L’attentato a Kabul e perché il principale indiziato è l’Isis-K. Edizione straordinaria de Il mondo oggi, rubrica di Limesonline. Ultimo aggiornamento: 26 agosto 2021 a cura di Federico Petroni con la collaborazione di Lorenzo Noto e Daniele Santoro. Su ItalianaContemporanea il testo è rubricato sotto la pagina Afghanistan. Vent’anni dopo
Si sono verificate due esplosioni presso l’aeroporto di Kabul, una all’ingresso orientale (Abbey Gate) e un’altra nelle vicinanze dell’Hotel Baron.
Si tratta di attentati suicidi, secondo fonti statunitensi e talibane. È rimasto ucciso un numero imprecisato di afghani (almeno 60) e di stranieri: sono morti almeno 16 militari statunitensi.
Gli attentati hanno colpito la calca di cittadini afghani che cercavano di lasciare il paese. Le agenzie d’intelligence occidentali, a partire da quella statunitense, e il governo dei taliban avevano avvertito dell’altissima probabilità che la folla diventasse un bersaglio di un gesto terrorista.
La principale indiziata è la branca locale dello Stato Islamico, nota come Stato Islamico nella Provincia del Khorasan, in sigla Isis-K. Non c’è ancora una rivendicazione ufficiale, ma fonti ufficiali statunitensi le attribuiscono la responsabilità.
Isis-K aveva tutte le ragioni per desiderare un gesto così clamoroso. I jihadisti vogliono umiliare gli Stati Uniti per acquisire notorietà e rilanciare il marchio dello Stato Islamico, gravemente compromesso dopo i fasti del 2014-19 (attentati in Europa, parastato fra Siria e Iraq) e dopo essere stato costretto alla macchia in Mesopotamia. Intendono inoltre delegittimare il regime dei taliban, che ne esce come incapace di controllare la situazione.
I jihadisti considerano come nemici non solo gli occidentali ma pure i regimi che governano i paesi musulmani. Non per ragioni ideologiche o confessionali, almeno non solo. Ma perché il potere lo vogliono loro, perché approfittano del caos per crescere e perché colpendo i governi più o meno apostati guadagnano fama e finanziamenti.
Da decenni a questa parte, la strategia dei jihadisti è sempre stata colpire gli occidentali e in particolare gli Stati Uniti per indurli a sovrareagire. Così fu per l’11 settembre: Osama bin Laden calcolò che gli americani avrebbero risposto invadendo i paesi da cui emanava la minaccia terrorista. Scommessa riuscita: Bush junior dichiarò guerra globale al terrorismo, suicidio che dissanguava la potenza statunitense disperdendola ovunque in conflitti infinibili e astrategici. Ma riuscita solo in parte: gli Usa invasero Afghanistan e Iraq, non esattamente i paesi riconducibili all’11 settembre, come invece erano molto più il Pakistan e l’Arabia Saudita. Quest’ultima vero obiettivo di bin Laden, saudita di nascita e determinato a togliere i Luoghi Santi di Mecca e Medina a casa Sa’ud, che detestava anche perché lo aveva allontanato a inizio anni Novanta.
Questo salto indietro per spiegare il presente. Isis-K sogna che gli americani restino in Afghanistan per vendicare l’attentato subito. O quantomeno rallentare il ritiro loro e degli altri paesi occidentali per infrangere la scadenza del 31 agosto, così creando una crisi fra stranieri e taliban. In questo modo avrebbe più bersagli per irrobustire il suo marchio, far affluire denaro e rifornimenti dai paesi arabi del Golfo, reclutare fra gli emarginati non solo musulmani in Medio Oriente, Nordafrica ed Europa (dei combattenti stranieri noti come foreign fighters pure l’Italia sa più di qualcosa). Così facendo, aumenterebbe le sue quotazioni presso i servizi segreti del Pakistan, che da sempre coltivano rapporti con le milizie in Afghanistan (pure i taliban, di cui sono inventori) per guadagnare influenza oltre confine.
Inoltre, interrompendo il ritiro degli Stati Uniti, strangolerebbe sul nascere il governo talibano. Del quale sicuramente disprezza la propaganda di queste ore. Poco prima dell’attentato, i portavoce degli studenti pashtun parlavano di regole più permissive per le donne (meno restrizioni sul vestiario, permesso di uscire non accompagnate da uomini, permesso di frequentare l’università) e trattavano con figure non estremiste come l’ex presidente Hamid Karzai e l’ex vicepresidente Abdullah Abdullah per includere altri elementi al potere.
Soprattutto, disprezza le promesse dei taliban di non allacciare rapporti con gruppi jihadisti. Gli studenti pashtun si sono impegnati in tal senso con tutte le potenze che contano, di sicuro con Stati Uniti, Cina e Russia. È la chiave della loro legittimazione, perché l’ultima volta che furono al potere vennero spazzati via dagli americani per aver concesso ad al-Qa’ida di preparare l’11 settembre fra le gole dell’Hindu Kush. È così che hanno convinto gli esausti statunitensi a staccare la spina. È così che corteggiano i cinesi, promettendo che l’instabilità non tracimerà nel Xinjiang. È così che provano a tranquillizzare i russi, spiegando di non aver intenzione di contagiare l’Asia Centrale.
L’attentato ricorda quanto sia incontrollabile l’Afghanistan. A maggior ragione oggi che la popolazione è raddoppiata in soli vent’anni. È anche una finestra sul possibile futuro (in realtà un eterno ritorno) di questo territorio in cui il caos prima o poi presenta il conto. A chi s’illude di avere il potere. E alle potenze limitrofe.
Tuttavia, la domanda che guiderà le prossime ore è come reagiranno gli americani. Dodici soldati uccisi sono un duro colpo, anche se la popolazione è stufa di guerre al terrorismo in Medio Oriente. Difficilmente cadranno nella trappola e invertiranno la rotta del ritiro, ma esigeranno di vendicare i morti. Possono farlo da remoto, continueranno a occuparsi dell’Afghanistan, distogliendo comunque risorse che immaginavano di spendere altrove. La presidenza Biden e gli apparati (in particolare l’intelligence) erano già sotto attacco in patria. Quest’onta avrà sicuramente conseguenze interne.