Il pericolo dell’orrore virtuale. Umberto Eco intervista Tiziano Sclavi su Dylan Dog. Eco: «Vivendo in un’epoca di New Age, un fumetto come Dylan Dog non è una sorta di invito all’irrazionale per un considerevole numero di lettori?». Sclavi: «Ciò che rende virtuale l’orrore non sono i film o i fumetti, ma i programmi televisivi come Carramba che sorpresa!, Stranamore e tutte le altre trasmissioni di questo genere… I ragazzi che hanno ucciso gettando i sassi dal cavalcavia non si ispiravano a Dylan Dog, ma a programmi di questo tipo! Io credo che quei ragazzi pensassero di diventare gli ospiti d’onore di una trasmissione televisiva e che la vittima poi li avrebbe raggiunti in studio per un abbraccio finale…»
Nel 1998 Eco e Sclavi si incontrarono per parlare di fumetti e di Graphic novel, di zombie, di violenza e questione morale. L’intervista si legge sul sito di Tiziano Sclavi e fu pubblicata nel volume Dylan Dog – Indocili sentimenti, arcane paure, Euresis edizioni, Milano,1998. Il volume è oggi, febbraio 2023. ripubblicato da Odoya Editore
Su ItalianaContemporanea Graphic Novel è uno scritto riconducibile alla tipologia Narrare. 5.584 parole, 25 minuti circa di lettura. Leggi di più
Umberto Eco: Credo che l’interesse principale di questo dialogo stia nel far parlare Sclavi che parla pochissimo, mentre tutto quello che io penso è già stato stampato. Quindi farò la parte del “grillo parlante” e del provocatore…
Però vorrei fare qualche considerazione iniziale, perché, leggendo alcuni tra i saggi inseriti in questo volume, ho notato che non si tratta tanto di interventi critici, quanto piuttosto di divagazioni su un’opera di culto… Non vorrei qui essere frainteso da qualcuno che non ha letto ciò che ho scritto in passato sull’argomento e che quindi può pensare che io faccia una differenza tra “opere d’arte” e “opere di culto”, ovvero da una parte Shakespeare e dall’altra “The Rocky Horror Picture Show”… Ho detto molte altre volte che la Divina Commedia è un’opera di culto, mentre i Sonetti di Petrarca e il Decamerone no. Quindi la definizione di “opere di culto” è trasversale.
In un saggio su “Casablanca” avevo scritto che è fondamentale per un’opera di culto essere “sgangherata”. “Casablanca” è sgangherato per definizione, perché nessuno sapeva com’era la sceneggiatura, nessuno fino alla fine sapeva se Ilse sarebbe scappata con Rick oppure con Victor Laszlo… Poi, però, dovendo spiegare perché anche la Divina Commedia è un’opera di culto – e dire che la Divina Commedia fosse “sgangherata” offendeva la mia educazione – ho trovato questa bella idea: sono opere di culto non solo quelle “sgangherate”, ma anche quelle “sgangherabili”. La Divina Commedia è sgangherabile, a differenza per esempio del Decamerone, perché se prendo solo una parte di una novella, questa non funziona; mentre della Divina Commedia posso prendere anche solo un verso… Tutto Shakespeare è “sgangherabile”… Thomas Stearns Eliot ha scritto un saggio memorabile sul fatto che l’Amleto è l’opera più affascinante di Shakespeare proprio perché sgangherata: nasce dall’accostamento di diverse fonti che il drammaturgo non ha saputo fondere e da cui deriva tutta la grande ambiguità della tragedia, che non è l’ambiguità del personaggi, ma quella di Shakespeare che non sapeva come farlo agire; è proprio questo a renderlo misterioso e memorabile…
Dunque “sgangheratezza” e “sgangherabilità” come condizioni essenziali perché un’opera diventi di culto, sia essa la Divina Commedia, The Rocky Horror Picture Show, l’Ulisse… o Dylan Dog! Lei, Sclavi, che opinione ha in merito?
