La memoria profonda dell’Ucraina. Tra i protagonisti della resistenza ucraina all’invasione russa c’è la Memoria. La memoria profonda di ciò che è già accaduto e che si va ripetendo. Nei capitoli finali di Tutto scorre… Vasilij Grossman descrive la terribile, procurata, carestia che causò la morte, nel 1932-1933, di oltre 4 milioni di ucraini. Coetaneo di Grossman, Ulas Samchuk fu il primo nel 1934 a fornire una testimonianza diretta del genocidio; scritto in ucraino, proibito dalle autorità sovietiche, il suo romanzo Maria solo nel secolo XXI ha avuto circolazione in ucraino – e comunque una sola traduzione in Canada. Grazie alla generosità delle Edizioni Clichy esso appare in italiano, in questi momenti oscuri della storia d’Europa. Serva a far comprendere che in ogni famiglia ucraina, a novant’anni di distanza, c’è la memoria di un bisnonno, di un parente morto in quel genocidio. «Lo sai perché resistere» ha scritto Giovanni Giudici: è un imperativo che si tende, nella tragedia.
Il romanzo è la cronaca di uno dei più atroci crimini che abbiano colpito l’umanità nel XX secolo: l’Holodomor, la «morte per fame», provocata dalla carestia causata in Ucraina dalla dissennata politica del regime sovietico di Stalin. Ulas Samchuk è stato uno dei più rilevanti scrittori ucraini del XX secolo; appartiene alla tradizione letteraria della diaspora, avendo trascorso la maggior parte della sua vita lontano dal proprio Paese. Fervido nazionalista e cultore dell’identità ucraina, in quella lingua ha scritto, votandosi all’oblio. La sua è una «vita in fuga», com’egli testimonia nell’autobiografia Le dodici e cinque. Appunti di corsa: «Ho visto gli zar, i re, gli imperatori, i presidenti, i dittatori, Mussolini, Hitler, Stalin, la fame del 1932-33, i campi di concentramento… e l’eterno esilio».Leggi di più
Gli studiosi di Ulas Samchuk lo definiscono, non di rado, «un Omero ucraino», un cantore epico della sua terra e del suo popolo: se nella definizione c’è enfasi, certo al lettore italiano Samchuk apparirà uno scrittore che prolunga la scia verghiana dei «vinti», fedele a essi sin nelle coloriture del linguaggio e nel ritmo asciutto e saccadé del narrare. Maria è la biografia di una donna di villaggio che si spegne nella morte per fame: Holodomor è il neologismo entrato nella lingua ucraina per definire questa tragedia. Il termine deriva dal nesso di parole moryty holodom che significa «infliggere la morte attraverso la fame». Samchuk terminò il suo romanzo a Praga nel 1933, proprio nell’anno in cui in Ucraina la carestia aveva raggiunto il suo apice. Il racconto è suddiviso in tre grandi sezioni: Il libro della nascita di Maria, Il libro dei giorni di Maria e Il libro del pane; un trittico che ricorda il rilkiano Libro d’ore, anch’esso ripartito nel Libro primo, della vita monastica, nel Libro secondo, del pellegrinaggio, nel Libro terzo, della povertà e della morte: «Signore, siamo più poveri delle povere bestie / che muoiono della loro morte…». Quest’epica corale ha il proprio «basso continuo» nella vita del villaggio; l’autore così lo conferma: «Appartengo a quelle persone che non si saziano mai della vita del villaggio. Appartengo a quelli che ovunque siano – a Berlino, a Parigi, a Roma- si ricordano in un modo o nell’altro del proprio villaggio… Il villaggio, dove il cuore riposa». Il romanzo è anche una grande enciclopedia del folklore contadino, dipinta a tratti vivi: le grandi feste collettive, osservate nella liturgia e nei piatti tradizionali della cucina ucraina, ebraica, russa, polacca, nei nomignoli con cui si evoca o si interdice l’altro: russi, ebrei, cosacchi; il lavoro quotidiano nei suoi arnesi più semplici, la maestosa natura, signora dell’universo.
Ma il serrato apologo è soprattutto la denuncia, diretta, di un calcolato sterminio: «L’Unione Sovietica è stata fondata non sull’unione delle idee e delle culture diverse, ma sulla completa distruzione di tutte le idee e culture salvo una – quella Sovietica», scriveva Raphael Lemkin, uno dei padri della definizione giuridica di «genocidio» e testimone – egli ebreo – del genocidio perpetrato da Stalin in Ucraina. L’uniformazione violenta è il Leitmotiv profondo che attraversa il romanzo; essa si afferma sopra una variegata pluralità: il territorio dell’Ucraina moderna era stato conquistato e diviso principalmente fra due imperi. La parte occidentale apparteneva all’Impero austro-ungarico e successivamente fu divisa fra la Polonia, la Cecoslovacchia, la Romania e l’Ungheria ed ebbe una storia non meno drammatica rispetto al resto del Paese. Le vicende del romanzo di Samchuk, invece, si svolgono nella parte nord-orientale dell’Ucraina moderna che dalla fine del XVIII secolo faceva parte dell’Impero russo e in seguito dell’Unione Sovietica.
