Inferno Donbass

Inferno Donbass, così l’artiglieria apre la strada per la battaglia urbana. La guerra avanza seguendo un copione preciso. Siversk è diventata la nuova linea del fronte. È da qui che i russi tenteranno l’avanzata. Reportage di Francesca Mannocchi, pubblicato su LaStampa del 10 luglio 2022. La carta geografica è di Laura Canali su Limesonline.

Su ItalianaContemporanea questo testo è rubricato nella pagina “Ucraina” e consta di 1.313 parole, richiede 6 minuti circa di lettura.


Il tempo di un frastuono e due donne di fronte a una stazione di servizio alzano le mani al capo, poi gli occhi al cielo e cercano un posto dove fuggire a ripararsi. Pochi secondi dopo il secondo colpo. Un anziano abbandona la bicicletta lungo la strada e cerca riparo tra i cespugli. Le poche auto civili accelerano in direzione di Kramatorsk. Un gruppo di soldati esce da un’officina, una colonna di fumo si alza al di lа della ferrovia. I russi hanno colpito la base, dice un soldato. Ha il volto affaticato, le mani sporche di grasso, avrà poco più di vent’anni.

Cerchiamo riparo anche noi tra la curva della strada e il principio del bosco. L’aria rimbomba ancora. Stavolta il fumo arriva da un gruppo di case lungo la via interna, il missile ha colpito due delle abitazioni di legno di Kostiantynivka, le fiamme sono più veloci dei mezzi dei vigili del fuoco che arrivano e combattono con la pressione dell’acqua, troppo debole per spegnere in fretta l’incendio.

Olga guarda casa sua dal cancello. Ha le braccia conserte sul petto e dondola, sul volto l’espressione incredula di chi è vivo per caso. Vivere o morire qui è un capriccio della fatalità.

Alla fine della via due ambulanze portano via i feriti, un soldato corre a dare una mano gridando che a colpire, una volta ancora, sono state bombe a grappolo.

Una donna seduta nella prima ambulanza ha le gambe coperte di sangue, un asciugamano in testa a tamponare la ferita prodotta dalle schegge.

Trema e non alza mai lo sguardo da terra, né lo volta indietro, verso casa sua da cui escono le barelle degli altri feriti, sua madre e suo fratello.

Erano seduti in casa tutti e tre, racconta suo figlio Ihor Koshovi, di 17 anni, mentre un operaio finiva di fissare le finestre, sostituite dopo che l’onda d’urto di un altro missile le aveva disintegrate tutte solo la settimana scorsa. La guerra agisce anche cosм, facendosi beffa dei vivi.

Anche l’operaio è lì a osservare le donne che gridano ai bordi della strada, le madri coi volti dei bambini stretti al petto per impedire di vedere quello che non possono impedire di sentire.

È Ihor l’unico a non perdere la calma. Entra in casa, cammina evitando il sangue fresco di sua madre sul pavimento, prende la borsa, i documenti sanitari, i passaporti, e dice: «Stavolta è davvero tempo di andare via».

Tutto accade in un’ora lungo la via che da Kramatorsk conduce a Siversk, e passa da qui, da Kostiantynivka, una cittadina industriale nell’oblast di Donetsk. In epoca sovietica era un centro importante per la produzione di ferro, zinco, acciaio e vetro. Oggi è il fantasma di quella che era, uno dei primi centri a essere colpito all’inizio dell’invasione e poi di nuovo pesantemente quando l’offensiva russa, ad aprile, si è concentrata in Donbass. Distrutte infrastrutture, depositi di carburante, centrali elettriche.

Con i russi che hanno preso il controllo quasi totale del Lugansk, nonostante la presunta pausa operativa annunciata dallo stato maggiore della difesa russa, la guerra avanza seguendo un copione noto: l’artiglieria apre la strada preparando il terreno per la battaglia urbana, e mettendo in fuga la gente. Così, quasi tutte le 70 mila persone che abitavano la città sono andate via seguendo le indicazioni delle autorità che sapevano che piщ passavano i giorni, più sarebbe stato difficile portare in salvo la gente.

Avevamo percorso la stessa rotta in senso inverso poche ore prima con un convoglio umanitario per portare via minori e feriti da Siversk, un villaggio diventato la nuova linea del fronte della guerra. È lì che le truppe russe si stanno concentrando per tentare poi di avanzare verso gli obiettivi principali di Sloviansk e Kramatorsk, ed è lì che nelle ultime ore sono morte cinque persone.