Tiziano Sclavi: Sulla “sgangherabilità” non saprei, ma per quanto riguarda la “sgangheratezza” voglio dire una cosa… Dylan Dog, in fondo, per quanto anomalo, è pur sempre un giallo… E cosa fanno i giallisti? Partono dalla fine: loro sanno chi è l’assassino e a partire da lì costruiscono tutto ciò che viene prima… Io non sono mai riuscito a farlo! Ecco, io sono “sgangherato” perché parto dal mistero e lo risolvo insieme al lettore: non so come va a finire; posso arrivare a pagina settanta di una sceneggiatura di Dylan Dog senza sapere chi è l’assassino, oppure chi è l’incarnazione del diavolo…
Umberto Eco: Io direi che questo è normale… Salvo forse per Agata Christie… La “sgangheratezza” piuttosto è dovuta in parte alla serialità… Nero Wolfe è sgangherabile perché si possono continuamente prelevare i punti fissi – il suo rapporto con le orchidee, con Archie Goodwin e via dicendo… – e connetterli indipendentemente dalle componenti variabili. In questo senso tutto il seriale è sgangherabile… Si possono fare meravigliosi esercizi di culto in Colombo, anche se Colombo richiede pure un giudizio critico sul singolo episodio, in quanto girato da registi diversi – persino John Cassavetes e Steven Spielberg -, ma gli elementi di sgangherabilità ci sono comunque: dalla moglie, all’automobile, al cane… Ecco, Lei, in Dylan Dog, gioca con questa sgangherabilità? Essa incide sul suo modo di immaginare le trame o è semplicemente un effetto collaterale di cui non tiene conto?
Tiziano Sclavi: Beh, la sgangheratezza del mio modo di scrivere, di cui parlavo prima, diventa sgangherabilità perché io procedo così, per immagini, improvvisando, solo per il piacere di scrivere quella scena, poi metto le sequenze una dopo l’altra e solo verso pagina sessanta-settanta mi pongo il problema di collegarle…
È chiaro che a volte questo processo di amalgama viene bene e altre no, ma in ogni caso, alla fine, le singole sequenze si possono comunque “smontare” e leggere singolarmente… Fermi restando gli elementi di base, i “ritornanti”, vale a dire Dylan che suona il clarinetto, costruisce il galeone e vive quasi sempre un’intensa storia d’amore, gli interventi a sproposito di Groucho, Bloch perennemente in ansia per la sua pensione e così via…
Umberto Eco: Mi ha detto Daniele Barbieri che, mentre altri sceneggiatori scrivono: “un uomo entra nella stanza e spara” e poi il disegnatore realizza la scena come vuole, le sue sceneggiature sono invece dei veri e propri racconti. Per cui Lei dice: “Piove, ma piove moltissimo e poi piove così e così…” in modo da spingere il disegnatore a realizzare esattamente il tipo di pioggia che Lei desidera… E’ vero? Perché, se lo è, dovremmo sostituire al termine “sceneggiatura” il termine “regia” e Lei, più che sceneggiatore, sarebbe un regista “alla Strehler”, che grida e insulta gli attori perché facciano esattamente quel gesto…
Tiziano Sclavi: E’ vero… io curo le sceneggiature in modo maniacale: posso anche scrivere due pagine di descrizione per una sola vignetta, perché voglio dare al disegnatore non tanto l’indicazione tecnica di stampo cinematografico come il primo piano, il campo lungo, il controcampo, ma soprattutto l’atmosfera; voglio che lui provi le stesse sensazioni che provo io quando scrivo. A volte piango anche… Mi ricordo che mentre scrivevo le ultime pagine di “Johnny Freak”, una delle storie più amate di Dylan Dog, piangevo e avevo le lacrime che mi cadevano sul computer e dicevo: “No, non morire! Non morire!”, anche se poi ero io che lo facevo morire! Devo comunicare tutte queste emozioni, prima di tutto al disegnatore, altrimenti lui non partecipa…
Umberto Eco: Quante volte se la prende perché un disegnatore non la segue nelle sue indicazioni?
Tiziano Sclavi: Raramente…
Umberto Eco: Perché bisogna dirlo, ci sono alti e bassi: alcuni albi sono realizzati graficamente in maniera scadente rispetto ad alcuni altri…
Tiziano Sclavi: Mah, io dico sempre che è molto meglio un disegnatore con dei limiti oggettivi, che però ce la mette tutta, di un disegnatore di talento che fa le cose senza troppa cura… A me interessano l’impegno e la partecipazione all’atmosfera della storia…
Umberto Eco: Senta, Sclavi, mi pare che alcuni degli autori intervenuti in questo volume non si sono messi a dire, come si farebbe recensendo qualsiasi romanzo: “è bello” oppure “è brutto” o, nella fattispecie di Dylan Dog, “l’episodio disegnato dal tale è più efficace dall’episodio disegnato dal talaltro”; oppure: “Sclavi quando scrive in prosa è più efficace di quando scrive in poesia; la metrica delle poesie può essere giudicata così e cosà…”. No. Sono interventi simili a quelli che si tengono, che so, nei simposi su Joyce, in cui si discute se il tal personaggio fa la tal cosa o la talaltra… Cosa che è tipica degli atteggiamenti di culto, quelli per cui intorno a Dante possono nascere le crittografie dantesche o i giochi a quiz sui personaggi. Nessuno fa giochi a quiz sui Sonetti del Petrarca o sul Decamerone: li si prende così come sono e basta. Invece si fanno su Dante Alighieri, su “The Rocky Horror Picture Show”, su Joyce e su Flash Gordon. Quindi, lo ripeto, si tratta di un fenomeno trasversale.
