Vasilij Grossman tornò a Mosca dalla guerra. Era l’estate 1945. Ancora frastornato dalle esperienze terribili e dense che aveva vissuto durante quegli ultimi quattro anni come corrispondente del giornale dell’Armata Rossa, aveva già deciso di raccontarle in un grande romanzo.
Presentazione del saggio di Ferdinanda Cremascoli, Stalingrado, il polittico di Vasilij Grossman, Biblioteca di ItalianaContemporanea, edizione digitale, maggio 2020 – Per tornare all’indice delle pagine
Dal Quarantacinque all’inizio degli anni Sessanta di romanzi su quell’esperienza ne scrisse due. Il primo, cioè la prima parte del racconto che cronologicamente si incentra sugli eventi del luglio-settembre 1942, con qualche retrospezione ai mesi e all’anno precedente, superò le molte difficoltà create dalla censura sovietica, e fu pubblicato in URSS nella prima metà degli anni Cinquanta col titolo Per una giusta causa (Za pravoe delo).
Il secondo romanzo, Vita e destino (Zhizn i sudba), incentrato sugl ieventi del settembre 1942-febbraio 1943 con un epilogo alla primavera dello stesso anno, fu sequestrato dal KGB nel 1961 e fu pubblicato, in patria soltanto alla fine degli anni Ottanta, in Europa occidentale nei primi anni Ottanta dopo una clandestina operazione di espatrio.
Nei due romanzi è narrata una storia di guerra, di guerra popolare, di resistenza popolare, tesa nella speranza di conquistare “dopo” condizioni di vita meno povere e finalmente libere. Ma …
… Ma è anche narrata la storia di come questa speranza andò in fumo, e nello stesso tempo si costruì una bugia, quella della “Grande Guerra Patriottica”: la memoria di Stato, oggi noi diremmo la “narrazione” di Stato, annientò o mutilò le memorie altre, che pure esistono.
Per questo il “polittico di Vasilij Grossman” restituisce loro la voce.
Polittico, perché?
Perché definire “polittico” la dilogia di Grossman? È forse la metafora migliore per descrivere la densa complessità di questo racconto. In un polittico ogni pannello va letto idealmente in modo simultaneo con tutti gli altri. Nella dilogia di Vasilij Grossman, come in un polittico, i legami tra una storia e l’altra obbediscono a leggi che il testo stesso crea, ed una lettura ipertestuale, come quella che un polittico richiede, permette di coglierle.
Il polittico grossmaniano racconta nel suo ideale pannello centrale la tragedia dei contadini, del popolo, e si articola in un pannello superiore sulla barbarie della Shoah, e in un pannello inferiore, un’ideale predella, che raffigura l’incendio di Stalingrado. Mai, nemmeno l’incendio di Troia nel secondo libro dell’Eneide, mai incendio è stato narrato con tanta potenza di immagini, con tanta vivezza di sensazioni sconosciute.
A destra della figura centrale di questo polittico ideale è rappresentata la difficile ed aspra vita quotidiana di tutto il popolo sovietico: ecco figure esemplari di operai, minatori, scienziati, madri di famiglia, giovani, vecchi, orfani …tutti, uomini e donne di ogni età, di ogni classe sociale, di ogni mestiere, alla maniera di Čechov, a rappresentare la Russia intera, nella sua varietà e molteplicità umana, da criticare, compatire, rispettare, amare e soprattutto conoscere in tutte le sue forme, incluse le vicissitudini degli animali, dai topi alle lepri, dai piccioni alle cicogne, sconvolti dalla guerra in paesaggi devastati e maestosi, eterni e disfatti. A sinistra della figura centrale prende vita il racconto del popolo al fronte: la sua resistenza accanita negli episodi di guerriglia urbana; le figure dei generali dell’Armata Rossa e degli uomini di partito; le figure dei due dittatori, Hitler e Stalin; le figure dei tedeschi, in patria e al fronte e nei campiti sterminio, alla ricerca della soluzione di un enigma sconvolgente, quello del loro consenso al regime e della loro collaborazione scellerata alla Shoah.
Un polittico va letto tutto insieme, ma alla dilogia di Grossman è toccato uno strano destino. Il primo romanzo è stato a lungo ignorato in Europa occidentale.
Solo nel 2000, vent’anni dopo la traduzione di Vie et destin, il primo romanzo è stato pubblicato in francese nella traduzione di Luba Jurgenson con il titolo Pour une giuste cause. E solo dal 2019 Il lettore inglese ha a disposizione la traduzione del primo romanzo, curata da Elisabeth e Robert Chandler, tredici anni dopo la traduzione di Life and Fate del 2006. Il titolo scelto è Stalingrad, cioè il titolo originale che l’autore avrebbe voluto e che modificò a causa delle pressioni censorie cui fu sottoposto. Ad oggi (2020) manca una traduzione italiana.
