I politici maneschi e i pacifisti immaginari

I politici maneschi e i pacifisti immaginari. Un esempio di politico manesco. «Prendete Beniamino Netanyahu (…)  Lascia la precarietà di tregue, intese, negoziati alle anime buone che con le loro delicate pinzette, a suo parere, inciampano sempre. Israele può esistere secondo lui solo attraverso disintegrazioni senza appello né eccezioni. È l’unica Sicurezza che crede possibile».
Ma non ci sono solo politici maneschi: e i pacifisti immaginari? Sono quelli s’illudono che basti brandire il valore della pace, che basti un «pacifismo di principio, (…) per far tacere i cannoni».
Essi dimenticano la radice della parola “pace”, che è la stessa di “patto”. Per avere la pace, in un tempo caotico come il nostro, c’è bisogno di nuovi trattati capaci di «fare i conti con una pluralità di attori e interessi mai, prima d’ora, così multiforme».

I politici maneschi e i pacifisti immaginari
I politici maneschi e i pacifisti immaginari

I politici maneschi e i pacifisti immaginari. Un commento di Domenico Quirico su La Stampa del 20 settembre 2024, e un editoriale di Gabriele Segre sempre su La Stampa del 20 settembre 2024. Ecco i due testi affiancati. Leggete con attenzione.

I guerrafondai, quelli che vogliono prendere il mondo a manate si dichiarano sempre innocenti. I disordini non li hanno inventati loro, diamine. Agiscono, reagiscono , si difendono. Non cominciano nulla, semmai sono gli altri… Ma loro si vantano di portare a termine tutto. Prendete Beniamino Netanyahu. Sguazza da sempre nella confusione. Consapevolmente, non ne è la vittima. Suppone lo spazio intorno a sé totalmente ostile. Lascia la precarietà di tregue, intese, negoziati alle anime buone che con le loro delicate pinzette, a suo parere, inciampano sempre. Israele può esistere secondo lui solo attraverso disintegrazioni senza appello né eccezioni. È l’unica Sicurezza che crede possibile. Settantacinque anni di guerre in questa polveriera antropologica gli offrono giacimenti di ragioni. Come possono peraltro offrirli a coloro che stanno dall’altra parte. 

Lo scenario che cambia

La vendetta a Gaza è un rompicapo militare che dopo un anno appare senza uscita, una delle guerre più disperanti che esistano, quelle in cui non si è fissato con accuratezza prima di scoperchiarle qual era il soddisfacente punto finale raggiungibile. Allora che fare? Cambiare scenario, diversioni, nuovi campi di battaglia più arabili, un cocktail sciagurato a cui tutti coloro che sono a corto di idee purtroppo restano affezionati. 

Il turbolento fronte Nord è lì per questo. Netanyahu dunque ha bisogno che Hezbollah lo attacchi, i missili che cascano qua e là non bastano, sono ordinaria amministrazione. Non bastano per giustificare una rappresaglia colossale, una Gaza bis su cui si possa infierire in permanenza. Il Libano con il suo partito-esercito alleato del satanasso iraniano (e di Hamas) offre da sempre ai politici maneschi di Israele un comodo poligono di tiro, dove dimostrare la implacabilità di tzahal (significa?), restaurare deterrenze avviate a un plumbeo crepuscolo.

Provocare Hezbollah

Bene! Ma se gli sciiti della Beeka (significa?) non collaborano, non «scavalcano» la linea rossa? La necessità della vittoria stimola il desiderio e la capacità di darle una mano. Hezbollah che pure sconfisse Israele costringendolo al ritiro, dopo il costoso intervento in Siria per salvare Bashar Assad, è una satrapia un po’ grondante di unto, vischiosa, un partito del mangia e lascia mangiare accampato sul Paese dei cedri: impantofolata come dimostrano le facce imporporate di stizza con cui subisce colpi su colpi alla sua sicurezza. Che il prosaico tran tran libanese abbia imborghesito i vecchi fanatici senza guinzaglio? 

Israele non può attaccare per primo. Gli americani borbottano o fanno finta, i democratici in campagna elettorale per novembre non possono accettare un Medio Oriente ancor più in fiamme. I palestinesi di Gaza va bene, fate pure, ma il Libano, quello è una linea rossa. Entro e non oltre il Litani (significa? ) nessun bagno di acciaio! 

Bisogna provocare Hezbollah, costringerla a reagire per non perdere la faccia che forse bisognerebbe descrivere come la vera, inaggirabile anima della geopolitica in vicino Oriente. Ci vuole appunto una linea rossa che gli altri scavalchino per dichiararli colpevoli: sconfinamenti di guerriglieri kamikaze, attentati, missili sulle città… Qualcosa di globale, imperdonabile, definitivo. Come il sette ottobre per esempio. 