Ed è molto curioso, perché, io credo, si possono prendere i diversi albi di Dylan Dog e dire: “qui la storia sembra più originale”, oppure “qui il citazionismo è di second’ordine”, “questo è più brillante”… Invece questo non si fa, così come nei cenacoli danteschi non ci si chiede più se il ventesimo canto del Paradiso sia più bello del quattordicesimo canto del Purgatorio… Quindi la mia domanda è qual è la sua reazione emotiva di fronte a questa “imbarazzante” situazione di essere autore di un serial di culto, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta?
Tiziano Sclavi: Per la verità le stroncature ci sono. Soprattutto nelle cosiddette fanzine, le riviste di critica fumettistica, i giudizi negativi vengono espressi. Anche se è vero che nei saggi, normalmente, non ci sono troppe distinzioni; mentre alcune storie sono sinceramente brutte, e parlo solo per quelle che ho scritto io, non do giudizi si quelle scritte da altri…
Ecco, i lettori invece hanno più coraggio e a volte scrivono, molto sinceramente, cose del tipo: “Sclavi, sei impazzito?”, oppure “uccidete quel disegnatore” o “appendetelo per i piedi”. Questo sì, i lettori lo fanno e anche i redattori della Bonelli, che sono poi i critici più feroci…
Umberto Eco: Quindi i più ingenui sono i critici…
Tiziano Sclavi: No, non credo che siano ingenui… Forse prendono Dylan Dog come un’istituzione, cosa che non è… Anche perché io ogni mese deve sudare sette camicie per inventare delle situazioni nuove, per poi chiedermi sempre: “Chissà se questo andrà bene, se mi è venuto bene…”. Perché non lo so mai… E poi a me non piace niente di quello che scrivo…
Insomma Dylan Dog non è un oggetto di culto, ma un prodotto artigianale che va realizzato di mese in mese…
Umberto Eco: Ecco, però, lo ripeto, io ho l’impressione che nella dylandogmania le differenziazioni, che implicano un giudizio estetico tra episodi più o meno riusciti, scompaiono di fronte al gioco-quiz che fa del dylandoghista esperto colui che ricorda tutto; fenomeno riscontrabile appunto anche tra i dantisti per i quali il ricordare il determinato verso o il saperne fare la crittografia mnemonica è criterio di eccellenza, indipendentemente del fatto che sia un verso ben riuscito o mal riuscito… E’ proprio questa differenza tra “culto” e “critica” che stavo cercando di mettere in questione, e mi interessa conoscere la sua reazione…
Tiziano Sclavi: La mia reazione è sempre e comunque di stupore… Lo stupore inizia dal fatto che c’è qualche pazzo che mi dà dei soldi per scrivere… Sono stupito oggi, così come rimasi stupito a sedici anni nel vedere un mio racconto pubblicato sulla rivista della scuola… Lo stupore è identico ad allora. E poi sono stupito che la gente lo legga, e poi ne parli… Non mi sembra vero…
Umberto Eco: Io sono rimasto stupito ogni volta che una donna mi ha amato, mentre ogni volta che qualcuno mi ha pubblicato… beh, dicevo: “Mi sembra giusto!”. Si vede che ero più insicuro sessualmente che letterariamente…
Senta un po’… Io sono un lettore di Dylan Dog, ma non sono un dylanmaniac, quindi alcuni episodi non li ho letti e magari altri li ho letti quattro volte perché mi ero dimenticato di averli già letti, quindi, in questo senso, non ho una competenza specifica, rappresento il lettore normale… Ora, mi corregga se sbaglio, ma mi sembra che, dalle origini a oggi, Dylan Dog abbia seguito una curva “ideologica”… E nella mia mente, la curva ideologica è stata questa: una prima fase in cui la storia è la seguente: accade un fatto inspiegabile e apparentemente misterioso, c’è un’indagine attraverso cui del mistero si dà una spiegazione più o meno razionale, mentre alla fine, con un colpo di cosa, si avanza maliziosamente il sospetto che invece il misterioso esista veramente…
Dopo questa prima fase, questo gioco scompare e l’occulto, il misterioso, l’inspiegabile, l’irrazionale prendono il sopravvento… E’ solo una mia impressione?
