Immigrati e malessere del ceto medio. Da dove viene il malessere del ceto medio. Questo editoriale è stato pubblicato su La Stampa del 9 marzo 2016. È di Giorgio Arfaras. Dal 2009 scrive, insieme ad altri, il “Rapporto sull’economia globale e l’Italia” per il Centro Einaudi di Torino, del cui Comitato Direttivo è membro. Collabora con Linkiesta e con Limes, del cui Comitato Scientifico è membro. Dal 2009, è direttore della Lettera Economica del Centro Einaudi, e presidente di SCM SIM SpA.
Immigrati e malessere del ceto medio
Diffusa è la convinzione che in Occidente una quota minuscola della popolazione strappi quasi tutta la crescita del reddito, intanto che s’aggira lo spettro della caduta del tenore di vita del suo ceto medio. Altrettanto diffusa è la convinzione che le diseguaglianze a livello internazionale siano cresciute, oppure che, se anche non sono cresciute, siano rimaste ancora molto elevate. Negli Stati Uniti la campagna presidenziale verte sul destino del ceto medio (della «middle class»), mentre in Europa non si riesce a fermare la migrazione dai Paesi poveri.
Per saggiare questa convinzione diffusa si prendano i numeri del periodo che è intercorso fra la caduta del Muro di Berlino e l’apice dell’ottimismo poco prima della crisi in corso. Quindi i numeri dal 1988 al 2008. Osserviamo il tasso di crescita cumulato del reddito dei più poveri, di chi sta in mezzo, e dei più ricchi. I poveri dei Paesi mai emersi – come in Africa – sono rimasti tali, mentre i poveri dei Paesi emergenti – come in Cina – non sono più tali, avendo beneficiato di una crescita spettacolare del proprio reddito. Il ceto medio dei Paesi ricchi – quello dei Paesi occidentali e del Giappone – ha avuto un reddito stagnante, mentre i ricchi dei Paesi sia emersi sia emergenti sono diventati ancora più ricchi.
I primi venti anni della Seconda Globalizzazione – la prima si era avuta dal 1870 al 1914 – non ha favorito gli africani, ha favorito i cinesi, non ha favorito il ceto medio dei Paesi già ricchi, ed ha fatto diventare ancora più ricco chi già aveva un reddito elevato. Perciò la classe media non è stata penalizzata a livello mondiale – quella cinese e di molti Paesi asiatici è molto più ricca, ma lo è stata solo nei Paesi che – agli inizi della seconda globalizzazione – erano già ricchi. Anche se il reddito del ceto medio dei Paesi ricchi non è cresciuto, il suo livello è ancora (e di molto) maggiore di quello dei Paesi poveri.
Si ha quindi un incentivo a migrare dai Paesi poveri a quelli ricchi. Circa l’ottanta per cento della popolazione della Costa d’Avorio vive peggio del cinque per cento degli italiani più poveri. I tedeschi poveri vivono meglio degli italiani poveri, ma i tedeschi e gli italiani hanno circa lo stesso reddito man mano che diventano più ricchi. L’«arbitraggio» in prima battuta fra Costa d’Avorio e Italia, e poi fra Italia e Germania è perciò economicamente razionale per un abitante della Costa d’Avorio. Anche se resterà sempre povero, vivrà meglio in Italia e ancor meglio in Germania che nel proprio Paese. E se fosse molto ricco nel Paese d’origine? Avrebbe comunque un reddito in linea con quello dei numerosi italiani meno ricchi. Con queste differenze di reddito fra Paesi – i poveri italiani vivono molto meglio dei poveri della Costa d’Avorio, e quando anche sono meno poveri hanno lo stesso reddito dei ricchi della Costa d’Avorio – sarà difficile che gli sbarchi si fermino.
Le ondate migratorie si possono fermare con lo sviluppo economico. Questa è una soluzione che – semmai si materializzasse – richiederebbe molto tempo. Non è facile che l’abitante della Costa d’Avorio stia nel suo Paese scommettendo sulla crescita che potrebbe palesarsi in venti anni. Intanto emigra, e poi si vede. Lo sviluppo economico trasforma l’economia, sorgono nuovi settori, si chiedono nuove competenze. Si pensi quanto l’informatica diffusa abbia trasformato le prenotazioni dei viaggi, degli alberghi, gli sportelli bancari, e via dicendo. Prima o poi si avrà l’impatto dell’informatica anche nel settore pubblico. La «grande trasformazione» oggigiorno è la meccanizzazione della manifattura (avviata da tempo) e dei servizi (in corso). La grande trasformazione di ieri nell’agricoltura (l’uso dei fertilizzanti e dei trattori) spinse i contadini ad emigrare nelle città per lavorare nelle fabbriche. Ma gli operai e gli impiegati di oggi dove possono andare?
In conclusione, il malessere diffuso intorno alle condizioni di vita del ceto medio dei Paesi ricchi e intorno alle ondate migratorie ha un fondamento. Ed ecco che emerge la tentazione di trovare la soluzione più semplice, quella di erigere muri e tornare al protezionismo.
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Guida alla lettura
La tesi è contenuta nel paragrafo finale: “il malessere diffuso intorno alle condizioni di vita del ceto medio dei Paesi ricchi e intorno alle ondate migratorie ha un fondamento”.
Le ragioni sono due e sono argomentate con dati certi.
Prima ragione al quinto paragrafo: “lo sviluppo economico trasforma l’economia, sorgono nuovi settori, si chiedono nuove competenze (…) La grande trasformazione di ieri nell’agricoltura (l’uso dei fertilizzanti e dei trattori) spinse i contadini ad emigrare nelle città per lavorare nelle fabbriche. Ma gli operai e gli impiegati di oggi dove possono andare?”
Seconda ragione al terzo e quarto paragrafo: “perciò la classe media non è stata penalizzata a livello mondiale – quella cinese e di molti Paesi asiatici è molto più ricca, ma lo è stata solo nei Paesi che – agli inizi della seconda globalizzazione – erano già ricchi. Anche se il reddito del ceto medio dei Paesi ricchi non è cresciuto, il suo livello è ancora (e di molto) maggiore di quello dei Paesi poveri. Si ha quindi un incentivo a migrare dai Paesi poveri a quelli ricchi. Circa l’ottanta per cento della popolazione della Costa d’Avorio vive peggio del cinque per cento degli italiani più poveri”.
Il primo paragrafo presenta il problema che sarà discusso: “Diffusa è la convinzione che in Occidente una quota minuscola della popolazione strappi quasi tutta la crescita del reddito, intanto che s’aggira lo spettro della caduta del tenore di vita del suo ceto medio. Altrettanto diffusa è la convinzione che le diseguaglianze a livello internazionale siano cresciute, oppure che, se anche non sono cresciute, siano rimaste ancora molto elevate.”
Il secondo paragrafo presenta i dati su cui si costruirà l’argomentazione: “Per saggiare questa convinzione diffusa si prendano i numeri del periodo che è intercorso fra la caduta del Muro di Berlino e l’apice dell’ottimismo poco prima della crisi in corso. Quindi i numeri dal 1988 al 2008. ”