Odisseo vaga nel Mediterraneo senza riuscire a tornare a Itaca dopo l’assedio di Troia. Edmond Dantès riappare per vendicarsi dei suoi nemici nei panni del misterioso conte di Montecristo. In giro per Londra la signora Dalloway ritrova due amici con cui aveva perso i contatti. Decine di poeti della diaspora messicana cercano di ricostruire cosa ne è stato di due loro enigmatici conoscenti. Queste storie così diverse hanno un tratto in comune. Nessuna di esse può svolgersi in un mondo in cui esiste Internet. Leggi di più
È solo un corollario delle profondissime trasformazioni che il digitale ha portato nelle nostre vite, però vale la pena pensarci, quando si parla del romanzo nel terzo millennio. L’onnipresenza degli smartphone ha fatto sparire dalla nostra esperienza lo smarrimento, la distanza invalicabile e il mistero, che sono una grandissima parte dell’essenza del romanzesco. Oggi il conte di Montecristo verrebbe identificato da un software di riconoscimento facciale; Odisseo navigherebbe col GPS, tenendo aggiornata Penelope grazie alla condivisione della posizione; la signora Dalloway sarebbe già al corrente della vita dei suoi conoscenti tramite i loro aggiornamenti social. Detta così sembra una battuta. Al di là della battuta, però, c’è qualcosa in più.
Ad esempio: ultimamente si è discusso molto del fatto che i maggiori premi letterari italiani sembrano concentrarsi in modo preponderante su opere di non-fiction. La discussione, in genere, finisce per incolpare il marketing librario e una tendenziale perdita di fiducia collettiva nelle possibilità del romanzo d’invenzione. È una spiegazione plausibile, anche se non tiene conto, ad esempio, del fatto che Mi limitavo ad amare te, di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2023), arrivato secondo al Premio Strega; o Ferrovie del Messico, di Gian Marco Griffi (Laurana, 2022), entrato in dozzina e per molti versi il caso letterario italiano dell’anno, sono due romanzi d’invenzione. Sono, anche, due romanzi ambientati in un passato – recente nel primo caso, meno nel secondo – in cui la rivoluzione digitale non era ancora arrivata. Questo li accomuna a tutta la non-fiction giunta in finale allo Strega o al Campiello, che parlando del passato parla di un mondo pre-digitale.
Non penso che sia un caso. La parte digitale delle nostre vite – e con il termine includo tutto il possibile: la raggiungibilità costante, il riconoscimento facciale, la misura in cui le nostre relazioni si incanalano attraverso il gioco di rappresentazione e auto-rappresentazione dei social media, l’impossibilità di perdersi, l’inesistenza di luoghi ignoti, la sostanziale scomparsa della rarità dal nostro orizzonte di vita, sostituita da una scarsità artificiale che il più delle volte si sostanzia in prezzo – è molto, molto difficile da raccontare in un romanzo. Da una parte, appunto, è perché pone dei vincoli molto forti alla trama: a meno di non inventarsi una ragione per cui qualcuno non ha uno smartphone, o di farlo scaricare nel mezzo di una foresta, tantissimi schemi narrativi della tradizione legati all’incomunicabilità, al mistero e allo smarrimento saranno inutilizzabili. D’altro canto, anche nelle parti della nostra vita che hanno incorporato senza strappi il digitale sembra esserci qualcosa di poco romanzabile. L’essenza della nuova comunicazione è la multi-locazione: nel mondo fisico aspetti il bus, o inganni le ore al lavoro, o cerchi il sonno; in quello digitale, al contempo, scrivi al gruppo WhatsApp della scuola, litighi con uno sconosciuto su Twitter, esplori le vacanze di un tuo ex dai suoi social, scorri le notizie, aspetti la spunta al messaggio che hai mandato al tuo flirt o ti struggi perché ha visualizzato e non risponde.