Tiziano Sclavi: Che lo schema originario fosse quello da Lei descritto è vero. Da “Carrie” in poi l’hanno usato tutti e l’ho usato anch’io… Ma è chiaro che dopo venti numeri questo schema diventa noioso, anche per me che lo scrivo… Io devo divertirmi mentre scrivo, perché se non mi diverto non poi nessuna possibilità di divertire gli altri… E per divertirmi devo prima crearmi delle regole e poi sovvertirle…
Umberto Eco: Che poi è un principio fondamentale di ogni operazione artistica…
Tiziano Sclavi: Certo, perciò, dalle prime storie in cui era presente questo schema, ci si è mossi man mano verso il surreale e il misterioso… Questo cammino verso il surreale ha assunto connotazioni diverse per i primi sessanta numeri circa si è trattato di un surreale/horror o splatter… Poi mi sono annoiato dello splatter, quindi ultimamente di horror c’è ben poco: il tono della serie è surreale/romantico o quello della sophisticated comedy, virata al surreale… Il mio sogno è sempre stato quello di fondere i generi: perciò l’idea di mettere insieme Ernst Lubitsch, Neil Simon e il George Romero di “Zombi” mi diverte moltissimo. Far parlare i personaggi come fa Neil Simon, ma in un contesto horror… Che meraviglia!
Umberto Eco: Non crede che questi discorsi di poetica o “storia e psicologia dell’autore” rischino di essere solipsisti? Dico questo perché la struttura editoriale e di distribuzione è tale che io, persona normale, non sono in grado di capire qual è il Dylan Dog di tre anni fa o quello di domani, ma compro in edicola il primo che mi capita; quindi questa curva che va dallo splatter al romantico mi è del tutto estranea, perché oggi leggo un episodio splatter e domani uno romantico… Come può un autore sopportare questo fatto “imbarazzante”, legato soprattutto alla serialità?
Glielo chiedo perché questo fenomeno di “confusione temporale”, di “inversione causa/effetto” può capitare persino per un singolo libro: a me è capitato che qualcuno sia andato il libreria e, vedendo “Il nome della rosa”, abbia detto: “Oh! Hanno già tratto il romanzo dal film! Allora lo compro…”. Figuriamoci dunque per delle pubblicazioni mensili, che, con le ristampe, finiscono col diventare settimanali! A ben guardare questo è poi lo stesso problema degli autori di Colombo o di L’ispettore Derrick perché l’episodio che è stato scritto prima, magari viene trasmesso dopo e viceversa e, tranne i fan più accaniti, nessuno tiene conto di una possibile evoluzione…
Tiziano Sclavi: Non credo che sia questo il caso dei lettori di Dylan Dog: penso che loro abbiano ben presente l’evoluzione della serie; soprattutto perché sono dei lettori fedeli… All’inizio erano in pochi, circa cinquantamila e ancora adesso, per la verità, c’è chi rimpiange quei tempi…
Umberto Eco: E poi i lettori quanti sono diventati?
Tiziano Sclavi: Eh! Abbiamo raggiunto il mezzo milione di copie, senza contare le ristampe; anche se adesso, a causa della crisi che colpisce l’intero mondo dell’editoria, ci siamo assestati sulle trecentocinquantamila copie… In ogni caso, quasi tutti i lettori comprano Dylan Dog ogni mese, perciò il nostro compito diventa proprio quello di “spiazzarli” in questa loro fedeltà, ovvero mantenere le caratteristiche dei vari personaggi e invece modificare la struttura della storia. Procedimento, questo, non applicabile, per esempio, a Colombo, la cui struttura narrativa non è modificabile… Dylan Dog, invece, ha dovuto rompere, a un certo punto della sua vita editoriale, questo schema prologo-indagine-soluzione apparente ribaltamento finale per non annoiare i lettori…
Umberto Eco: Questa evoluzione della serie corrisponde a un calcolo commerciale – ovvero la proposta viene variata secondo le richieste del pubblico – o dipende anche da una trasformazione interiore? Dico questo perché io sono un collezionista di libri antichi che riguardano l’alchimia e le questioni magiche, ma sono un collezionista “ateo”, che non crede nelle cose che colleziona; anzi le colleziono proprio perché amo collezionare cose false. Naturalmente ho rapporti con librai antiquari specializzati in questo argomenti e una volta ho chiesto a uno di loro: “Ma Lei crede in quello che vende?”, e lui mi ha risposto: “All’inizio no, ma… Ma, sa, continuando ad avere un certo tipo di clientela, continuando a leggere un certo tipo di testi, frequentando un certo ambiente, devo dire di sì… Ora ci credo un po’ di più…”. Allora, Sclavi, Lei crede nell’occulto di cui scrive?
Tiziano Sclavi: No. Anzi, viene detto esplicitamente, e nell’ultimo periodo è stato ripetuto più volte, che l’occulto, il misterioso, il demoniaco vanno benissimo per le opere di fantasia, ma che la realtà è ben altra cosa… Anzi, nella serie ho inserito un personaggio, il professor Adam, che è un po’ il simbolo del Cicap, di cui sia che io che Lei facciamo parte.
