Il lavoro nella Costituzione. Il principio lavorista, il diritto al lavoro e il lavoro come dovere, individuale e sociale: muovendo dal dibattito dell’Assemblea Costituente sul tema, ecco un’analisi critica e ragionata dell’art. 4 della Costituzione italiana.
Il lavoro nella Costituzione. Una relazione dell’avvocato Irene Marconi, pubblicato il 2 luglio 2021 su Altalex. Il testo analizza l’articolo 4 della Costituzione, in cui il lavoro è diritto e dovere, esamina il contenuto della disposizione costituzionale e le sue implicazioni pratiche. La foto è dal film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani.
1. Il contenuto dell’articolo 4 della Costituzione
Tra i “principi fondamentali”, contenuti nei primi dodici articoli della Costituzione, spicca quello laburista, che permea la Carta costituzionale fin dal suo incipit.
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, recita l’art. 1, elevando lavoro e democrazia a valori fondanti il nuovo modello statuale cristallizzato in Costituzione.
“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”, chiosa ancora l’art. 35, ma è l’art. 4 della Carta fondamentale a enunciare il principio lavoristico più nel dettaglio.
La norma testualmente recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” Leggi di più
2. L’articolo 4 della Costituzione: la spiegazione
La norma si articola in due commi distinti, all’apparenza contrapposti ma in realtà complementari: il primo identifica il lavoro come un diritto che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini, promuovendo le condizioni che lo rendono effettivo.
Il secondo comma contempla invece il lavoro come dovere che ogni cittadino è chiamato ad adempiere, svolgendo un’attività o una funzione che contribuisca al progresso materiale o spirituale della società, secondo le proprie possibilità e inclinazioni.
La chiave di raccordo tra i due commi è il riferimento non allo Stato ma alla Repubblica, espressione usata intenzionalmente e presente anche in altri articoli della Costituzione (ad esempio l’art. 9), allo scopo di indicare congiuntamente collettività e pubblici poteri, entrambi chiamati a cooperare attivamente per la promozione e il perseguimento dell’obiettivo in esame.
2.1. La scelta del lavoro
Dalla lettura della norma emerge anche un profilo ulteriore: non solo la duplice connotazione del lavoro come diritto e dovere, ma anche la facoltà per ciascun cittadino di scegliere l’occupazione che ritiene più confacente alle proprie inclinazioni e possibilità.
Una constatazione che può apparire banale e per certi versi utopistica, soprattutto nel momento attuale in cui un mercato del lavoro tendenzialmente saturo porta spesso ad adattarsi ad occupazioni diverse rispetto a quelle desiderate o niente affatto rispondenti al proprio percorso professionale.
E’ comunque ammirevole l’intento dei Costituenti di voler valorizzarel’aspetto personalistico della prestazione lavorativa, sottolineandone l’importanza per la crescita personale del singolo e della collettività.
La chiave di lettura suindicata potrebbe peraltro prestarsi a legittimare l’eliminazione di barriere di accesso troppo rigide, previste ad esempio per determinate professioni, fermo restando ovviamente il possesso dei requisiti e delle abilità necessari ad esercitarle.
2.2. Il lavoro come mezzo di affermazione della personalità
Nell’idea dei Costituenti il lavoro non è quindi soltanto uno strumento attraverso il quale mettere a frutto le proprie capacità e sostentarsi, ma anche un mezzo di partecipazione attiva alla realizzazione della collettività.
Come osservò Costantino Mortati “nella Costituzione italiana, il lavoro posto a base della Repubblica, non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalitàdel singolo, garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego.”
Il lavoro assicura infatti quella dignità umana che permea l’intera Carta fondamentale (si vedano ad esempio gli artt. 2, 3, 27, 32 e 36 della Costituzione), confermandosi principio base dell’ordinamento repubblicano.
3. Cosa vuol dire che il lavoro è un diritto? Le perplessità dei Costituenti
Come anticipato, il primo comma dell’art. 4 sancisce il riconoscimento del diritto al lavoro per tutti i cittadini e l’impegno della Repubblica a promuovere le condizioni per renderlo effettivo.
L’inclusione della previsione tra i principi fondamentali non è casuale, così come non lo è il riferimento alla Repubblica, anziché allo Stato, che come si è detto sottolinea il coinvolgimento dell’intera collettività (cittadini e pubblici poteri) nel perseguimento del fine indicato.
