La metafora del polittico e la costruzione dell’intreccio. La dilogia grossmaniana è lettura impegnativa e difficile: decine e decine di personaggi da seguire in immagini narrative che ad una prima lettura possono sembrare casuali. Ma Vasilij Grossman è un grande artista. Ha dipinto i suoi personaggi, ha creato forti relazioni tra loro, e tra le loro vicende: sono link a volte espliciti, a volte più sfumati, a volte bisognosi della collaborazione del lettore per essere definiti
Il testo grossmaniano infatti disegna anche il profilo di un lettore ideale, collaborativo e capace di vedere nel suo insieme il testo. Proprio come un polittico, la dilogia richiede una lettura nello stesso tempo analitica e sintetica.
Stalingrado è il prequel di Vita e destino
La scelta editoriale di pubblicare solo il secondo romanzo, come se il primo non esistesse, è la stessa operazione che porta a disarticolare i polittici e a presentarne le parti come autonome, mentre il loro senso sta nella relazione che le parti del testo istituiscono tra loro e con il tutto.
La fine di Marusja
Eppure il primo romanzo è essenziale per soddisfare la (giusta) curiosità del lettore che vuol conoscere tutto il possibile dei personaggi di questa storia affascinante. Ad esempio, in Vita e destino il lettore sa che Marusja è morta, ma è in Per una giusta causa che le circostanze della sua morte sono narrate in una pagina indimenticabile. Sul traghetto in mezzo al Volga nel giorno esecrando del bombardamento e dell’incendio di Stalingrado la confusione è così assordante che Marusja non sente più nulla, è diventata improvvisamente sorda. Ma ode tuttavia uno schianto metallico, e vede una colonna d’acqua verde che si leva tacita e improvvisa, e si riversa sulla scialuppa su cui si trova con i bambini dell’orfanotrofio. La fragile barchetta si rovescia nel Volga. Resta solo una chiglia nera nell’acqua che ribolle bianca. Verde e nero e bianco sono i colori degli annegati nel Volga.
Tolja e Ljudmila
Ma non è tutto. Per una giusta causa non solo risponde al desiderio del lettore di saperne di più, ma ha un pregio anche maggiore: in alcuni casi dà ad emozioni prevedibili una prospettiva più ampia e complessa, meno ovvia. In Vita e destino, ad esempio, Tolja è già morto quando sua madre lo raggiunge nell’ospedale militare di Saratov. In quei capitoli il centro emotivo del racconto è la madre, nel dolore insostenibile che la paralizza. È un luogo del romanzo la cui lettura è quasi intollerabile. La scelta di provocare un’emozione così forte è tuttavia sorprendente in un romanzo che esige dal suo lettore ideale una lucidità ideale. Ma se la lettura si completa con gli eventi che portano Tolja a morte in Per una giusta causa, l’emozione trova un suo punto di equilibrio tra la madre e il figlio: è il carattere di Tolja ad emergere e a bilanciare quello di sua madre Ljudmila. Tolja è un giovane, intelligente, abile artigliere, è appena uscito dalla scuola militare, non sa che cosa sia davvero la guerra, come tanti giovani che vanno al fronte; lo imparerà morendo, come migliaia e migliaia di ragazzi sacrificati a Stalingrado e ovunque, e pianti da migliaia e migliaia di madri.
Vera
Sempre in Vita e destino c’è la vicenda della figlia di Marusja, Vera, che aspetta un bambino e lo partorisce in un giorno di novembre su una chiatta, ancorata alla riva sinistra del Volga, proprio nella giornata in cui l’Armata Rossa dà il via alla controffensiva che ferma finalmente l’avanzata nemica. Memorabile in Vita e destino è il racconto dell’interno di quella chiatta, in quella giornata, livida e caotica e assordante, glaciale e bruciante insieme, dove tuttavia una giovane donna diventa madre. Ma l’antefatto che prepara Vera alla maternità è in Per una giusta causa, là dove nel rogo che distrugge Stalingrado bombardata, Vera esce per sempre dalla sua infanzia e, benché così giovane, sente nascere dentro di sé un sentimento di protezione verso i feriti disperati che hanno bisogno di soccorso. Mentre li aiuta ad mettersi in salvo, Vera aspetta già il suo bambino, frutto della storia d’amore con il pilota Viktorov, uno dei tanti giovani sovietici dalla vita grama e dalla morte precoce; una storia d’amore che sua madre Marusja disapprova per la scarsa istruzione del giovane, come racconta Vera alla sua amica Zina.