Le due traduzioni inglese e francese del primo romanzo a così grande distanza temporale dalla traduzione del secondo segnalano tuttavia un interesse rinnovato per questo grandissimo scrittore russo. La decantazione prodotta dallo scorrere del tempo permette ora una lettura meno condizionata dalla volontà di denunciare lo stalinismo e l’intero sistema sovietico. La profondità della critica al mondo sovietico, il parallelo tra i due totalitarismi, nazista e staliniano, acquistano nella lettura completa dell’opera una nuova prospettiva più profonda ed articolata.
Contro la narrazione di Stato
L’esigenza insopprimibile del racconto grossmaniano è quella di contrastare la narrazione del potere, che dell’amor di patria e della guerra vittoriosa fa un monumento retorico al nazionalismo. La dilogia al contrario dà voce ad un amor di patria che non è nazionalismo, che si declina in modi diversi, plurali, e tutti legittimi, e implacabilmente espunti dalla versione ufficiale o rielaborati monchi. L’amor patrio del menscevico Černecov non è meno degno di quello del colonnello Novikov, che se lo costruisce nei duri mesi della guerra. Per una patria libera combatte il capocasa Grekov non meno eroicamente del comandante Filiaškin e degli uomini che periscono con lui alla stazione. E il bolscevico Mostovskoj non è meno critico del vecchio principe Šarogorodskij sul ripescaggio di tutte le figure di condottieri russi, di generali gloriosi del passato e sulla politica di riapertura delle chiese, che sono piene, come fa notare non senza una nota di umorismo Agrippina Petrovna, la padrona di casa di Mostovskoj (PGC, I, 13).
Leggere solo il secondo romanzo, che in origine è stato pensato come un unico testo con il primo, non consente di cogliere compiutamente il senso della vicenda di Stalingrado, che è sì storia di una guerra, di una guerra vera storicamente combattuta, ma anche racconto di come si costruì pezzo per pezzo una menzogna, quella della “Grande Guerra Patriottica”, che cancella la verità popolare di quella guerra. È racconto di una manipolazione delle coscienze che nasconde con la retorica della vittoria sui fascisti un nuovo capitolo di servitù.
Un intreccio abilissimo
Nei due romanzi è narrata quest’unica storia, declinata nelle molteplici vicende dei personaggi. Decine e decine di personaggi nelle situazioni più diverse: la tragedia indicibile e l’incongrua storia d’amore; lo spavento della guerra e la miseria della delazione. Azioni di guerra, e faccende domestiche; passeggiate nei parchi cittadini, e missioni nella steppa; roghi di città, e ghiacci artici. Uomini e animali sconvolti dalle bombe, e lo scorrere quotidiano della vita. Paesaggi devastati dall’agire umano, e paesaggi estranei al tempo umano.
La tavola apparecchiata
Un’abilissima circolarità caratterizza la costruzione del racconto, attraverso alcune nitide immagini, come quella della tavola apparecchiata in casa Šapošnikov. All’inizio in Per una giusta causa e alla fine in Vita e destino, attorno alla tavola apparecchiata siede la famiglia di Aleksandra Vladimirovna o quel che ne resta. Nel luglio-agosto 1942 il fronte è ormai prossimo, ma in casa di Aleksandra Vladimirovna, in via Gogol a Stalingrado, c’è una festa (PGC, I, 6-14). Benché tutti siano preoccupati, la compagnia è ancora allegra e festosa. Il secondo e davvero ultimo pranzo a Stalingrado non è più nella casa di via Gogol, distrutta dalle bombe e dall’incendio, ma in un locale riattato ad abitazione nella centrale elettrica. È l’aprile 1943, meno di un anno dopo. La tavola non è più festosa. La malinconia e il dolore sono adesso i compagni di questi sopravvissuti, che si apprestano a lasciare per sempre Stalingrado. «È duro lasciare una casa dove si è sofferto molto» (VD, III, 62), dice memorabilmente Aleksandra, e chiude così il racconto circolarmente, dove l’inizio si congiunge con la fine attraverso un’immagine, quella della tavola apparecchiata, attorno a cui siede una famiglia.
La lettera
Ma che tra le due parti della dilogia vi sia una connessione narrativa, sistematica ed organica, diventa, mirabilmente manifesto nel viaggio avventuroso di una lettera. È la lettera formidabile di Anna Semënovna, la madre del professor Štrum. Il racconto delle traversie di questa busta, che braccata dalla guerra supera ogni ostacolo, è messaggio di per sé, dal valore cruciale. Dietro di sé quella lettera lascia una scia di sangue che attraversa tutta la dilogia.
È il sangue rosso che scivola sui corpi bianchi degli assassinati ai bordi delle fosse.
Le fosse
È così crudele l’idea che si possano assassinare tutti insieme tanti esseri umani da essere incredibile. Eppure questo sanguinoso racconto torna in tre distinti episodi, significativi perché creano stretti rapporti di senso nella dilogia grossmaniana, uno in Per una giusta causa, gli altri due in Vita e destino. Krymov, dopo il suo arresto, narrato in Vita e destino, è testimone di un fatto terrificante. Un prigioniero, fucilato poche ore prima, ma solo ferito, evidentemente, e sepolto sotto uno strato di terra non molto spesso, è uscito dalla tomba ed è tornato alla prigione. Molti anni prima, in una discussione con Štrum raccontata in Per una giusta causa, Krymov ricordava che ad Abarčuk era toccata una sorte simile: «Negli Urali gli uomini di Kolčak l’avevano fucilato e lui è uscito dalla fossa insanguinato (…)» (PGC, I, 28). Abarčuk, da quell’uomo di fede ardente che era, non tornò dai suoi assassini, ma raggiunse il comitato rivoluzionario e riprese la lotta.