La genesi della norma, in particolare di questo primo comma, non fu però indolore né scevra da perplessità. I Costituenti si interrogarono a lungo su come declinare il riconoscimento del diritto al lavoro e addirittura sull’opportunità di inserire una simile previsione in Costituzione.
Il timore era infatti quello di dare copertura costituzionale ad un diritto che la Repubblica, pur impegnandosi a promuovere e riconoscere, avrebbe avuto difficoltà a garantire in maniera universale.
Un timore che ben emerge dalle parole di Guido Cortese, membro della Terza Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, che appunto si domandò se il diritto al lavoro dovesse intendersi come il diritto di rivolgersi allo Stato per domandargli un’occupazione: un diritto perfetto del singolo, quindi, munito di tutela giuridica qualora venisse leso o restasse inattuato.
Se però così fosse, osservò Cortese, “come farà la Repubblica a garantire in concreto a tutti i cittadini il soddisfacimento di questo diritto che ha affermato, del diritto al lavoro?”. Perchè “… quando si dice che la Repubblica riconosce a ciascuno il diritto al lavoro, la Repubblica assume un impegno di dare lavoro a ciascun cittadino che il lavoro reclama, e lo reclama sulla base di una norma costituzionale.”
A questa riflessione se ne associarono altre.
Si osservò infatti che intendendo il diritto al lavoro come diritto perfetto, lo Stato diverrebbe fonte di questo diritto, mentre è vero che il diritto a lavorare spetta all’uomo indipendentemente dallo Stato.
Compito di quest’ultimo è invece adoperarsi per il bene comune, promuovendo le condizioni per rendere effettivi i diritti del singolo, tra cui appunto quello al lavoro.
Si aggiunse infine che, pur essendo lodevole e auspicabile che la Repubblica riuscisse a garantire un livello di piena e soddisfacente occupazione a tutti, per far questo lo Stato avrebbe dovuto pianificare e dirigere l’intera catena produttiva, assegnando a ciascuno un lavoro, poco importa se non confacente alle sue aspirazioni o effettive abilità. “Si dovrebbe tentare, cioè, un esperimento di bolscevizzazione che condurrebbe alla dittatura e aggraverebbe il collasso economico.” (Cortese).
3.1. L’importanza del diritto al lavoro come base per i diritti sussidiari
Che fare dunque? Escludere l’affermazione del diritto al lavoro dalla Costituzione, visto che la Repubblica italiana si basa sulla proprietà privata?
I Costituenti non furono di questo avviso e ne esplicitarono le ragioni nella relazione alla Terza Sottocommissione presentata dall’Onorevole Antonio Pesenti.
Nella relazione si legge che sancire il diritto al lavoro in Costituzione, oltre a costituire una precisa indicazione di politica economica e affermare un’esigenza della coscienza popolare moderna, produrrebbe conseguenze giuridiche importanti.
Questo perché dal diritto al lavoro “… e non da altri, può derivare il principio del diritto al riposo retribuito ed alla protezione sociale, intesa non come organizzazione assicurativa mutualistica di carattere privato — sia pure con riconoscimento e controllo statale — ma come preciso obbligo della società di garantire un minimo di vita e di difesa sociale a chi, per colpa non sua o per inabilità, non ha il lavoro a cui avrebbe diritto. Ecco perché anche nella nostra società è bene affermare il diritto al lavoro. Se esso, nella sua forma principale, non è immediatamente attuabile, sta tuttavia alla base di diritti sussidiari, sostitutivi, che possono essere immediatamente realizzati”.
Il diritto al lavoro garantito in Costituzione non è quindi un diritto perfetto ma un progetto, un obiettivo cui tendere, che proprio in virtù della sua collocazione tra i principi fondamentali diventa valore fondante e principio guida della futura legislazione.
E anche quando non è pienamente realizzato – sia perchè la Repubblica non è in grado di assicurarlo a tutti, sia perchè non tutti i cittadini sono in grado di lavorare – diventa strumento per promuovere la personalità umana e presupposto base per la previsione di altri diritti sociali indispensabili, confermando così il valore che la Carta riconosce al singolo, anche quando non è (o non è più) in grado di svolgere un’attività produttiva.
3.2. Pietro Ichino: i tre modi di intendere il diritto al lavoro
Sull’esatta portata del diritto al lavoro affermato in Costituzione spicca, per autorevolezza e originalità, il contributo del grande giuslavorista Pietro Ichino (Pietro Ichino TRE MODI DI INTENDERE IL “DIRITTO AL LAVORO”).
