest’opera, facendo credere con la sua complessità di nascondere sensi e significati reconditi, sarebbe nata solo per suscitare il mero “piacere di vedere”. Pur esistendo sicuramente strutture e rimandi simbolici e allegorici, il tutto risponde a una funzione sostanzialmente estetica.
Conclusioni simili, seppure raggiunte partendo da un’impostazione notevolmente diversa, le troviamo nelle parole di Massimo Cacciari, introduttive all’edizione italiana di due piccole opere di un altro studioso di Bosch, W. Fränger. Il filosofo sottolinea la polivalenza dei simboli, la loro provenienza da fonti diverse e spesso lontane. Cacciari definisce le opere di Bosch opere-crisi terminali di un complesso periodo storico, le quali combinano tradizioni filosofiche, religiose, iconologiche di provenienza disparata. Il che, tuttavia, non è testimonianza di superficiale eclettismo, “ma attiene alla natura del simbolo, ai modi in cui il simbolo opera. La sua spiegazione appare perciò, sotto certi aspetti, “interminabile”: essa non darà mai capo a una solida sostanza, a un contenuto univocamente determinato. Gli elementi del simbolo racchiudono polarità in continua metamorfosi”.
L’epoca di Jheronymus Bosch si situa nel passaggio dalle visioni del mondo medievale a quelle della primissima modernità (scandita da eventi come la scoperta di nuovi continenti e l’invenzione della stampa, per non parlare dei fermenti che anticipano la Riforma protestante). Questo passaggio è un periodo di crisi, che comporta anche l’elaborazione di un immaginario nuovo. In questo contesto, dunque, l’animalità, non funziona più da allegoria e da insegnamento morale, ma affascina l’uomo con il suo disordine, il suo furore, il suo nonsense, la sua ricchezza di mostruose impossibilità. Questa animalità inquietante e spaventosa svela il lato oscuro, l’irrazionalità e la follia che albergano nel cuore dell’uomo alle soglie della modernità.
FONTI
Bussagli M., Bosch, in “Art Dossier”, Giunti, Firenze, 1995.
▪ Carotenuto A., Il fascino discreto dell’orrore. Psicologia dell’arte e della letteratura fantastica, Bompiani, Milano,1997.
▪ M.de Certeau, Fabula Mistica, Jaca Book, Milano 2008.
▪ Cristante S., “L’icona che delira. Esplorazione del Trittico delle delizie di Jheronymous Bosch”, H-ermes. Journal of Communication 4 (2015), 243-311.
▪ Foucault M., Storia della follia, Rizzoli 1963.
▪ Fränger W., Le tentazioni di Sant’Antonio (con un saggio introduttivo di M. Cacciari, dal titolo Il mutus liber di Hieronymus Bosch), Milano 1981.
▪ Sebenico S., I mostri dell’Occidente medievale: fonti e diffusione di razze umane mostruose, ibridi ed animali fantastici, Università degli Studi di Trieste, A.A.2005