I testimoni della crisi e il passato

I testimoni della crisi e il passato. Vi proponiamo ora un brano tratto dalla tesi di laurea discussa nel 2018/19 nell’Università di Torino di Matilde Zanni, che abbaiamo già citato nella prima parte di questa inchiesta. La tesi integrale è leggibile pubblicamente sul sito di Complexitec, Il titolo della tesi è Prospettive di sviluppo locale: la transizione del modello economico del Verbano Cusio Ossola.

Quello che state per leggere è il primo dei due estratti del terzo capitolo della tesi. L’autrice qui intervista molti testimoni qualificati e pone a tutti la stessa domanda: come valutano la crisi e come ritengono se ne possa uscire alla luce delle esperienze fatte.

“Qualificati testimoni”, cioè ” vestono tutti ruoli privilegiati di osservazione o di azione rispetto al sistema economico locale, fornendone una visione trasversale e multisettoriale: sono presenti il mondo sindacale, imprenditoriale, turistico, industriale, politico, amministrativo, scientifico e di ricerca, istituzionale. In tutto, i testimoni qualificati intervistati sono 13; si invita a consultarne l’elenco completo in appendice”.

I testimoni della crisi e il passato

“La mia generazione è venuta grande pensando che questa fosse una grande città industriale, dove tutti avrebbero trovato il proprio posto e il proprio lavoro. La storia invece ha segnato un percorso diverso”. (Intervista n° 5, Sindaco della città di Verbania)

“C’è una foto dell’uscita degli operai dal turno alla Montefibre: sembra il giro d’Italia. Enormi file di persone in bicicletta che uscivano dalla fabbrica, a orari sfalsati per evitare l’ingorgo completo. Gli operai all’epoca erano una potenza, avevano una forza enorme; perché laddove c’era una richiesta di manodopera così alta il potere contrattuale degli operai era altissimo, come altissima era la facilità di ricollocamento in caso di insoddisfazione sul precedente posto di lavoro. E questa cosa qui, è chiaro che te la sei persa. Adesso una fabbrica di 200 dipendenti per noi è già una grossa fabbrica, una volta erano nulla; siamo passati dalle migliaia di occupati (4.500 solo alla Montefibre) alle poche centinaia”. (Intervista n° 1, Segretario provinciale FILCTEM-CGIL)

La memoria del passato industriale è ancora profondamente radicata nel tessuto sociale cittadino, tanto che molti tra i testimoni intervistati sono di fatto ex operai. Dalle interviste risulta che tutti concordano nel riconoscere quel modello come unica e centrale colonna dell’economia locale fino agli anni della crisi. Tuttavia, la lettura delle risposte del sistema locale, particolarmente della sua classe politica e dirigente, offrono una ricchezza interpretativa maggiore rispetto a quanto emerge dalle pubblicazioni disponibili che erano state utilizzate come fonte dei primi due capitoli di questo lavoro. Per questa ragione, ritengo importante fornire una chiave di lettura aggiornata sulle risposte e reazioni del sistema locale al processo di deindustrializzazione.

I testimoni della crisi e il passato. Gli intervistati hanno sottolineato un cambiamento radicale nel ruolo del settore pubblico locale durante gli anni ‘80. Nel ‘900, infatti, l’unico ruolo degli amministratori e del settore pubblico era stato quello di governare l’impetuoso processo di industrializzazione, dando risposte alla crescita demografica determinata dal massiccio afflusso migratorio di manodopera operaia. La risposta che andava data era di tipo insediativo – con la costruzione di case popolari, in un processo di “condominializzazione” non pensato a livello di estetica urbana, di cui oggi si paga il prezzo rispetto allo sviluppo turistico -, e di previdenza sociale. In questa fase, il problema di trovare vocazioni economiche al territorio semplicemente non esisteva: tutto il sistema era automaticamente determinato dalla presenza delle grandi industrie.

La crisi industriale ha tuttavia, come tutte le crisi, messo in moto un meccanismo di ripensamento del ruolo del territorio. Sotto questo profilo, la crisi è stata violentissima e contestuale: di colpo la provincia ha dovuto fare i conti con la chiusura della certezza della grande industria, aprendo (per costrizione più che per scelta) la necessità di una riflessione. Alcuni testimoni propongono una chiave di lettura che divide la risposta della classe dirigente locale alla deindustrializzazione in due fasi e in due periodi distinti; a queste aggiungerei tuttavia una terza fase, che emerge proprio da quanto raccolto durante le interviste, anche se in maniera meno consapevole.