Le sottili linee rosse

Le linee rosse: le attraversa avanti e indietro la storia recente, linee rosse infrante, temute, minacciate, rinnegate. Sono utili a chi cerca svolte definitive e irrimediabili che vuole presentare come il cedere a una prosaica fatalità, così quando non ci sono le si inventa: un attacco di alcuni motoscafi alle corazzate americane nel Golfo del Tonchino che servirono a scatenare i bombardamenti a tappeto su Hanoi; le armi chimiche di Saddam per esempio, con le prove esibite da un (forse) inconsapevole illustre bugiardo all’Onu. Ai falchi della Amministrazione Bush la caccia e la punizione legittima dei responsabili dell’undici settembre non bastava, si voleva approfittare per creare il mondo definitivamente americano. E allora: Saddam ha superato la linea rossa, dispone di armi di distruzione di massa… La bugia diventa un gesto di politica che rasenta l’automatismo e tenta di mettersi la coscienza in pace.

Talora le linee rosse si ritorcono contro, diventano un azzardo molesto da cui non si riesce pericolosamente a svincolarsi: quella tracciata da Obama in Siria per esempio nel 2013: Bashar ha usato le armi chimiche, ci vuole una grande coalizione per punirlo. Quando si accorse di marciare da solo dovette chiedere aiuto a Putin, allora presentabile e provvidenziale, per uscirne senza danni.

E poi c’è chi dello scavalcare le linee rosse ha fatto la chiave della sua guerra: Zelensky. Non sono segnate da Putin che resta su questo enigmatico, al più allusivo. Sono i suoi alleati che ne tracciano continuamente da più di due anni: non usare questo, non colpire là, non entrare in Russia… E lui ogni volta passa oltre. Sa che il tempo scorre a favore del nemico, un po’ come accade per Netanyahu, la sua possibilità di vittoria è nel conflitto ancor più totale. 

Il controterrorsimo del Mossad

Gli «omicidi mirati senza frontiere», categoria giuridico criminale inventata da Israele, non hanno portato a nulla. Aytollah e compari libanesi non hanno abboccato all’amo, rinviano l’apocalisse e si accontentano di quella sottotono ma efficacissima che costringe decine di migliaia di israeliani del Nord da mesi nella condizione di rifugiati interni. Il Mossad, mai a corto di idee e stratagemmi, abbandona il delitto «mirato» e inventa il primo esempio di controterrorismo capillare. C’è sempre una «via originale» all’uccidere. 

Questa volta dovrebbe bastare per scatenare Hezbollah. Altrimenti si dovrà tornare alla irrazionalità pasticciona con cui si da la caccia fino all’ultimo uomo di Hamas: dispostissimi, i fanatici di Sinwar, ad ammuffire a lungo nei loro insondabili sottosuoli.

Diciamolo chiaramente: ci siamo illusi che le guerre che ci circondano potessero col tempo ridursi a un trascurabile rumore di fondo. Che si sarebbero cronicizzate e “normalizzate” come tutte le crisi perpetue che affliggono il resto del pianeta e a cui dedichiamo uno sguardo distratto sulle pagine degli esteri dei quotidiani o negli appelli delle organizzazioni umanitarie. E invece, un giorno dopo l’altro, quei conflitti continuano a ricordarci che ci troviamo tutti su un pericoloso piano inclinato, al cui fondo non ci attende altro che la catastrofe. Questa settimana, il “punto di non ritorno” sembra essersi ulteriormente avvicinato: il possibile utilizzo di missili a lungo raggio in territorio russo e l’escalation tra Israele e Libano hanno proiettato sul nostro orizzonte scenari ancor più devastanti. 

Così, la guerra torna di continuo a occupare le prime pagine e ad alimentare le nostre paure e, con esse, la nostra più impellente aspirazione: che tutto finisca al più presto e la vita torni come prima. È una reazione tanto comprensibile quanto naturale: l’intento di controllare il nostro destino fa parte del più intimo istinto di sopravvivenza umano. Non possiamo tollerare di vivere nell’incertezza, dove gli eventi vanno al di là della nostra immaginazione. Se persino le pandemie prima o poi finiscono, perché non possono farlo anche queste guerre?

Rispondere a questa domanda è un’impresa che ci conduce al limite della schizofrenia: da un lato, sezioniamo e studiamo attentamente le analisi degli esperti, alla ricerca di un qualche appiglio di razionalità e comprensione; dall’altro, la nostra angoscia ci spinge a rigettare e ignorare ogni conclusione drammatica che ci viene presentata. 

Come sempre, il difficile compito di conciliare il sano realismo con l’inevitabile reazione emotiva spetterebbe alla politica. Salvo che anche questa sembra soffrire della medesima smania di soluzioni immediate e definitive. Un desiderio che si manifesta in modi diversi, ad esempio evocando l’avvento di circostanze risolutive o figure provvidenziali. Un “messia” che può assumere il volto persino del diritto internazionale: speranza che, se presa da sola, rischia di risultare piuttosto velleitaria, considerando che il suo rispetto è oggi ai minimi storici. Ci sono poi coloro che cercano la salvezza nell’ideologia, nel nazionalismo, nella religione o in qualsiasi forma di onnipotenza che prometta la vittoria totale e l’annichilimento del nemico. Così come esiste una politica, altrettanto illusoria, che si affida a un pacifismo di principio, convinta che per far tacere i cannoni basti brandire il valore della pace. 