Zelensky ha promesso che l’Ucraina riconquisterà tutti i territori perduti nel Donbas e, pur avendo ammesso perdite massicce, l’obiettivo dichiarato, oggi, è tagliare le linee di rifornimento russe con le nuove armi a lungo raggio fornite dagli Stati Uniti e dagli alleati. Chilometri di strade polverose sono attraversati da veicoli militari, humvee statunitensi, obici, carri armati e ambulanze militari.

I soli mezzi civili sono i rari convogli umanitari che consegnano cibo e portano via i deboli, gli anziani e i feriti.

Inna è una di loro. Poche ore prima del nostro arrivo due razzi hanno colpito la casa dove vive con suo marito Sasha e quella adiacente. La sua vicina ha perso due dita del piede, lo ha fasciato con le garze e cammina per convincere gli anziani ad andare via. Lei resta, dice, perché suo figlio è a combattere e domani è il suo compleanno, le ha detto che sarebbe tornato per qualche ora per abbracciarla e festeggiare con lei, e lei non può venire via, deve aspettarlo. A Siversk non c’è più modo di telefonare, parlarsi иèimpossibile e se suo figlio arrivasse senza trovarla la penserebbe morta.

Inna invece va via, le schegge le hanno ferito le gambe, è stesa su un materasso, geme, insulta il sindaco che non li ha salvati e il presidente a cui aveva creduto: «Ci avevano promesso che saremmo stati meglio, siamo tutti morti come questa città».

Suo marito segna un numero di telefono che Inna dovrà chiamare una volta a Dnipro, la città a 300 chilometri dove sarà trasportata. Lui non viene via, tanto – dice – a noi del Donbass, in Ucraina ci disprezzano tutti. Non viene via neppure Olena che ha preparato un bagaglio per i due nipoti, fa loro un segno della croce sulla fronte e si lascia il portone alle spalle, mentre i ragazzini salgono sul pullman con la Croce Rossa. Sul cancello di casa ha scritto in russo, la lingua degli invasori e degli invasi: «qui vivono civili, qui vivono bambini».

Il veicolo umanitario si muove verso l’ultimo indirizzo, intorno il suono prolungato dei razzi grad.

I volontari suonano ripetutamente prima che una giovane donna, Ksenia, si affacci dal cancello. Era nello scantinato, con sua figlia. Ma di andare via non vuole sentirne parlare, nonostante la paura, i grad intorno, e la casa di fronte ridotta in macerie. Vuole andare a Belgorod, in Russia. Quindi resta, e aspetta.

I volontari non chiedono altro. Non un dettaglio in più, non una spiegazione. C’è, talvolta, tra chi tende la mano e chi la rifiuta, la tragedia di una lingua condivisa ma non più comune. Parole svuotate del loro significato antico: casa, terra d’origine, confine, e sicurezza.

Torniamo soli, a bussare ancora alla porta di Ksenia, per fare le domande rimaste appese.

Ha 24 anni tutti passati a Siviersk, una vita umile, la madre partita anni fa per San Pietroburgo e poi trasferita a Belgorod in cerca di lavoro. Ksenia dice che l’Ucraina, per lei, non ha fatto niente, che nel 2014 la guerra ha distrutto casa sua e che prega ogni mattina e ogni sera, come le diceva sua madre, affinché la loro terra torni a chi la merita: i russi.

Non può credere che siano loro a distruggere case e ponti, pozzi e strade. Sono gli ucraini, ne è certa. Perché finché c’era elettricità lo diceva la televisione, cioè i canali russi che propagandavano la loro verità anche qui.

Scende nello scantinato, c’è sua figlia Nastia, 2 anni, in un fagotto steso nella stanza di due metri per tre. Lo spazio di un materasso e qualche coperta, due bottiglie d’acqua e una radio.

Ksenia dice che “liberazione” è la parola giusta, e che non vede l’ora di vedere arrivare i carri armati di Putin a riportarle indietro la vita che aveva prima.

I colpi intorno non si placano ma Nastia non si sveglia. Anticipando l’unica domanda taciuta, Ksenia dice: lo so che è pericoloso, ma non posso lasciare questo posto per andare in Ucraina.

Andare, dice, come fosse un altro stato. La sola alternativa per lei è la Russia.che non si limita a fornire

Guida alla lettura

Un reportage è un ampio servizio di cronaca che non si limita a presentare dei fatti, cerca piuttosto di ricostruire un contesto. Individuate questi motivi liberi, non legati cioè dalla dimensione temporale, e che tuttavia presentano le persone, le loro motivazioni, i luoghi. Interessante anche l’ordine degli eventi che non è in questo testo quello cronologico. C’è un continuo andirivieni nei tempi dal presente al futuro al passato. Individuateli nel testo.


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