La prima fase ha coinciso con la fondazione nel 1980 del Consorzio per lo Sviluppo del Basso Toce, un consorzio di comuni sull’asse Verbano-Cusio che poi negli anni si è ampliato all’intera Provincia. Gli enti locali sono diventati, tramite il consorzio, organizzatori e imprenditori di servizi, in quattro ambiti strutturali e di base per lo sviluppo: l’azienda di servizi per gestire i trasporti pubblici; il sistema di depurazione delle acque, che ha iniziato a preoccuparsi dei livelli altissimi di inquinamento che lo sviluppo industriale aveva provocato; il sistema di smaltimento dei rifiuti, innovativo per l’epoca; e SAIA, una società operativa – Società Aree Industriali Attrezzate – per riqualificare e urbanizzare aree industriali dove gli operatori che avessero voluto ricollocare le proprie attività industriali, aprirne di nuove o ampliare le esistenti avrebbero potuto trovare un complesso di infrastrutture e servizi utili all’insediamento, permettendo dunque al territorio di ripresentarsi per una successiva fase di imprenditorialità. SAIA nei suoi anni di attività ha raggiunto questo primo obiettivo di riqualificazione: tutte le aree sistemate sono state effettivamente occupate da imprese; la società è tuttavia fallita nei primi anni 2000.

Questa prima fase di rilancio post industrializzazione ha dunque solo in parte funzionato. Da un lato, non ha saputo creare un sistema capace di rimanere forte nel lungo periodo; la debolezza del sistema produttivo degli ultimi vent’anni è data infatti anche da una rete di PMI incapaci a fare sistema e a porsi come chiave innovativa. Dall’altro, le società di gestione integrata dei servizi pubblici nati sotto il consorzio oggi continuano, e rimangono realtà occupazionali di un certo spessore, che hanno dato anche risposte innovative e di qualità durante gli anni, soprattutto per quanto ha riguardato la gestione del ciclo dei rifiuti.

I testimoni della crisi e il passato. Dopo la prima fase di risposta è seguita una seconda fase di pianificazione strategica integrata Da questo punto di vista, tutti gli attori confermano che il percorso di pianificazione si è limitato alla creazione di agevolazioni finanziarie, più che di servizi e beni pubblici messi a disposizione;

Confrontando quanto emerso dalle dichiarazioni dei testimoni qualificati, ritengo che sia poi possibile individuare una terza fase di reazione alla questione del declino del modello industriale. Questa terza fase trova il suo punto apicale di svolta nel 2009, anno da tutti identificato come di transizione per il tessuto locale. La terza fase è caratterizzata a mio avviso da tre processi paralleli ma differenti: l’avvento di una nuova crisi economica mondiale, il mutamento della classe politica e amministrativa in carica, e la mutata percezione dell’industria da parte della cittadinanza.

La crisi economica del 2009 ha determinato un inasprimento ulteriore della situazione imprenditoriale locale: le aziende nazionali e internazionali, dovendo scegliere, hanno optato per la chiusura delle unità locali meno rilevanti, che spesso erano quelle nei territori più marginali. Il taglio di investimenti aziendali ha anche comportato, secondo l’opinione di testimoni attivi in ambito turistico, una fase di stallo per il turismo aziendale, per i meeting e i congressi che parevano costituire una interessante alternativa per la destagionalizzazione del turismo. La fase di transizione caratterizzata fin dagli anni ‘90 dai piani strategici si conclude dunque nel 2009, in parte a causa della crisi economica citata, e in parte in seguito alla mutazione del tessuto politico e amministrativo locale con le elezioni della Provincia e del capoluogo.

Senza entrare in giudizi di parte, il dato di fatto condiviso è che c’è stato in quell’anno un cambio complessivo della classe dirigente che aveva governato (nel bene e nel male) il sistema provinciale, senza soluzione di continuità da un trentennio. La nuova compagine amministrativa e politica non ha avuto dunque interesse nel proseguire i piani avviati dalla precedente classe dirigente, e quel processo – che comunque aveva stentato a produrre risultati – si ferma definitivamente.

Nello stesso periodo, c’è stato un progressivo cambiamento della domanda da parte della popolazione, perfettamente esemplificabile tramite la vicenda della chiusura di Acetati, che ha alla base delle scelte non solo imprenditoriali ma politiche e sociali.