Zina
Anche Zina è un esempio di quelle figure minori abbozzate nella prima parte del romanzo che, lungi dall’essere dimenticate, acquistano il loro senso molte pagine dopo. In Vita e destino Zina è una dei tanti abitanti della città, intrappolati in essa, quelli che non sono riusciti a raggiungere la riva sinistra, ma sono scampati alla deportazione tedesca. Zina è la Fräulein di un tedesco, il tenente Bach. Lo frequenta per procurarsi del cibo, deve pur sopravvivere, anche se una volta regala la galletta avuta dal tenente ad una vecchia che vive in uno scantinato vicino.
Ma chi è questa giovane donna, che si lega ad un nemico? Deve essere giudicata come moralmente riprovevole, come si usa in questi casi? La risposta è in Per una giusta causa. Zina è una ragazza del tutto comune, non troppo istruita e vanitosa: è capace di mangiare pane e tè per settimane per comprarsi delle calze fini, o per offrire una festa ad un’amica. Tuttavia ha un carattere pratico: ha fatto un buon matrimonio, sposando un funzionario di partito che le permette di vivere bene; constata di essere addirittura ingrassata nell’anno di guerra.
Chiacchierando con Vera nella sua casa di Stalingrado (PGC, I, 54), ha parole di critica per Ženja, che è una donna molto bella, ma non si serve della sua bellezza per conquistarsi una buona posizione sociale. Nello spesso tempo approva la relazione di Vera con Viktorov, cresciuto in un orfanotrofio, meccanico e ora pilota destinato a morte quasi certa. Zina elogia l’amore disinteressato, la passione che non sente ragioni, che è assolutamente libera.
Nello scantinato di Stalingrado, dove incontra il tenente Bach, nel momento finale della resa dei conti, quando lui le si aggrappa, Zina, la pratica e calcolatrice Zina, sente tuttavia dentro di sé la forza del tutto irragionevole di un sentimento amoroso che la spinge verso il tedesco.
Zina è un personaggio minore, ma il filo narrativo che la riguarda, lasciato aperto all’inizio del racconto nel dialogo con Vera a Stalingrado, è ripreso in Vita e destino e acquisisce così un suo senso specifico nell’ambito delle molte e contrastanti storie del popolo in guerra. Il “popolo” ha i modi e i caratteri più vari, spesso compresenti nella stessa persona, come in Zina, una donna che è furba nello stesso momento in cui è frivola, pratica mentre è sentimentale, opportunista mentre è generosa.
La dilogia: un’abilissima costruzione dell’intreccio
Un altro episodio che offre la percezione di un’abilissima circolarità nella costruzione del racconto si svolge intorno ad un pranzo di famiglia. All’inizio in Per una giusta causa e alla fine in Vita e destino, attorno alla tavola apparecchiata siede la famiglia di Aleksandra Vladimirovna o quel che ne resta.