Il testo segnala che Maria visse quasi settantadue anni e scomparve nel 1933; l’arco della narrazione parte dunque dagli anni Sessanta del XIX secolo, dal 1861: era l’anno delle speranze contadine, legate all’abolizione della servitù della gleba, proclamata da Alessandro II; un inizio il cui tono idilliaco non s’intende se non sullo sfondo di quell’anelito di lavoro e libertà. La parte centrale disegna invece l’irrompere degli effetti della Rivoluzione d’Ottobre (1917) nella vita quotidiana, sullo sfondo tragico della Prima Guerra mondiale: «Fu l’indimenticabile 1914. Suonarono le trombe, nitrirono i cavalli, le mamme e le spose scoppiarono a piangere». Alle privazioni della guerra s’aggiunse la Rivoluzione: lo zar Nicola II abdicò. La notizia della caduta della monarchia non arrivò subito nelle campagne ucraine. Samchuk ci dà un’illustrazione di quel momento: «Marzo. Le campane in chiesa non smettevano di suonare. Gli uomini indossarono le divise (chi non aveva una divisa in quel periodo?!) e si precipitarono in chiesa. All’improvviso nella chiesa apparve un unterzerferito. Si arrampicò sul recinto della chiesa e gridò: “Tovarishi!”. La gente sussultò. Non avevano mai sentito quella parola. Nessuno l’aveva mai pronunciata fino ad allora. “Lo zar, l’imperatore di tutte le Russie, non ha rinunciato al trono! L’hanno detronizzato! Tutta quella terra, per la quale i nostri fratelli versano il sangue, perdono le teste su tutti i fronti e tornano a casa mutilati, quella terra deve appartenere a noi! Mi sentite! A noi, ai contadini che la lavorano!”».
Il motto: «dare TUTTO alla Rivoluzione» venne applicato alla lettera e nelle campagne scoppiarono rivolte; al X Congresso del Partito Comunista, Lenin alla politica di inquadramento militare sostituì (primavera 1921) la NEP, la Nuova Politica Economica, che viene percepita da Samchuk come un’ulteriore restrizione e gravame per chi coltiva la terra. (Sono gli avvenimenti raccontati da Michail Bulgakov in La guardia bianca, sulla rivista «Rossija» nel 1924-1925; trad. it.: Einaudi, Torino 1967). La situazione si radicalizza con la presa di potere di Josef Stalin nel 1922, e con il varo, nel 1928, del primo «piano quinquennale» che pose fine alla NEP. Esso si basava sull’industrializzazione accelerata e sulla collettivizzazione agricola. In Maria Ulas Samchuk associa, in pochi tratti essenziali, l’inizio del piano quinquennale con la fine dell’unità simbolica del villaggio intorno alla campana del monastero. Scrive: «I giardini iniziarono a fiorire, gli usignoli cominciarono a cantare, ma la campana era sparita. Era il piano quinquennale sovietico. Avevano bisogno del metallo. L’industrializzazione».
Il piano quinquennale, infatti, che si sviluppò dal 1928 al 1932, aveva per obiettivo la collettivizzazione agricola che doveva centralizzare i beni del Paese e trasferire la ricchezza dall’agricoltura all’industria. Fu bandita la proprietà privata e le terre furono unificate in cooperative agricole – kolchoz. Di fronte alla resistenza dei contadini ucraini, i kulaki, iniziò la repressione: la deportazione di massa scoppiò nel 1930, quando nei primi quattro mesi furono deportate 113.637 persone e alla fine dell’anno il numero raggiunse quasi il milione. Nel romanzo, Ulas Samchuk non racconta esplicitamente della deportazione, ma attraverso alcuni episodi descrive questa tragica pagina della storia ucraina: «Sulle strade d’acciaio correvano i treni in lontananza (…) dove c’era tanta neve e tanto gelo, dove frusciavano i pini e ululavano gli orsi bianchi. Le Isole Soloveckie – quanto erano terribili e indimenticabili quelle parole. Erano l’incubo e la ferita dei secoli. Erano la tomba per milioni di ucraini».
E infine le requisizioni sistematiche del grano, le perquisizioni, l’impossibilità di migrare: divennero cibo anche le formiche, gli scarafaggi e i vermi. Poi toccò alle ortiche, all’acacia, ai soffioni, alla corteccia delle piante. Le piante contenevano pochissime proteine e la gente si ammalava di idropisia, si gonfiava e moriva, come descrive con sgomento Grossman.
Pochi stranieri ebbero la possibilità di essere testimoni diretti dell’Holodomor: tra questi i giornalisti inglesi Gareth Jones e Malcom Mugerridge, che si recarono in Ucraina per documentare la carestia del 1933. Va aggiunta la preziosa – e terribile – rassegna fotografica di Alexander Wienerberger (Vienna, 1891 – Salisburgo, 1955): ingegnere chimico, lavorò per diciannove anni nelle aziende chimiche dell’URSS e, durante il suo lavoro a Kharkiv, scattò un centinaio di fotografie dell’Holodomor del 1932-1933. Il console italiano a Kharkiv Sergio Gradenigo fu un testimone oculare di quegli orrori. Grazie allo scrupoloso lavoro di Andrea Graziosi, storico e sovietologo, questi documenti sono stati resi pubblici e costituiscono una fonte fondamentale per la ricostruzione delle pagine tragiche della storia ucraina. Fra le tante lettere spedite in Italia, basti citare quella del 20 giugno 1933, lucida ed esplicita nell’analisi e nella valutazione: «… si parla di una “carestia organizzata” da Mosca per eliminare definitivamente il tipo Ucraino, facendo scomparire colla morte questo grosso ostacolo al dispotismo Grande Russo…».
Il nostro presente vi affonda sinistramente le proprie radici.
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