Se devo fare un’eccezione, la faccio per gli Ufo: non ci credo, ma ci spero. Tutto il resto è accettabilissimo nelle storie di fantasmi, non certo se serve per spillare soldi alla gente, come nel caso dei “maghi” a pagamento, dei “guaritori”, degli “esorcisti”, dei falsi “soggetti Esp” e via dicendo…
Umberto Eco: Ma allora Lei mi spinge a farle una domanda molto imbarazzante, perché mette in gioco dei criteri etico-morali all’interno del discorso letterario. È certamente vero che finchè un narratore scrive per trecento lettori può anche fare l’elogio dell’oppio, ma se improvvisamente si trovasse a essere letto da dieci milioni di lettori, forse potrebbe avere un problema morale. Io ho iniziato a scrivere su “L’Espresso” quando era un foglione con ottantamila lettori radical-chic e facevo dell’ironia; quando “L’Espresso” è diventato un tabloid e il numero dei lettori è aumentato enormemente, ho capito che se facevo dell’ironia, questi nuovi lettori non mi avrebbero capito più; e questo mi ha posto dei seri problemi di coscienza. Ecco, vivendo in un’epoca di new age trionfante, e non potendo avere il “vantaggio” di essere un autore per trecento lettori, non le nasce il problema che quello che Lei scrive da iscritto al Cicap, con taglio ironico, sia per un considerevole numero di lettori una sorta di invito all’irrazionale?
È un problema che ho avuto io scrivendo “Il pendolo di Foucalt”, che credevo di essere apertamente un romanzo grottesco sull’irrazionale e mi sono ritrovato a ricevere lettere di persone che l’hanno preso sul serio… Se è successo a me con un numero di lettori più ridotto e non di età adolescenziale – mentre a Lei va riconosciuta una readership che va dal professore universitario accademico dei Lincei al ragazzino di terza media – non si è mai posto questo problema tanto serio da togliere il sonno?
Tiziano Sclavi: Mi sono posto un problema morale di altro tipo, ma analogo e che riguarda la violenza…
Umberto Eco: Sì, ma questo è un altro problema… Se uno massacra i genitori, tutti i giornali ci dicono che ha fatto male. Invece nessuno avverte la gente che è male credere al Graal, anzi molti ci fanno i soldi dicendo che è bene. Eppure è da queste fantasie che possono nascere i più bassi istinti, dalla messa nera alla svastica.
Tiziano Sclavi: Noi, intesi come redazione di Dylan Dog, siamo innanzitutto molto onesti. Nelle rubriche e spesso nel fumetto stesso citiamo sempre le nostre fonti. Se copiamo o ci ispiriamo – in realtà copiamo spudoratamente… – lo diciamo sempre…
Umberto Eco: Ma la citazione della fonte può essere intesa come attestato di verità e non come pagamento di un debito! Ovvero, Lei che cita la fonte paga un debito, ma quello che legge, vedendo la fonte, pensa: “allora è vero…”. Che è poi quello che succede spesso con Martin Mystère di Alfredo Castelli, che, riportando le sue fonti, da un lato può voler dire: “dico una balla, e la copio da questo…” e dall’altro può voler dire: “è assolutamente vero, perché l’ha detto quello…”
Tiziano Sclavi: Ma questo perché Castelli cita saggi “storici”, per quanto sui generis, mentre io cito altre opere di finzione, per cui il gioco è abbastanza scoperto… Devo anche dire che il pubblico di Dylan Dog è un pubblico di cultura medio-alta…
Umberto Eco: Ecco, questo mi interessa saperlo… Non ci sono tra i lettori di Dylan Dog i ragazzini che credono veramente nell’esistenza dei morti viventi?