All’inizio degli anni 2000, la società civile, guidata da Legambiente e da alcuni partiti, inizia a mettere in discussione l’attività industriale delle aziende chimiche attraverso una grossa campagna di sensibilizzazione, concentrata soprattutto contro la Vinavil ossolana, la Hydrochem di Pieve Vergonte e l’Acetati verbanese. A Verbania queste attività hanno avuto una presa maggiore, anche in seguito a delle rilevazioni di contaminazioni nelle acque del fiume (poi rivelatesi in realtà non attribuibili all’attività di produzione industriale vigente). Acetati e Vinavil avevano già fatto degli investimenti molto importanti dal punto di vista ambientale per quanto riguarda gli inquinanti, ma questo non ha impedito la formazione di un clima sociale fortemente contrario alla presenza della fabbrica, fino ad arrivare a un referendum consultivo nel 2005. In sede di referendum, la popolazione verbanese si è espressa sulla non opportunità di mantenere la presenza di una industria chimica come Acetati in un territorio come quello di Verbania; questo risultato è stato poi fortemente utilizzato a livello politico, nonostante la scarsa partecipazione al voto (24% della popolazione).

“Quel referendum, io l’ho vissuto direttamente come Sindaco. La scarsa partecipazione ha significato sostanzialmente l’espressione di una città e di un territorio vecchio. Abbiamo visto e vediamo una dimensione nella quale non solo i valori, non solo il modo e la qualità della vita, ma la stessa preoccupazione sul sistema economico è vissuta da una provincia che fondamentalmente è vecchia e quindi non vede il tema del futuro. Vede il tema dello stare bene nel momento. Non ha voglia e capacità di immaginazione. E la politica progressivamente si è adeguata, perché più preoccupata di gestire e di guardare al presente piuttosto che di lanciare dei messaggi al futuro”. (Intervista n° 10, Sindaco di Verbania)

Per cui, in una fase in cui la proprietà di Acetati – il gruppo Mossi e Ghisolfi – era ancora a gestione familiare, e dunque più sensibile al contesto sociale circostante, l’influenza del referendum è stata molto ampia sulle scelte imprenditoriali. Acetati ha chiuso, lasciando molti dipendenti impreparati a confrontarsi con l’inserimento in un mondo del lavoro diverso e più manuale, per niente paragonabile al mondo dell’industria chimica che li aveva lasciati senza una professionalità di fatto. L’unica industria che ha continuato è stata quella di Italpet, poi acquistata da un gruppo padronale americano, diventando l’attuale Plastipak. Dopo un momento di riorganizzazione interna nel 2013, l’azienda ha trovato un nuovo equilibrio ed è in una fase di importanti investimenti, strutturando ancora di più la propria presenza all’interno dell’area cittadina. La chiusura di Acetati non ha dunque significato la scomparsa definitiva delle industrie da tutto il territorio provinciale.

In realtà, al pari di questa vicenda si potrebbe citare anche quella della Hydrochem di Pieve Vergonte, che sta seguendo invece un processo di riqualificazione ambientale e produttiva notevole, rimanendo una delle più importanti realtà produttive locali anche oggi. L’azienda aveva avuto un enorme scandalo legato alle emissioni di DDT, che si è tentato di risolvere solo in anni recenti. Si è passato dal creare il problema per avere guadagno produttivo all’avere profitto dalla risoluzione del problema stesso: la bonifica in corso di Pieve Vergonte è fatta da Syndial, uno dei bracci di Eni specializzato esclusivamente nelle bonifiche ambientali; negli anni ‘90, all’epoca della crisi del DDT, era tuttavia la stessa Eni che aveva la proprietà dell’impresa (all’epoca EniChem, poi diventata Hydrochem in seguito a cambi di società) e aveva dunque prodotto l’inquinamento.

Il risultato comunque non cambia: dopo un periodo di crisi nel 2017, in cui l’impianto cardine dello stabilimento è stato fermato per via della sua tecnologia troppo vecchia e impattante, determinando una fase di conflitti sindacali e di tavoli tecnici di confronto al MISE, il territorio è tuttavia stato capace di fare sistema e di reagire, cooperando tra ambiti imprenditoriali, politici, sindacali e amministrativi diversi, garantendo un futuro imprenditoriale all’impresa e occupazionale ai suoi lavoratori. La proprietà è passata dal proprietario precedente – tedesco – a un nuovo acquirente italiano, il gruppo Esseco. Il fatto che un gruppo in crescita e internazionale come questo abbia deciso di investire oltre 40 milioni di euro per adeguare l’impresa alle nuove normative ambientali è una dimostrazione del fatto che in questo territorio si possano ancora trovare delle condizioni vantaggiose di investimento industriale.

Guida alla lettura

I testimoni della crisi e il passato. Esercizi di comprensione

  1. Completate la mappa mentale del testo
  2. La chiusura di Acetati ha alla base delle scelte non solo imprenditoriali ma politiche e sociali. Una nuova domanda di sostenibilità
  3. Esempi di bonifiche svolte con successo (e profitto).