Sono soluzioni poco concrete per le guerre del XXI secolo, che rischierebbero di continuare anche se una parte prevalesse sul campo o se assistessimo all’improbabile scenario in cui i popoli rinunciassero di colpo all’uso delle armi. 

La politica contemporanea dovrebbe allora ricordare più che mai che la radice della parola “pace” è la stessa di “patto”. E la pace, in un tempo caotico come il nostro, ha appunto bisogno di nuovi trattati che ne riflettano la complessità: viviamo in un mondo così fluido e articolato che è illusorio pensare che un accordo possa essere valido in eterno o che basti la firma di due superpotenze per garantirne l’efficacia, come accadeva all’epoca della Guerra Fredda.

Oggi dobbiamo fare i conti con una pluralità di attori e interessi mai, prima d’ora, così multiforme, in cui i rapporti di forza e le alleanze cambiano molto più rapidamente rispetto al passato. Patti di questo tipo devono essere sottoposti a continue verifiche e manutenzioni e, soprattutto, non possono derivare dall’imposizione unilaterale di una volontà dopo una vittoria schiacciante. La pace più duratura richiede, infatti, che persino chi trionfa sul campo di battaglia faccia concessioni. 

La storia ha dimostrato che è possibile: l’Unione Europea è nata come un organismo multilaterale, impegnato a rivedere periodicamente i propri accordi in una logica di compromesso, anche se oggi ciò appare sempre più raro. 

Ma tale razionalità è stata il frutto di un dolore immenso: decine di milioni di morti e un continente diviso e ridotto in macerie. La paura che si ripeta una tale apocalisse condiziona ancora le nostre scelte, ma c’è una differenza sostanziale tra il timore della perdita e il dolore di chi l’ha subita. Oggi, salvo per pochi sopravvissuti, quella sofferenza non fa più parte della nostra memoria diretta e la paura da sola non ha la stessa forza persuasiva. E così, ancora una volta, ragione e sentimento rischiano di condurci in un vicolo cieco, perché pensare che sia necessario vivere un immenso male per costruire un mondo migliore è già, di per sé, una sconfitta inaccettabile.

I politici maneschi e i pacifisti immaginari

Guida alla lettura

I politici maneschi e i pacifisti immaginari. Anzitutto vi proponiamo gli esercizi di comprensione.

  1. Assicuratevi di aver compreso tutte le parole: una rapida ricerca su Google vi aiuterà a capire i significati di “Tsáhal” – “Beeka” – “Litani” – …
  2. Completate la mappa mentale sul testo di Domenico Quirico
  3. Il testo di Gabriele Segre non è suddiviso in paragrafi. Suddividetelo voi, completando il suggerimento. Date un titolo cioè ad ogni paragrafo e avrete già la scaletta del testo.

I saggi pazienti. Segre

1. Il piano inclinato verso la catastrofe

Diciamolo chiaramente: ci siamo illusi che le guerre (…) hanno proiettato sul nostro orizzonte scenari ancor più devastanti. 

2. La paura della guerra e il desiderio che tutto passi

Così, la guerra torna di continuo a occupare le prime pagine (…). Se persino le pandemie prima o poi finiscono, perché non possono farlo anche queste guerre?

3. L’angoscia che l’incertezza genera ci spinge a cercare soluzioni immediate definitive, e impossibili

Rispondere a questa domanda è un’impresa che ci conduce al limite della schizofrenia: (…) Ci sono poi coloro che cercano la salvezza nell’ideologia, nel nazionalismo, nella religione o in qualsiasi forma di onnipotenza che prometta la vittoria totale e l’annichilimento del nemico. Così come esiste una politica, altrettanto illusoria, che si affida a un pacifismo di principio, convinta che per far tacere i cannoni basti brandire il valore della pace. 

4.” Pace” significa “patto”

Sono soluzioni poco concrete per le guerre del XXI secolo, (…) La pace più duratura richiede, infatti, che persino chi trionfa sul campo di battaglia faccia concessioni. 

a voi concludere

  1. Sei socio di un circolo culturale che organizza spesso conferenze su argomenti di attualità, oltre a un cineforum e mostre di artisti poco noti. Poiché conoscono il tuo interesse per ciò che riguarda lo sviluppo della società, i soci ti hanno chiesto di organizzare una serata di discussione sull’attuale situazione di guerra tra Israele, i palestinesi di Gaza, e il Libano. Sulla base di quanto avete letto negli articoli di Quirico e Segre, prepara una conferenza di circa 30 minuti. Per essere più efficace, mostrerai, mentre parli, una presentazione di max 10 diapositive.

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