Questa compresenza è, tecnicamente, molto difficile da rendere in un mezzo monodimensionale come il testo: il fastidio che suscitano certe scelte grafiche per rendere tutte queste conversazioni è solo un sintomo del fatto che sono un espediente che tenta di oltrepassare una limitazione, e non ci riesce. Persino un’autrice talentuosissima dal punto di vista tecnico e pienamente millennial come Sally Rooney, in Dove sei, mondo bello?(Einaudi, 2022), risolve l’onnipresente comunicazione digitale in scambi di e-mail torrenziali che risultano implausibilmente passé.
I romanzi che hanno tentato di affrontare questi temi in modo diretto mostrano spesso, significativamente, un qualche tipo di sperimentazione formale. Nessuno ne parla di Patricia Lockwood (Mondadori, 2022) presenta un racconto destrutturato come un elenco di post. Fake accounts, di Lauren Oyler (Bompiani, 2022), imbastisce una falsa trama per quello che in sostanza è un flusso di vagabondaggi privo di un vero e proprio arco narrativo. Personalmente, volendo raccontare qualcosa di simile nel mio ultimo romanzo, ho scelto un tono saggistico (mutuato da Le cose, di Georges Perec) che non presenta dialoghi né introspezione. Si tratta, secondo me, di risposte diverse alla stessa difficoltà. La loro natura sperimentale ne fa però delle risposte singole, non generalizzabili. Non sono modi di raccontare qualunque storia, ma solo quelle storie. E le altre?
Le altre cominciano ad affacciarsi. È da poco uscito per 66thand2nd Estate caldissima, romanzo di Gabriella Dal Lago dalla premessa quantomai classica: un gruppo di persone si rifugia per qualche tempo in una grande casa di campagna, in fuga dalla città. A differenza del Decameron, i protagonisti non sono amici, o non proprio, bensì colleghi di un’agenzia di social che si ritirano per preparare un pitch; ciò da cui scappano non è la peste, ma un’estate annunciata come la più calda di sempre.
Sia il pitch che il clima non entrano che come pretesti nella vicenda, che verte sui rapporti fra i personaggi e sulla loro evoluzione interiore: i due fondatori, con quindici anni di differenza e un figlio dal matrimonio precedente di lui; i due che si sono inseguiti a lungo e mai trovati; quello con un problema di cocaina; quella che non sa che fare con il compagno abusante. La trama non si compone di grande svolte, semmai di piccole epifanie: un po’ come nel film Il grande freddo, la convivenza forzata fa giungere a una maturazione improvvisa processi iniziati da anni, porta le relazioni alla crisi, slatentizza il non detto. Si prende atto della fine di una storia, ci si chiede se cominciarne un’altra, si perde il controllo, lo si ritrova.
Questa compresenza di tempi e luoghi diversi nello stesso attimo è la cifra narrativa principale della voce di Dal Lago, che con una scrittura particolareggiata ed elegante, che alterna onde lunghe e sferzate improvvise, sembra aprire una strada aggiornata per il romanzo psicologico. Quelle che in autori e autrici del canone come Bellow o Morante erano lunghe digressioni su fantasticherie o ricordi, qui diventano rapidi affondi nella vita digitale di ognuno, per tutti inestricabile da quell’altra: letteralmente nessun punto della vicenda personale o professionale dei personaggi è raccontabile senza un riferimento a qualcosa accaduto con una mediazione tecnologica. Questo – al contrario che nei romanzi di Oyler o Lockwood – non ne fa un romanzo sulla tecnologia. Ne fa un romanzo con tecnologia: come il mondo che racconta, in cui la distinzione fra vita psicologica e tecnologica, fra vita fisica e digitale, è labile e porosa, in continua negoziazione. L’una è l’altra perché entrambe siamo noi.
L’orologio al polso, scrive Dal Lago poco prima dell’epilogo, di una donna che fa jogging, le manda le notifiche, sono traguardi raggiunti, è il calcolo delle calorie bruciate, sono i suoi parametri vitali aggiornati in continuazione. La tecnologia la rassicura, le dice il tuo cuore batte ancora, senti, senti che batte ancora, mentre ha percorso l’equivalente dei chilometri necessari a fare il giro del mondo. E invece guardate, è sempre stata qui.
Completate la scaletta che vi proponiamo.