È un episodio centrale per comprendere il mondo emotivo di Krymov in due momenti diversi della sua vita. Lo stesso terrificante episodio, per il Krymov rivoluzionario è un mito, il mito del combattente valoroso, che risuscita dalla tomba, insanguinato, e continua a lottare con i suoi compagni; per il Krymov ormai arrestato, un episodio analogo è finalmente visto per quello che è: una scena mostruosa, dove un uomo, traumatizzato e istupidito, insanguinato e sporco, è agli occhi di altri uomini soltanto una cosa.
Il motivo della fuga dalla fossa comune che gorgoglia sangue compare una terza volta nell’opera, in Vita e destino nel contesto del racconto dello sterminio degli ebrei. Nataša è nel ghetto, presto è avviata con gli altri alla fossa comune e lì colpita. Ma dalla fossa esce, «dopo aver strizzato la camicia madida» (VD, I, 46). E torna in città. È ormai notte. Un’orchestra suona un valzer nella piazza del ghetto dove poche ore prima si è svolta la caccia infernale e dove ora si fa festa.
È un capitolo breve, ma intenso per l’orrore della tomba comune che gorgoglia di sangue sui corpi bianchi delle vittime, per l’orrore della fossa che si muove, perché non contiene solo cadaveri: molti bambini, vecchi e disabili vi sono gettati vivi, e la morte per soffocamento può avvenire a distanza di molte ore, di giorni. Proprio questa è la condizione di Nataša che è disabile, ha un ritardo mentale, ed è figlia di un medico eliminato nel Trentasette.
Questa notizia è nel testo uno degli anelli di congiunzione tra le stragi sovietiche e quelle naziste, a sottolineare che, al di là dei motivi, di stragi si tratta, e che le modalità operative degli uni e degli altri si somigliano: sono quelle dello stato totalitario.
I totalitarismi
È il professor Štrum a formulare con nitidezza questa osservazione: il nazismo respinge il concetto di individuo e basa la sua azione sull’idea di probabilità: in quale insieme di individui è più probabile trovare degli oppositori?
Emerge qui uno dei temi centrali della dilogia grossmaniana: il parallelo tra lo stato nazista e quello staliniano, o per meglio dire, tra le modalità operative di questi due regimi politici. Per la libertà di pensiero che questa riflessione dimostra, i lettori occidentali hanno ammirato, e tradotto, soprattutto il secondo romanzo della dilogia, Vita e destino, dove il tema emerge con grande forza nei pensieri del professor Štrum e nel celebre dialogo tra Liss e Mostovskoj.
Tuttavia proprio la lettura dell’intero racconto non solo chiarisce che questo stesso tema è presente anche nella prima parte, in Per una giusta causa, ma offre al lettore una prospettiva più ricca e profonda: non è solo la similitudine tra i due regimi ad emergere è anche, e forse soprattutto, l’esistenza di memorie diverse, talvolta divergenti, della storia sovietica della prima metà del XX secolo. Le memorie di tutti coloro che vissero la rivoluzione, la guerra civile, la collettivizzazione, l’industrializzazione e infine l’invasione tedesca sono molteplici, e sono altro rispetto alla leggenda nazionalista costruita dallo Stato sulla superiorità russo-sovietica in guerra e, per estensione, in ogni altro possibile ambito, naturalmente sotto la guida infallibile del partito e del suo leader.
Memorie plurali vs memoria di Stato
È nel testo grossmaniano che trovano voce le memorie mutilate dalla memoria di Stato. Come in Vita e destino la critica al regime sovietico torna nelle parole di molti personaggi, così in Per una giusta causa ci sono i ricordi di Novikov, di Krymov, di Darenskij e di Berëzkin sull’inizio della guerra nell’estate 1941 e sugli errori militari commessi in quei mesi da Stalin e dai suoi generali; ci sono le considerazioni del generale Ageev sull’ordine “Nessun passo indietro”, del luglio ‘42 (PGC, III, 19). E tra i civili, Vavilov stesso e i cosacchi del Don, ci sono le discussioni sui kolchoz; e nella storia di Dmitrj c’è lo spavento, e lo scandalo, del gulag. Sono proprio queste riflessioni che danno origine alla critica del sistema sociale e politico dell’era staliniana in entrambi i romanzi.
È sul terreno della memoria, anzi delle memorie, che si svolge il duello, impari, tra questo testo e lo Stato, fin dalla tormentata vicenda di censura che accompagna già nella prima metà degli anni Cinquanta il primo romanzo e che conduce al sequestro del secondo all’inizio dei Sessanta.