La guerra turca dove nemici e alleati si confondono. I perché della guerra che insanguina la Siria e l’Iraq e la Turchia. L’Is usa un ragazzo kamikaze: oltre 50 morti a Gaziantep. I tanti fronti aperti di Erdogan. Inchiesta di Bernardo Valli, pubblicata su Repubblica del 22 agosto 2016.
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ISTANBUL. La città della strage si trova nel Sud-Est, vicino alla frontiera siriana. Da quando è cominciata la guerra vi arrivano migliaia di profughi. Non è escluso che il ragazzo “di 12 o 14 anni” fosse uno di loro. Recep Tayyip Erdogan ha indicato l’adolescente come l’autore dell’attentato di sabato sera. Forse si è fatto esplodere da solo, come un kamikaze adulto, forse qualcuno ha azionato un dispositivo a distanza. Gaziantep, dove è avvenuta la strage (51 morti e 69 feriti), è una città abitata da una numerosa comunità curda. Lo è in particolare il distretto di Sahinbey, dove il matrimonio tra Besna e Nurettin Akdogan era ormai stato celebrato all’aperto e gli invitati si stavano disperdendo quando c’è stata l’esplosione.
La cerimonia si era svolta secondo la tradizione curda. E benché non sia stato possibile identificare il giovane terrorista, volontario o usato come strumento, perché dilaniato dall’esplosione, le autorità turche, e lo stesso presidente Erdogan, non hanno esitato a indicare lo “stato islamico” come il responsabile, o comunque come il principale sospetto, del più grave attentato avvenuto in Turchia negli ultimi tempi.
Le milizie curde combattono in Siria e in Iraq. Sono la fanteria della coalizione contro lo “stato islamico” guidata dagli americani. Si battono nelle vicinanze di Mosul, la seconda città irachena di cui stanno preparando l’assedio per liberarla dall’occupazione; e in Siria sono impegnati nella battaglia di Aleppo e si avvicinano a Raqqa, la capitale dello “stato islamico”. Sono insomma i protagonisti a terra della grande offensiva in corso nella Valle del Tigri e dell’Eufrate e che mette in gravi difficoltà il “califfato” terrorista. Il quale si vendica lontano dal teatro di guerra organizzando attentati,
destinati a coprire le sconfitte. La strage al matrimonio di sabato sera, nella città turca di Gaziantep, nel Sud-Est del paese, potrebbe avere quell’obiettivo. L’avere scelto quella regione, dove il conflitto tra curdi ed esercito turco continua, può confondere le idee. Può facilmente indurre in errore nell’indicare i responsabili. I dubbi sono costanti.
Quello mediorientale non risponde alla logica dei conflitti tradizionali. Alleati e nemici si confondono. Gli alleati possono non avere gli stessi nemici. Oppure le intese si rovesciano. I ruoli cambiano secondo il terreno o il momento. Così i curdi, fanteria degli americani alleati sul campo dei turchi, sono gli avversari di quest’ultimi.
E in questi giorni si starebbero confondendo ancor più gli schieramenti. La Turchia in quanto potenza sunnita nemica dell’Iran sciita ha ristabilito rapporti cordiali con la Russia, che usa basi aeree in Iran ed è alleata con Damasco, dove governa Bashar el Assad, nemico di Recep Tayyip Erdogan. Significa che quest’ultimi, Assad e Erdogan, stanno ricucendo le relazioni? La contorta e non sempre comprensibile situazione fa da sfondo al matrimonio di sangue del sabato sera, nella città di Gaziantep, distretto di Sahinbey. Un posto modesto, abitato da gente modesta. Nella guerra tra potenze, non solo regionali, un ragazzo di “dodici- quattordici” anni esplode, o viene fatto esplodere, provocando più di cinquanta vittime in una piccola folla che festeggia le nozze di Besna e Nurettin Akdogan. La sposa, Besna, è stata leggermente ferita. Lo sposo è uscito indenne dall’attentato.
A Ankara, nella capitale, si considera che il PKK (il partito dei lavoratori curdi fuori legge) sia all’origine delle tre azioni terroristiche avvenute nel corso della settimana nell’Est e nel Sud-Est del paese con un bilancio di quattordici morti. In quelle zone lo scontro tra esercito e curdi conosce rare tregue. Il governo ha invece aggiudicato allo “stato islamico” la strage avvenuta in giugno, con quarantaquattro morti, all’aereoporto di Istanbul. Questa distinzione tra gli autori di atti di violenza rischia di essere dettata più dalle passioni e
dagli interessi politici che dal risultato di inchieste approfondite.
Sia perché quegli atti sono frequenti, di diversa intensità e condotti con metodi variabili, sia perché le rivendicazioni sono rare. Il colpo di stato fallito del 15 luglio ha fatto duecentoquaranta vittime e non è stato un semplice attentato, ma nei discorsi ufficiali rientra nel capitolo terrorismo.
Di solito solerte nel firmare le stragi organizzate o ispirate in altri paesi, lo “stato islamico” in Turchia resta silenzioso. Non lo è invece il presidente Erdogan che nelle sue denunce accumuna lo “stato islamico”, il PKK curdo, e i gulenisti. Quest’ultimi, seguaci del predicatore Fetullah Gulen, sono accusati di avere ordito il putsch di metà luglio: e per questo sono imprigionati, epurati, espropriati. Si calcola che siano state colpite da questi provvedimenti ottantamila persone: piccoli e grandi burocrati, militari, poliziotti, magistrati, imprenditori.
La Turchia dà l’impressione di vivere una fase di transizione. Già prima del fallito colpo di Stato c’era stata una lunga fase di incertezza, in cui l’autoritarismo rampante del partito di Erdogan, costante vincitore delle elezioni dal 2002, sembrava insaziabile. Forte della legittimità popolare, il carattere turco-sunnita o nazional-musulmano del regime si imponeva. Il fallito colpo di Stato ha offerto l’opportunità di un qualcosa che assomiglia a un colpo di Stato riuscito. Ma non ancora completato. Appunto in una fase di transizione. Il ripetersi degli attentati è un sintomo. Creano quel clima d’attesa, di cui mi ha parlato, con emozione, un sociologo subito dopo l’attentato nel Sud-Est del paese.