Secondo Ichino esistono tre modi di intendere il diritto al lavoro: un modo burocratico, uno sindacale e il modo costituzionale.
Il modo burocratico è quello sperimentato in Italia dal 1949 al 1997, quando il collocamento era monopolio statale e il cittadino, tramite gli uffici di collocamento, maturava il diritto ad essere avviato al lavoro in base ad una graduatoria.
Il modo sindacale affonda invece le radici nell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e si identifica con il diritto del lavoratore a conservare ilposto di lavoro, dunque a non essere licenziato.
Sia il modo burocratico che quello sindacale concepiscono il diritto al lavoro come diritto soggettivo. Muta solo il soggetto passivo della pretesa, nei cui confronti è possibile azionare il diritto eventualmente leso: nel primo caso è lo Stato, nel secondo è il datore di lavoro.
Resta poi il terzo modo, quello costituzionale, che concepisce il diritto al lavoro come obiettivo cui la Repubblica deve costantemente tendere, da promuovere e garantire.
Secondo Ichino, il “modo costituzionale” è anche quello “più serio e più impegnativo di intendere il principio costituzionale del diritto al lavoro”, poichè “non vi è modo migliore per garantire a tutti una opportunità di lavoro secondo le proprie capacità e la propria scelta, che quello di un mercato del lavoro ben funzionante, fluido e innervato di servizi efficienti, in un sistema economico aperto.”
Anche Ichino conferma dunque l’impossibilità di intendere il diritto al lavoro come diritto soggettivo perfetto, configurandolo piuttosto come un diritto potenziale, in base al quale lo Stato si impegna ad attuare l’esigenza fondamentale del popolo italiano, ossia quella di lavorare.
4. Il diritto al lavoro ai tempi del Covid-19
Il tema del lavoro come diritto è esploso con una veemenza senza precedenti a seguito della pandemia da Covid-19, la cui durata e il livello di estrema gravità raggiunto hanno compromesso la (già precaria) capacità del nostro Paese di intervenire efficacemente con validi ammortizzatori sociali.
Nel 2020 Confcommercio ha stimato la chiusura di circa 390.000 imprese italiane, a fronte di poco più di 85.000 aperture, con una riduzione netta di 305.000 unità.
Una situazione drammatica che continua tuttora ad impone il necessario, difficile bilanciamento tra tutela della salute e della vita umana e diritto al lavoro, con un esito, per molti, niente affatto scontato.
In questo scenario la valenza programmatica della norma è riemersa con tutta la sua forza, prestando il fianco alle critiche nei confronti dello Stato, ritenuto responsabile dell’elevato livello di inoccupazione del Paese e dunque di aver “tradito” la promessa insita nell’art. 4 della Costituzione.
5. Cosa vuol dire che il lavoro è un dovere?
Al diritto al lavoro si accompagna il dovere per ogni cittadino di svolgere, compatibilmente con le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Il secondo comma dell’art. 4 della Costituzione ci ricorda quindi che se è vero che la Repubblica deve impegnarsi a promuovere un livello di piena occupazione, è altrettanto vero che l’individuo (che è in condizioni di farlo) ha l’obbligo di impegnarsi a cogliere le opportunità che il mercato gli offre.
Nello spirito della Costituzione, il lavoro diventa infatti lo strumento mediante il quale il singolo assolve ad una duplice funzione: da un lato realizzala propria personalità, dall’altro partecipa e contribuisce alla vita di relazione, adempiendo i doveri solidaristici di cui all’art. 2 e realizzando gli ideali di progresso e bene comune tanto cari ai Costituenti.
Come osservò il Costituente Francesco Colitto “Il lavoro, in tutte le sue forme e manifestazioni, non è dal singolo, preoccupato del suo egoistico interesse, esplicato solo per sé o per la famiglia o per l’imprenditore, ma per tutta una determinata categoria di persone, perché la Nazione, per essere attiva e potente, ha bisogno che ciascuno lavori.”
5.1. Il carattere programmatico della norma
Secondo l’art. 4, secondo comma della Costituzione, il lavoro non si concretizza soltanto in attività materiali ma anche in quelle che concorrono al progresso morale e spirituale della società.
