La dottoressa di Herat

La dottoressa con il cuore a Herat. La donna: «Mi occupavo di tumori  al seno, il nostro lavoro era cruciale. Mia madre e i miei fratelli sono ancora lì, mi raccontano cose orribili».Testimonianza raccolta da Chiara Baldi per La Stampa del 25 agosto 2021. In ItalianaContemporanea il testo è rubricato nella pagina Afghanistan. Vent’anni dopo“.


MILANO. Ora il Centro per la diagnosi del tumore al seno di Herat, aperto nel 2013 dalla Fondazione Veronesi, è chiuso. Da giorni non è rimasto più nessuno del personale sanitario: le circa mille donne afghane che ogni anno vi accedevano gratuitamente, non hanno più dottoresse a cui rivolgersi. Le otto che vi lavoravano dalla notte di giovedì scorso sono state portate in Italia con un aereo militare insieme ai loro familiari: 34 persone in tutto, perlopiù rifugiati politici che, per questo, non possono parlare con nome e cognome. Tra loro c’è anche F. R., 40 anni, dottoressa: a Milano è arrivata con il marito, i quattro figli e suo fratello. “Fino a un mese fa ero la responsabile del centro, mi occupavo delle mammografie e dei tumori al seno. Ora non c’è più nessuno che lo faccia. È uno strazio”, racconta la dottoressa, che già dal 2012 collabora con la Fondazione Veronesi. La sua è stata una lunga gavetta: «Mi sono formata a Milano, poi in India. Il nostro lavoro a Herat era fondamentale».

La fuga di F.R. e della sua famiglia da Herat è iniziata il giorno che i talebani sono entrati in città e hanno preso il controllo. «In quel momento abbiamo capito che dovevamo scappare, perché la situazione stava diventando complicata. I talebani non ci avrebbero risparmiato, ci avrebbero odiati. Così siamo andati a Kabul. Lì, grazie alla Fondazione Veronesi, siamo stati messi su un aereo militare e siamo arrivati in Italia». Ma in aeroporto la dottoressa ha trovato una situazione drammatica, come hanno mostrato le immagini di questi giorni. «C’era una folla enorme, gente che urlava, che si spintonava. Avevamo tutti una grande paura di non riuscire a scappare. E in più – racconta F.R. – da fuori l’aeroporto arrivavano degli spari: ci sparavano addosso. I talebani hanno un checkpoint poco distante da lì e quando è arrivato il momento di passare il checkpoint per raggiungere l’aeroporto, non volevano farci passare. Sono stati attimi di terrore vero». Ma nella sua città di origine è rimasta una buona parte della sua famiglia, per questo la dottoressa è in pena.

«A Herat ci sono ancora mia madre, tre dei miei fratelli e due mie sorelle. Mi raccontano cose terribili, i talebani stanno facendo a brandelli quel poco che avevamo. Sono molto preoccupata e vorrei tanto che riuscissero a venire in Italia ma non è semplice». A preoccupare F.R. è soprattutto la situazione di una delle sorelle: «Lei lavorava per una organizzazione umanitaria internazionale e purtroppo ora da diverse settimane non può più farlo. È costretto a stare in casa e basta». Eppure, ricorda, l’Afghanistan fino a un mese fa non era così. «Sì, certo, non era il Paradiso, qualche problema c’era. Scoppiavano bombe senza motivo, c’erano molti rapimenti, tanti crimini, questo sì. Ma era un paese in cui si poteva avere una vita normale. Soprattutto noi donne potevamo lavorare, eravamo tutte istruite, le nostre figlie potevano andare a scuola… ora è tutto andato»”. E non c’è alcuna fiducia verso quello che i talebani stanno dicendo, ovvero che useranno tolleranza verso le donne: «Non ci fidiamo di loro, sono gli stessi di vent’anni fa, non sono cambiati».Nella testa di F.R. c’è però la voglia di ripartire, di ricominciare quanto prima con il suo lavoro: «Spero che la Fondazione Veronesi e gli italiani ci possano aiutare, vogliamo tornare alla nostra vita». Una vita che però, almeno per ora, è lontana dall’Afghanistan: «Non ci sono le condizioni per tornare. Anche se mi manca il mio paese. Noi afghani siamo molto delusi dalla comunità internazionale: dopo vent’anni, sono bastati pochi giorni ai talebani per riprendere il potere». 


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