Tiziano Sclavi: No, o almeno lo credo, e lo spero. Io dico sempre che, per un colpo di fortuna, Dylan Dog ha intercettato miracolosamente gente che sta al gioco… D’altronde è un fumetto impossibile da leggere per un pubblico di scarsa cultura o che si lascia influenzare… Perché è difficile, complesso, con alcune storie al limite della comprensibilità…
Umberto Eco: Se questi quattrocentomila lettori sono, come dice Lei, di cultura medio-alta, allora nasce il problema del double coding… Lei sa che una delle caratteristiche principali del post-moderno è proprio quella della possibilità di un doppio livello di lettura: di fronte a testi infarciti di citazioni e rimandi ad altri testi, il lettore ingenuo legge senza scoprire le citazioni, mentre quello di secondo livello prova piacere nella “caccia alla citazione”… Dylan Dog è un esempio eminente di double coding e lo dicono i saggi pubblicati in questo stesso volume. A questo proposito, ho trovato, nel saggio di Ostini, quella bellissima intuizione secondo cui le citazioni metalinguistiche sono paragonabili agli zombi che risorgono dalle narrazioni precedenti. Tutta la teoria della narrativa contemporanea come continua citazione, ma nessuno aveva mai legato la citazione al ritorno degli zombi… Essendo da un lato Dylan Dog un esempio di citazionismo a oltranza e dall’altro di “zombismo” a oltranza, i due elementi vengono così collegati… Mi sembra un’idea geniale…
Tiziano Sclavi: E’ un’idea che è piaciuta molto anche me… Senza contare che, sia nel mio romanzo “Dellamorte Dellamore” che nel film che è stato tratto, i morti viventi non si chiamano “zombi”, ma “ritornanti”…
Umberto Eco: D’accordo… Perciò tutti quelli che leggono Dylan Dog a un livello superiore fanno parte di una sorta di “club” e va bene – tutt’al più si può fare la gara per scoprire chi fra loro ha scoperto il riferimento al tal film del 1618… un film girato da Madre Coraggio durante la Guerra dei Trent’anni… Ma quelli che leggono solo il primo livello quanti sono? Crede davvero che siano così pochi?
Tiziano Sclavi: Io credo di sì, anche se si tratta in fondo di una sensazione, non abbiamo mai fatto indagini di mercato o simili…
Umberto Eco: Eh, ma si tratta di un problema ideologico-morale molto serio per Lei che è un autore di tale successo…
Tiziano Sclavi: Lo so, ma tutto è un problema morale… Quando vendevamo cinquantamila copie, io scrivevo così, come mi veniva, mettendoci dentro di tutto… Quando poi il fenomeno è esploso e mi sono trovato di fronte a punte di seicentomila acquirenti (che vuol dire una stima di un milione e ottocentomila lettori!) io mi sono sentito una grande responsabilità sulle spalle. All’improvviso ho cominciato a misurare tutte le parole…
Umberto Eco: Quindi il problema è sorto…
Tiziano Sclavi: Certo, ed era un problema di grande responsabilità, soprattutto qualitativa, che è quella di dare sempre il meglio a questi lettori che sono così fedeli e così numerosi… I primi cinquantamila affezionati magari una storia non proprio riuscita me la perdonavano… Ma le altre centinaia di migliaia?
Per quanto riguarda il problema morale della scrittura, io penso che l’influenza che un fumetto o un film possono avere sulla realtà sia assolutamente nulla… Posso citare una frase di Stanley Kubrick recentemente tornata di attualità… All’uscita di “Arancia Meccanica” hanno posto a Kubrick il problema di una possibile emulazione da parte dei giovani di quanto visto sullo schermo; e lui ha risposto che nemmeno con la suggestione post-ipnotica si può costringere qualcuno a fare ciò che è contro la sua natura…
Se uno strangola la nonna, significa che è nella sua natura; vedere un film, sentire l’heavy-metal o leggere Dylan Dog non può nemmeno rappresentare l’occasione che stimola la violenza: rifiuto totalmente questo genere di responsabilità, anche sulla base di fior di sentenze di tribunale. A questo proposito, in un numero della rivista del Cicap è stato pubblicato un articolo sulla supposta influenza dei messaggi subliminali, con annesso il testo di una sentenza di un giudice statunitense in un processo a due ragazzi accusati di un grave fatto di sangue. L’accusa aveva tirato in ballo un gruppo di rock satanico, ipotizzando una loro possibile influenza, ma il giudice ha rifiutato questa chiamata in causa, puntando invece l’indice sulla società e sull’ambiente familiare in cui erano cresciuti i due ragazzi, vere cause scatenanti della violenza.
