Il geografo s’è bevuto il mappamondo

Il geografo s’è bevuto il mappamondo. Recensione al romanzo di Aleksej Ivanov di Marco Archetti, pubblicata su LaStampa del 28 marzo 2022. Il testo è di 1.087 parole e richiede 4′ di lettura.


Il geografo s’è bevuto il mappamondo. Viene paragonato a Čechov e Dostoevskij ma lui cita Stephen King e Umberto Eco. È famoso e premiatissimo, eppure se ne sta sulle sue, tra gli Urali dov’è cresciuto. Scrive romanzi che, se si prova a definirli (I cinocefali, pubblicato in Italia due anni fa, era un’epopea bestiale e fantaetnografica, mistica e antitolstoiana), ci si ritrova con la faccia un po’ così e un trenino stracarico di parole in un vicolo cieco e sordo alle qualità autentiche della sua opera, che al contrario è viva, inquieta di invenzioni e naviga via spedita tra ribaltamenti di significato e di ritmo. E dopo cascate precipitose arrivano sempre beati slarghi descrittivi, e il ritmo rallenta, l’acqua si calma, la riva si apre, e va sempre a finire in grande scrittura.

Di Aleksej Ivanov esce in questi giorni Il geografo si è bevuto il mappamondo (Voland), romanzone ottimamente tradotto e postfatto da Anna Zafesova, viaggio di terra e di acqua, di passato e presente, che non tradisce questa doppia natura narrativa: trafila esuberante di dialoghi e momenti di grande pittura paesaggistica, azione incalzante e pagine di tregua descrittiva. Un romanzo che non s’aveva da fare e per tre volte s’è rifatto: la prima perché l’originale finì nella spazzatura per colpa di una bidella della scuola in cui Aleksej Ivanov insegnava; la seconda perché ficcato in una borsa che poi venne rubata; la terza come riassetto definitivo del formato iniziale, che era a puntate – nel 1995 uscì così. Un romanzo che ha generato ostinatamente se stesso, la propria mitologia, un successo da 28 edizioni, un film famosissimo in cui i russi si sono specchiati a figura intera e perfino un tour letterario proposto dalle agenzie turistiche, sulle orme della spedizione raccontata tra le sue pagine, da Perm’ fino a Mežen’. Un romanzo che va letto ora, subito, in questo momento, innanzitutto perché sprigiona la forza imponente della Letteratura – ed è sempre un grande sprigionare – e poi perché sa dirci la verità di un Paese che incombe su sé stesso e non si può comprendere altrimenti, annodando con coraggio destini individuali e universali, geografie minime e massime, la Storia e le brandine da aprire in cucina.

«Abbiamo navigato questi fiumi per attraversare il destino di questa terra», dice Viktor Sergeevič Služkin, il protagonista della storia, professore di geografia a Perm’ e autore di «buone poesie mediocri», uno con una vita che «sembra una barzelletta in cui fa sempre la figura dello scemo» – notevole la sua entrata in scena da sordomuto. Sposato con Nadja (ma dorme sul divano) e padre della piccola Tata, un bel giorno si trascina in viaggio, nella taiga remota, tra treni, camion portatronchi e catamarani, una classe di indomabili quattordicenni. Ed è qui che il romanzo prende il volo, aprendo il racconto e i paesaggi come una ferita, è qui che da tutti i luoghi sanguina fuori la Storia: una storia arcaica, feroce, onnipotente, subconscio di un Paese abnorme in cui è ineluttabile lo spazio più che il tempo, e le distanze sono il destino.

Ma di cosa parla davvero questa storia, che per due terzi ci racconta, con innegabile brio, di guai privati e peripezie scolastiche, in tono di commedia? Quale crudele pazienza delle anime ci svela – anime tutte inquiete, tutte svuotate e in attesa, perseveranti un po’ alla cieca – di questa Russia schiacciante, smisurata, oberata da se stessa, divisa in distretti economici sui libri di scuola e in molteplici versioni della disillusione nella realtà, tra baracche, relitti e pontili arrugginiti con vista su vecchi barconi arenati?

Era il 1982 e Brežnev moriva. Era l’inizio della fine e il giovane Služkin, studente in una scuola che sembrava una caserma, sognava un’esplosione nucleare che troncasse la sua adolescenza inetta, tutta squallore e magre possibilità. Eppure quel sogno non era un sogno, semmai un incubo, un incubo vero, che aveva tenuto il fiato sul collo a tutta la sua giovinezza. I telegiornali avevano terrorizzato ogni istante della vita sua e dei suoi amici e le loro pubertà moderatamente smodate, scolorite, sovietiche, così diverse da quelle turbolente, variopinte e insensibili all’autorità degli studenti che l’adulto Služkin – il professor Služkin, geografo – è costretto ora a contenere. Ripercorrendo con loro quel passato, navigando acque gelide e impassibili che rischieranno di travolgerli, si renderà conto che quelle giovani vite capiranno ciò che sui libri non avrebbero capito: cos’è il sangue e quant’è spietata la betoniera della Storia, mentre ascoltano, con stupore e terrore, «la terra parlare sotto i loro piedi».

Visitando ponti crollati, ritrovandosi a un certo punto in un ex lager tra le rovine di un passato ai margini della geografia, Služkin capirà che anche la rimozione dei fantasmi, tra Mito e Distruzione, ha avuto una devastante portata nucleare. E che non resterà loro nulla, perché non saranno mai altro che relitti appiedati dalla Storia. Traditi ma colpevoli, non meriteranno la possibilità di fare i conti con quel passato sterminato e tragicamente refrattario a restarsene dov’è – un passato sempre qui, sempre ora, una maledizione gettata su un presente che non sarà mai futuro. «I chilometri di ghiaccio sono impacchi sull’anima mia peccatrice», recita un canto di barcaioli. E Služkin risponde: «Quanto è antica questa terra, quanto è impenetrabile la sua storia».

È un grande poema degli spazi sterminati, questo romanzo. Un’epica sospesa. E tra foreste come «palazzi senza candele», altipiani coperti di pini e cieli sgualciti, il disincanto che la attraversa è una forma – l’unica possibile – di partecipazione alla verità della vita, consolata dalla sola certezza che «se esiste la vodka con il sorbo esiste anche un Dio nei cieli».
Non resta che sognare a occhi asciutti, senza farsi troppe illusioni, nella condizione inevitabile di tutti coloro che, se andranno in paradiso, lo faranno entrando da una porta sul retro. Male che vada si potrà sempre raccattare quattro cose e fare una gita sulla baia, accendere un fuoco, fare gli spiedini e guardare il fiume della propria infanzia – «i fiumi hanno un pensiero» – delirando su una spiaggia insieme all’amico Budkin, che prima o poi è sicuro lo farà, lo farà eccome, quel giro del mondo in barca. Inevitabile concludere che l’esistenza ci «maciulla per bene», e a tua figlia che ti chiede: «Papà, e noi ci imbarcheremo?», rispondere «certamente», e poi sorriderle. Sorridere fissando, lungo una banchina di tubi arrugginiti, i fianchi di una vecchia barca arenata, infranta contro la riva di tutta la vita


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