Questo breve passo di Fëdor Dostoevskij, tratto dal romanzo Memoria da una casa di morti, tocca il tema dell’infelicità connessa con un lavoro inutile.
Su ItalianaContemporanea questo racconto è rubricata nella pagina “Lavoro e felicità“.
Dostoevskij, Fëdor. Memorie da una casa di morti, Parte prima, Prime impressioni, tr. it. Serena Prina, Feltrinelli, Milano, 2017
La mia prima impressione, al momento dell’ingresso nella colonia penale, fu in generale la più ripugnante; ma, nonostante ciò (cosa strana!), mi parve che vivere in quel luogo fosse assai più facile di quanto mi fossi immaginato durante il cammino. I detenuti, anche se con i ceppi, andavano in giro liberamente all’interno della prigione, imprecavano, cantavano canzoni, lavoravano per sé, fumavano la pipa, bevevano persino acquavite (anche se davvero in pochi), e la notte alcuni giocavano a carte. Il lavoro stesso, per esempio, mi apparve nel complesso non così duro, così da forzato, e solo parecchio tempo dopo mi accorsi che il peso da forzato di questo lavoro non stava tanto nella sua difficoltà e continuità, quanto nel fatto che fosse imposto, obbligatorio, governato dal bastone. Il mužik in libertà lavora, forse, incomparabilmente di più, a volte persino di notte, in particolare d’estate; ma lavora per sé, lavora con uno scopo sensato, e la cosa per lui è incomparabilmente più lieve che per il forzato impegnato in un lavoro a cui è costretto e che per lui è del tutto inutile. Una volta mi venne il pensiero che se si volesse schiacciare del tutto un uomo, annientarlo, punirlo con il castigo più terribile, di modo che il più tremendo assassino rabbrividisse all’idea di un simile castigo e ne avesse paura fin da prima, allora basterebbe soltanto conferire al lavoro un carattere di autentica, totale inutilità e assurdità. Se l’attuale lavoro forzato è noioso e privo d’interesse per il forzato, di per sé, però, in quanto lavoro, è assennato: il detenuto fa mattoni, zappa la terra, mette lo stucco, costruisce: in questo lavoro c’è un senso e uno scopo. Il lavoratore forzato a volte persino s’appassiona, vuole farlo con maggiore abilità, efficacia, renderlo migliore. Ma se, per esempio, lo si costringesse a travasare dell’acqua da una bigoncia all’altra, e da questa riportarla nella prima; a triturare la sabbia; a trascinare un mucchio di terra da un posto all’altro, e viceversa, io credo che il detenuto s’impiccherebbe nel giro di pochi giorni, o commetterebbe un migliaio di delitti per morire piuttosto, ma tirarsi fuori da una simile umiliazione, vergogna e tormento. S’intende che un simile castigo si tramuterebbe in una tortura, in una vendetta, e sarebbe assurdo perché non raggiungerebbe alcuno scopo sensato. Ma siccome una parte di questa tortura, assurdità, umiliazione e vergogna è inevitabilmente presente in qualsiasi lavoro imposto, allora anche il lavoro forzato è incomparabilmente più tormentoso di qualsiasi lavoro libero, proprio perché imposto.