Il valore dell’Olocausto. Imre Kertész (1929-2016) è un sopravvissuto di Auschwitz. Ebreo ungherese nel 1944, all’età di quattordici anni fu deportato ad Auschwitz, poi a Buchenwald e nel campo satellite di Zeitz, in Germania. Sopravvisse alla guerra e tornò in Ungheria. Fu giornalista e traduttore. Fu insignito nel 2002 del Premio Nobel per la letteratura.
Il suo primo romanzo, Sorstalanság (Essere senza destino), richiese dodici anni di lavoro, fu terminato nel 1973, e pubblicato nel 1975. Protagonista è un ragazzo ebreo deportato nel 1944 ad Auschwitz e poi in altri lager. Kertész rifiuta ogni accostamento ideologico al tema, sia esso politico o religioso; l’Olocausto degli ebrei non è più questione di un singolo popolo, ma il trauma dell’intera civiltà occidentale.
Vi proponiamo qui una riflessione di Kertész sulla Shoah come creatrice di valore, perché «a costo di immense sofferenze ci ha portato a una conoscenza immensa e di conseguenza esso serba un immenso valore etico». È tratta da una conferenza svoltasi a Vienna sulla figura di Jean Améry, “L’Olocausto come cultura”, raccolta in italiano nel volume Il secolo infelice, Milano, Bompiani, ed. digitale 2012.
In ItalianaContemporanea questo breve saggio di Imre Kertész è rubricato nella pagina Primo Levi, nella rubrica dedicata ogni anno al Giorno della Memoria. Quest’anno 2023 da segnalare anche il commento a Maus. Maus. Auschwitz, e dopo Auschwitz. Il Graphic novel di Art Spiegelman.
Sin dal primo momento, quando l’Olocausto avveniva ancora giorno dopo giorno negli abissi nascosti dell’anonimato ed era il segreto esclusivo dei partecipanti, delle vittime e dei boia, già allora aleggiava intorno a esso una terribile tensione, la paura dell’oblio. Quest’angoscia andava oltre l’orrore, oltre la vita e la morte dei singoli, oltre l’intenso desiderio di giustizia, oltre il “Delitto e Castigo”, per citare il titolo del libro di Améry. (In tedesco Jenseits von Schuld und Sühne, cioè Al di là della colpa e dell’espiazione, tradotto in italiano come Intellettuale a Auschwitz, Torino, 1998).
Questa tensione sin dall’inizio è impregnata da un sentimento metafisico, tipico della religiosità. E come se l’espressione più confacente fosse davvero quella biblica: “La voce del sangue di tuo fratello grida verso di me dalla terra”.
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Quando Améry analizza la sua estraneità, la perdita della “fiducia nel mondo”, la sua solitudine nella società e il suo esilio esistenziale, a mio parere oltrepassa gli stretti confini del suo libro e semplicemente parla delle condizioni dell’uomo.
Il sopravvissuto è soltanto portatore delle più estreme condizioni dell’uomo dei nostri giorni, che ha vissuto e ha subito il culmine di questa condizione: Auschwitz che si erge sull’orizzonte e alle nostre spalle come la fantasia di una mente ottenebrata. E mentre ci allontaniamo, i suoi contorni non riescono a svanire, anzi paradossalmente si allargano e crescono sempre di più. Oggi sappiamo che la sopravvivenza non è solo un problema dei sopravvissuti: la lunga ombra dell’Olocausto copre tutta la civiltà che esso ha toccato e che dovrà continuare a vivere insieme alla sua gravità e alle sue conseguenze. Potete dire che sto esagerando, dato che difficilmente vi imbattete nelle tracce di queste conseguenze, e il mondo da tanto tempo parla di tutt’altro. Ma questo è solo superficie, solo apparenza. L’importanza delle questioni si decide in base al loro essere vitali. Chiedendoci se l’Olocausto è una questione vitale per la civiltà, per la coscienza europea, vedremo che lo è, perché deve essere la stessa civiltà entro i cui confini avvenne tutto a rispondere, altrimenti essa stessa diventa una civiltà guasta, un protozoo invalido che si spinge impotente verso la distruzione. Nel caso contrario non può fare a meno di prendere una posizione nei confronti dell’Olocausto. Ma cosa voglio dire con ciò? Apparentemente ha già preso una decisione. Sembrerebbe infondata la paura di Améry (…) che alla fine saranno gli assassini ad avere ragione. In Europa l’annientamento, il genocidio di stato tuttora non hanno creato una cultura, ma solo una prassi; ma questa prassi non è legittima e se un giorno diventasse una morale legittima, significherebbe la fine della vita, e questo è chiaro a tutti.
Una quantità di scritti sociologici e storici ha tentato di “trattare” il fenomeno dell’Olocausto. Ne sono scaturite le interpretazioni più svariate, dalla banalizzazione dell’omicidio fino ai lavori di demonologia; una signora filosofa che ho letto sosteneva persino che l’Olocausto non può essere inserito nella storia – come se la storia fosse un cassettone e la misura del singolo cassetto determinasse cosa ci sta dentro e cosa no. Riguardo a una cosa la nostra filosofa ha senz’altro ragione: l’Olocausto – in base alla sua essenza – non è un evento storico, proprio come non lo è il fatto che il Signore sul monte Sinai abbia dato una tavola a Mosè.
Non so se si sta delineando l’argomento trattato. Sin dall’inizio parlo di un’unica questione, di cui non si usa parlare in pubblico, forse perché non è educato porla, sebbene deve essere risolta nello stesso esatto modo misterioso e prolungato in cui vengono risolte le grandi questioni etiche. La questione si formula così: l’Olocausto può creare valori? Perché, secondo me, l’Olocausto è giunto proprio a questa domanda, il processo ormai decennale durante il quale è stato prima soffocato e poi documentato sta lottando proprio con questo interrogativo. Ma ciò non basta come dicevo, occorre prendere una decisione nei suoi confronti e questo significa emettere un giudizio di valore. Conosciamo il detto di Santayana: “Chi non è capace di confrontarsi con il proprio passato, è condannato a riviverlo eternamente”. Una società prospera deve mantenere viva e costantemente rinnovata la cognizione di sé, la propria coscienza. E se la sua decisione è che l’evento gravoso e funereo dell’Olocausto è parte integrante della sua coscienza, allora questa decisione non è stata presa in base a un senso di cordoglio o pentimento, bensì a un vitale giudizio di valore. L’Olocausto è valore, perché a costo di immense sofferenze ci ha portato a una conoscenza immensa e di conseguenza esso serba un immenso valore etico.
È possibile che voi riteniate un’utopia tutto questo, dicendo che nella vita reale non si vede traccia di tutto ciò. Anzi, nella vita reale vedete proprio il contrario: folle indifferenti, ciniche ideologie, oblio, uccisione, caos. Ma gli eventi importanti non sempre si riflettono nella realtà contemporanea. Comunque, io sto parlando di un processo di cui mi sembra di vedere i contorni, ma di cui naturalmente non posso prevedere l’esito. Come vi dicevo all’inizio, stiamo vivendo nel contesto di una cultura, e in questo contesto possiamo figurarci la salma di Jean Améry solamente sul mausoleo continuamente sorgente dell’Olocausto, dove è stata deposta come un fiore imbevuto di sangue.