Umberto Eco: E’ ovvio che in una società in cui tutti fossero iscritti al Cicap, ogni racconto di H. P. Lovecraft verrebbe preso allo stesso modo in cui io colleziono i più raffinati testi alchemici senza crederci affatto… Ma oggi, in un clima di new age imperante, appena qualcuno parla di alchimia, si trova subito chi è disposto a crederci…
Qui però devo porre una questione che per me è problematica… Non per far polemica con Sclavi e Kubrick, ma perché è un dilemma che mi pongo come esperto di comunicazione… La questione se i mass media possano indurre alla violenza è vecchissima; i primi studi risalgono agli anni Sessanta – io già ne parlavo in “Apocalittici e integrati” – e sembra che la conclusione più ragionevole raggiunta all’epoca fosse la seguente: lo spettacolo della violenza induce alla violenza solo in contesti socio-familiari particolarmente difficili, mentre non ha effetti ansiogeni in soggetti che vivono in famiglie equilibrate… Benissimo… Uno psicologo del cinema, Gilbert Cohen-Sèat, mi ha raccontato di aver visto solo una volta, in tutta la sua vita, un bambino completamente nevrotizzato dalla visione di un film, al punto da finire sotto cura psichiatrica… e il film era “Biancaneve e i sette nani…”
Questo mi ha fatto riflettere moltissimo: è naturale che i western degli anni Sessanta, con diecimila indiani morti, non potevano avere nessun effetto, perché il morto cadeva sempre da lontano: non c’era un rapporto diretto tra chi sparava, la pallottola e la caduta… E oserei dire che nemmeno lo splatter più truculento, quello in cui uno infila un coltello nella pancia di un altro, facendone fuoriuscire le budella, con il sangue che sprizza dal naso e dagli occhi, può indurre qualcuno alla violenza, tanto è disgustoso… Secondo me, i film più pericolosi per i giovani sono quelli della serie di Tom & Jerry, quelli in cui qualcuno cade trentesimo piano di un grattacielo, si frantuma in diecimila pezzi e subito dopo si ricompone…
Noi siamo qui di fronte a un fenomeno storico: la mia generazione è l’ultima che ha visto i morti dal vero, per i bombardamenti, per le sparatorie durante la Resistenza… Io li ho visti i morti, ho visto la gente con un buco nella nuca e il cervello che usciva dall’altra parte… Oggi ci troviamo di fronte a una generazione che i morti non li ha visti, come non ha visto i cavalli o le vacche: è risaputo che un’inchiesta tra i giovani americani ha rivelato l’opinione diffusa che il latte fosse un prodotto artificiale, come la Coca-Cola… Trovare un bambino che ha visto un morto ammazzato è piuttosto raro: perciò, quello che rende pericoloso lo splatter non è l’invito all’emulazione – credo che sia molto difficile vedere un film e farsi venire la voglia di andare a piantare un coltello nella pancia di qualcun altro – bensì il possibile effetto di ottundimento dell’orrore per la morte, il credere che la morte sia virtuale… Credo che si sia bisogno, per i giovani, di una nuova “educazione alla morte”, affinché non se ne perda il senso… Ma in ogni caso è qui che oggi nasce il problema morale del raccontare la morte.
Chi raccontava di un grande massacro ai tempi della Chanson de Roland o dell’Orlando furioso, raccontava di una cosa che la gente vedeva tutti i giorni, quindi sapeva di cosa parlava. Perciò quando il Pulci, nel Morgante, diceva: “e fessel tutto come un cacio cotto”, scherzava sì, ma su una cosa che la gente aveva anche visto! Dire una cosa del genere, oggi, è scherzare su qualcosa che i giovani non hanno visto… Devo ammettere che non ho una teoria morale in proposito, ma solo inquietudini, che comunque riguardano sia Lei, Sclavi, sia me, visto che a entrambi capita di raccontare di un massacro o di una morte tremenda…
Tiziano Sclavi: Anch’io ho visto “Biancaneve e i sette nani” da bambino: ero in casa da solo e sono scappato fuori per strada a cercare i miei amici, che mi stessero vicino perché avevo paura… Odio Walt Disney sopra ogni altra cosa… In ogni caso, penso che romanzi, film, fumetti e videogiochi di contenuto violento siano liberatori, perché fanno vedere il morto ammazzato senza che questo sia vero… Lei mi dice di aver visto i morti e io non la invidio… Io ho visto all’obitorio un morto di morte naturale e a momenti portavano via me in barella!
Ciò che rende virtuale l’orrore non sono i film o i fumetti, ma i programmi televisivi come “Carramba che sorpresa!”, “Stranamore” e tutte le altre trasmissioni di questo genere… I ragazzi che hanno ucciso gettando i sassi dal cavalcavia non si ispiravano a Dylan Dog, ma a programmi di questo tipo! Io credo che quei ragazzi pensassero di diventare gli ospiti d’onore di una trasmissione televisiva e che la vittima poi li avrebbe raggiunti in studio per un abbraccio finale…
Umberto Eco: E’ una risposta che non mi dispiace…
Cristina Sclavi: Io vorrei inserirmi e fare una considerazione da lettrice… Io ero ossessionata, come credo molti adolescenti, dal problema della morte e ho scritto una lettera a Tiziano, che già conoscevo per vie indirette. Il problema allora era trovare uno spazio in cui si potesse parlare della morte, perché ciò che dice Lei, professor Eco, è verissimo, ma non solo in riferimento ai morti ammazzati, perché la nostra generazione ha avuto un “difetto di morte”, è una generazione che non crede più alla morte, che crede che Tom & Jerry si rialzino sempre. E questo vale anche per il crack, per l’anoressia, per gli incidenti stradali: uno non crede più di morire. Anche la ritualità che accompagnava e rendeva la morte pensabile, che legittimava un tempo per l’elaborazione del lutto è scomparsa: i morti vengono portati via in pochissimo tempo, non ci sono più le veglie funebri…
Invece io e gran parte dei lettori di Tiziano siamo persone che si interrogano sul senso della morte, perché è qualcosa che non si può escludere dal proprio orizzonte, ma che vivono in un contesto sociale che non fornisce risposte, che elude e nasconde il problema. Uno spazio specifico come Dylan Dog dove della morte si parlava, era strano: era un’occasione quasi “magica” di cui approfittare per approfondire gli aspetti più intimi della paura, della speranza, del trascendente, era uno spazio in cui il problema veniva affrontato in maniera così esplosiva ed eclatante che non si poteva far finta che non ci fosse (potendone anche ridere, però)! A me non pareva vero di aver trovato un interlocutore sul tema della morte… E così gli ho telefonato, ci siamo conosciuti… e ci siamo sposati!