In quest’ottica il lavoro diventa quindi una sorta di “livella” sociale, ponendo tutti i cittadini sullo stesso piano, in quanto tutti ugualmente importanti e necessari al progresso collettivo, a prescindere dal titolo e dalla classe sociale di appartenenza.
La formula contenuta nella norma conferma il carattere compromissorio della nostra Costituzione, diretta conseguenza della varietà di schieramenti politici presenti all’interno dell’Assemblea Costituente.
Combina infatti l’idea del lavoro come strumento per conseguire il progresso sociale, tipico retaggio illuminista, con quella propriamente marxista del lavoro come dovere, con l’equiparazione ad attività che concorrono al progresso materiale e spirituale della società, di matrice prettamente cattolica.
5.2. Sulla natura del lavoro come dovere
Tra gli interrogativi emersi in Assemblea Costituente, quello sulla natura del lavoro come dovere: ci si chiese infatti se poterlo qualificare come dovere morale, giuridico o attribuirgli una valenza ulteriore.
Sicuramente il lavoro è un dovere morale, in quanto è innegabile che ciascun individuo debba contribuire allo sviluppo materiale e spirituale dell’organismo sociale in cui vive.
I Costituenti si posero però il problema di capire chi potesse valutarese un’attività o una certa funzione concorressero o meno a questo sviluppo.
Inevitabilmente – osservarono – sarà un giudice (in modo più o meno diretto) a doversi pronunciare sul punto e ciò potrebbe essere pericoloso, perché potrebbe arrivarsi “a stabilire che una categoria di cittadini non svolga una funzione utile per il mutevole criterio, per il mutevole giudizio che si ha dell’attività sociale a seconda di questa o di quella ideologia trionfante nella lotta politica.”
Non sembra invece potersi parlare di un dovere giuridico del lavoro, perchè altrimenti dovrebbe riconoscersi alla società il potere di costringere l’individuo a lavorare “e questa è una proposizione che nessuno vorrebbe sostenere, perché significherebbe l’annullamento della libertà umana.”.
Il lavoro ha invece la duplice, innegabile connotazione di dovere individuale e sociale.
“[…] è un dovere anzitutto individuale – scrisse Colitto – in quanto, considerato l’individuo nella propria autonomia di fronte alla natura e agli altri uomini, costituisce il solo vero mezzo per assicurare il benessere del singolo e la continuità della specie.”
Uno di quei doveri fondamentali – come egli stesso lo definì – di cui è intessuta l’essenza spirituale di ciascuno e da cui è diretta la nostra vita quotidiana; un lavoro, cioè, che non vuol essere considerato come sforzo o somma di sforzi isolati, frammentari ed episodici, diretti alla soddisfazione di un bisogno immediato, ma come attività complessa, in costante rinnovamento, finalizzata a realizzare il dominio della personalità umana su tutte le vicissitudini e in tutte le contingenze.
Un’attività che quindi non si estingue con l’agiatezza raggiunta ma permane come necessità dello spirito, divenendo “una missioneinseparabile dalla natura umana, una nobile passione, che non dà tregua e riposo, che piega ad ogni sacrifizio e ad ogni rinunzia.”
Al contempo, il lavoro è anche un dovere sociale, cioè un dovere verso la collettività: è infatti il modo con cui l’individuo, nella solidarietà necessaria in tutti i produttori, partecipa e contribuisce alla vita sociale; lo strumento mediante il quale può quindi realizzarsi il bene ed il progresso comune.
Il testo che avete appena letto è una relazione, cioè un testo espositivo, con uno scopo informativo. Non contiene opinioni personali, ma piuttosto i risultati di un lavoro di ricerca sul dibattito che portò la Costituente alla formulazione dell’articolo 4, in cui diritto e dovere sono legati dal carattere programmatico della norma. Il carattere programmatico della norma: questo è il centro del discorso. Fatevi aiutare da ChatGpt. Chiedete anzitutto di chiarirvi il significato di questa frase, e poi fategli riscrivere il testo, in modo breve (circa 200 parole) con lo scopo di renderlo “leggibile” a chiunque, qualunque sia il suo livello di istruzione. Significa che il punteggio deve essere maggiore di 60/100. Ricordate che la difficoltà con ChatGPT è nell’impartire le giuste istruzioni (vedete a questo proposito L’arte del prompt).
Ora che avete letto e riscritto la relazione dell’avvocato Irene Marconi, scrivete una vostra relazione di circa 800/900 parole sul dibattito costituente a proposito dell’art.1.