Nel discorso per la solenne parata sulla Piazza Rossa di Mosca di qualche giorno fa il presidente russo Vladimir Putin ha qualificato la condizione dell’Occidente «degrado morale». Tralascio l’ovvia obiezione secondo cui egli è l’ultimo a poter parlare di morale dopo la tempesta di sangue scatenata sull’Ucraina (peraltro logica conseguenza di anni di violenze, corruzioni, veleni, assassini, invasioni) e mi concentro sulla questione sollevata: è fondato parlare dell’Occidente in termini di «degrado morale»? L’hanno già fatto in molti, per esempio gli islamiti di Al-Qaeda e di Isis, gli ideologi della purezza hindu nell’India di Narendra Modi e altri Paesi, Cina ovviamente compresa. A buona parte del mondo noi occidentali appariamo lassisti, moralmente disgregati, non di rado depravati. Leggi di più
Ora, che nelle nostre società vi siano individui e strutture economiche immorali lo sappiamo. Non di più, però, che in altre società. Anzi, se andiamo a vedere la tutela dei diritti umani, la parità di genere, l’accoglienza, l’inclusione, la trasparenza amministrativa, la libertà di stampa e di manifestazione e altri indicatori di questo tipo, io sono propenso a ritenere le nostre società eticamente superiori, e non di poco, rispetto a quelle di coloro che accusano l’Occidente di immoralità, società nelle quali la corruzione è endemica, la libertà un sogno, la parità dei sessi inesistente. Come spiegare allora l’accusa di degrado morale rivolta da Putin e da molti altri all’Occidente? È solo propaganda?
La chiave, a mio avviso, sta nelle parole pronunciate il 6 marzo scorso dal patriarca Kirill, quando affermò di noi che «per entrare nel club di quei Paesi è necessario organizzare una parata del Gay Pride». La chiave cioè è la nostra libertà sessuale. O meglio: è la libertà punto e basta, di cui la sessualità è forse la più palese manifestazione.
È sulla libertà quindi che si gioca la partita.
Libertà significa anzitutto liberazione e si può dire che noi ci siamo liberati da quei legami istituiti lungo i secoli che, uniformando e spesso opprimendo i singoli individui (omo o etero che fossero), facevano sì che la società risultasse esteriormente coesa, come oggi appaiono più coese rispetto a noi molte società non occidentali. Priva di quei legami, la nostra società appare invece caotica e disgregata. Ma attenzione: quei valori che unificavano la società erano spesso affermati tenendo vincolati gli individui con l’impedirne l’autodeterminazione a livello sessuale, religioso e politico. Il rigido controllo sulla sessualità e sul pensiero è stato il fondamento su cui per secoli la struttura sociale ha edificato la propria compattezza: è il cosiddetto super-ego individuato da Freud e inteso come ciò che controlla l’ego e lo inquadra, spesso opprimendolo, per farlo sfilare compatto sulle piazze del mondo, si chiamino Piazza Rossa, piazza San Pietro o in altro modo. Non è un caso che a parlare di degrado morale siano anche gli integralisti cattolici, nemici della modernità e nostalgici dei bei tempi dell’Inquisizione e delle processioni in cui tutta la città sfilava ordinata a celebrazione della trinità politica «Dio, Patria, Famiglia». È insomma soprattutto a causa della libertà, sessuale e di pensiero, che l’Occidente appare al resto del mondo moralmente disgregato.
Il problema però è che appare disgregato anche a molti di noi. Perché? Perché è evidente che la liberazione da quei legami che tenevano forzatamente coesa la società ha prodotto e ancora produce disordine e disorientamento. Il punto decisivo allora consiste nel discernimento di quel valore per noi assoluto che chiamiamo libertà. In che cosa propriamente consiste?
La libertà è un processo. Non è uno stato, è una serie di stati, per la precisione quattro, collegati tra loro secondo una specifica dinamica. In primo luogo occorre considerare che ognuno di noi procede sempre da una condizione di servitù perché non nasciamo liberi, liberi lo possiamo solo diventare e non è per nulla scontato riuscirci. Per questo la libertà si dice anzitutto come «libertà da», come «liberazione». Ebbene, io penso che noi giuridicamente abbiamo acquisito questo primo stadio del processo della libertà, avendo conquistato la liberazione dal controllo rappresentato a livello familiare dal pater familias e a livello sociale dalla censura della Chiesa e dello Stato, spesso coordinati tra loro (il fenomeno si chiama cesaropapismo e la coppia Putin-Kirill ne è un fulgido esempio). Liberati dai gravami che opprimevano l’individuo nella sua affettività e nel suo pensiero, noi stiamo sperimentando non senza sofferenze quella condizione di cui parlava Gesù dicendo che l’uomo è più importante del sabato (cfr. Marco 2,27): ecco, noi ci siamo liberati dai vari tipi di sabati.
Questo però è solo il primo stadio della libertà. Il secondo è definibile come «libertà di», come possibilità di scegliere, e io penso sia questa la condizione in cui ci troviamo: liberi dalle tutele del passato, oggi possiamo scegliere. Ma che cosa di fatto scegliamo? Ciò che appare è che ognuno sceglie se stesso, la propria realizzazione, il proprio benessere, il proprio successo. La scomparsa del super-ego produce logicamente un ego super: ipertrofico, ingrassato, vorace, che non mira ad altro se non a se stesso. Il risultato è la mancanza di legami solidi con gli altri e lo sfilacciamento di quella struttura che i nostri padri latini chiamarono societas in quanto consistente in un insieme di «soci». È da qui che procede il sentimento di disgregazione morale di cui ha parlato propagandisticamente Putin, ma avvertito esistenzialmente anche da molti di noi.
Per superare questa condizione occorre giungere al terzo stadio della libertà, descrivibile come «libertà per», cioè il momento nel quale la singola libertà intravede qualcosa di più importante di sé e liberamente vi si dedica. Si può nominare in vari modi questo «qualcosa», per esempio giustizia, verità, amore, divinità, bellezza, bene comune. Essenziale è che la libertà si spenda liberamente per altro da sé, perché solo così riproduce la legge della vita che è la relazione e la società può tornare a essere quello che indica il suo nome e non una massa amorfa di estranei in competizione tra loro.
La sessualità è il luogo nel quale la persona dice «io sono mia», come rivendicavano le femministe. Ma è anche il luogo nel quale la persona, se ama, dice all’altro: «Io sono tua». Ed è felice di poterlo dire. Anzi, io penso che ognuno di noi viva per giungere a dire e a sentirsi dire queste parole. È il fenomeno dell’amore, di cui abbiamo esperienza nella vita individuale e che dovremmo riuscire a realizzare anche nella vita sociale ritrovando un ideale più grande del nostro interesse a cui dire «io sono tuo», «io sono tua», e rendendo di nuovo possibile la ricostruzione della società in quanto «insieme di soci». Così si tocca il quarto e ultimo stadio del processo della libertà, cioè la «libertà con».
Un secolo fa Max Weber nella celebre conferenza sulla scienza come professione invitava a «guardare negli occhi il destino del proprio tempo». Questi giorni ci costringono a farlo. A mio avviso il destino della nostra società detta Occidente dipende strettamente dalla capacità di ritrovare un ideale comune per cui vivere che risulti più grande dell’interesse del singolo e che faccia di noi ancora una volta un insieme di soci, ma questa volta liberi da ogni oppressione. Non so se ci riusciremo, so però che sarà possibile solo investendo nella cultura e nel processo educativo. E so che dobbiamo farlo massicciamente, e urgentemente, perché ne va del nostro destino.