Umberto Eco: Sposati all’ombra della morte!
Cristina Sclavi: All’ombra della morte abbiamo trovato la vita. Non è male…
Umberto Eco: Adesso una domanda cattiva a Sclavi: perché quando intervengono nel testo delle ballate, queste sono così discutibili metricamente? Siccome ci vorrebbe pochissimo per renderle corrette dal punti di vista metrico, è chiaro che non può essere incapacità, ma intenzione… Qual è l’intenzione?…
Tiziano Sclavi: Io non ho mai scritto poesie, ma solo canzoni e le canzoni vogliono una musica… Le ballate di Dylan Dog, come altre che ho scritto, hanno tutte una loro musica e se si cantano sono metricamente perfette…
Umberto Eco: E va bene, ma io la musica come faccio a conoscerla?! Dovrebbe allegare un Cd agli albi!
Tiziano Sclavi: Eh, ci si potrebbe pensare…
Umberto Eco: Va bene, questa domanda era per dimostrare che non sono stato pagato per condurre un dialogo conciliante e almeno una cosa cattiva l’ho detta…
Tiziano Sclavi: Allora adesso una domanda gliela faccio io… Ma Lei che fumetti leggeva?
Umberto Eco: Io nasco con Mandrake, Flash Gordon, Jacovitti, Dick Fulmine… Sono di quella generazione… Già Gim Toro era secondario e Tex non l’ho mai letto perché è uscito in un’epoca in cui io non leggevo più e non leggevo ancora fumetti, ovvero smetto di leggerli negli anni Cinquanta e ricomincio negli anni Settanta…
Tiziano Sclavi: E perché le piace Dylan Dog?
Umberto Eco: Il mio modello è un personaggio di Hugo Pratt – un dàncalo o un eritreo, non ricordo più bene – che faceva cose stranissime e alla domanda che gli veniva rivolta: “Perché fai questo?”, lui rispondeva: “Perché tale è il mio piacere”… Mi sembra una risposta inattaccabile… A me piace Dylan Dog perché di solito è disegnato bene, per le sue continue strizzate d’occhio, mi piace perché io sono convinto di sapere tutte le barzellette del mondo e non riesco a capire come mai Groucho ne sa sempre una più di me… A proposito, dove le va a prendere? Non è controllabile da nessun essere umano una tale quantità di battute…
Tiziano Sclavi: Per quanto è possibile le invento io; anzi, soprattutto negli ultimi tempi mi sforzo affinché siano solamente inventate… A volte per una sola battuta di Groucho mi ci vuole un giorno intero, il che è una follia… E poi naturalmente ho la più grande biblioteca di raccolte di barzellette che esista…
Umberto Eco: Adesso, Sclavi, Le faccio davvero l’ultima domanda… Lei deve scegliere: entro l’anno Tremila ci sarà una catastrofe atomica, ma la civiltà che verrà sarà più o meno come la nostra. Preferisce che sopravvivano gli albi di Dylan Dog o le sceneggiature scritte di suo pugno?
Tiziano Sclavi: Sì, ma la Divina Commedia rimane, però…
Umberto Eco: Sì, sì…
Tiziano Sclavi: Allora scelgo gli albi… Una volta pubblicato l’albo, la sceneggiatura si butta via, non può vivere per conto suo… Tra l’altro, mi sembra doveroso ricordare che un albo è mio (o dello sceneggiatore di turno, visto che non li scrivo certo tutti io) solo per un terzo: come la maggior parte dei fumetti, Dylan Dog è un’opera collettiva, e il merito va diviso in parti uguali tra lo sceneggiatore, il disegnatore e la redazione. Che poi nel dopobomba resti un albo di Dylan Dog mi pare quindi anche un omaggio e un ringraziamento a tutte queste persone… Poi, non oso dirlo, ma mi piacerebbe che si salvasse almeno un mio romanzo…