Una tavola apparecchiata in via Gogol
Nel luglio-agosto 1942 il fronte è ormai prossimo, ma in casa di Aleksandra Vladimirovna, in via Gogol a Stalingrado, c’è una festa (PGC, I, 6-14). Aleksandra vive con suo nipote adolescente, Serëža, figlio di suo figlio Dmjtri, arrestato e deportato, come sua moglie, nel Trentasette. Ci sono anche due delle sue tre figlie, Marusja e Ženja. Ci sono Vera e Tolja, giunto inaspettatamente con un compagno del corso artiglieri, Kovaliov. C’è Stepan Fëdorovič, marito di Marusja e direttore della centrale elettrica di Stalingrado, la Stalgres. E sono attesi alcuni vecchi amici di Aleksandra: Mostovskoj, il bolscevico, e Andreev, operaio alla fabbrica Ottobre Rosso, e Sof’ja Osipovna, chirurgo capo all’ospedale; è attesa anche una nuova amica, Tamara, moglie del maggiore Berëzkin, evacuata in città con due figli bambini dalla zona occupata dai tedeschi. Benché tutti siano preoccupati, la compagnia è ancora allegra e festosa. Tutti traggono conforto dalla reciproca presenza, chiacchierano e apprezzano che Ženja abbia preparato addirittura una torta.
Una tavola apparecchiata alla Stalgres
Il secondo e davvero ultimo pranzo a Stalingrado non è più nella casa di via Gogol, distrutta dalle bombe e degli incendi, ma in un locale riattato ad abitazione nella centrale elettrica. È l’aprile 1943, meno di un anno dopo. La tavola non è più festosa. Di tutti i commensali dell’estate 1942 sono rimasti solo Stepan e Vera, la nonna Aleksandra, e Andreev, che ha perduto sua moglie, ma ha con sé sua nuora Natal’ja. La morte, la prigionia, le tribolazioni, che la guerra porta comunque con sé, hanno sconvolto la vita di tutti loro. La malinconia e il dolore sono adesso i compagni di questi sopravvissuti, che si apprestano a lasciare per sempre Stalingrado. «È duro lasciare una casa dove si è sofferto molto» (VD, III, 62), dice memorabilmente Aleksandra, e chiude così il racconto circolarmente, dove l’inizio si congiunge con la fine attraverso un’immagine, quella della tavola apparecchiata, attorno a cui siede una famiglia.
La lettera!
Ma che tra le due parti della dilogia vi sia una connessione narrativa, sistematica ed organica, diventa, mirabilmente manifesto nel viaggio avventuroso di una lettera. È la lettera formidabile di Anna Semënovna, la madre del professor Štrum. Il racconto delle traversie di questa busta, che braccata dalla guerra supera ogni ostacolo, è messaggio di per sé, dal valore cruciale.
Il colonnello Novikov, di stanza a Stalingrado è chiamato a Mosca al comando militare; i Šapošnikov lo incaricano di consegnare al professor Štrum una lettera, giunta a Stalingrado presso Mostovskoj, che a sua volta l’ha ricevuta da un vecchio conoscente, Gagarov, che l’ha avuta da un certo Ivannikov, che in fuga verso est dalle zone occupate, è riuscito a nascondere e salvare alcuni ebrei, ed ha avuto la busta, in realtà un pacchetto avvolto in una carta sgualcita e macchiata, da una donna di cui non conosce né il nome né le circostanze in cui è entrata in possesso del plico. Comunque Ivannikov ha detto a Gagarov di consegnarla a Ljudmila, per il professor Štrum. Gagarov incarica della consegna Mostovskoj come vecchio amico di Aleksandra Vladimirovna, e Mostovskoj porta la lettera a casa Šapošnikov, in via Gogol, dove apprende da Tamara Berëzkina che il pacchetto potrà andare a Mosca attraverso il colonnello Novikov, che là è appunto diretto. È così sporco il pacchetto, che Tamara lo avvolge in una carta rosa, di quelle che si usano per le decorazioni di Natale. Così involto, Novikov consegna il plico a Štrum, che per ragioni connesse al suo lavoro di fisico, è rientrato per qualche giorno nella sua casa di Mosca da Kazan’ dove è sfollato. Questi mette il pacchetto nella sua cartella e ne rimanda la lettura ad un altro momento, per una buona ragione: sta corteggiando Nina, una giovane donna che abita temporaneamente nell’appartamento vicino al suo. Anzi Viktor Pavlovič del pacchetto si dimentica proprio, finché nella sua dacia il sabato sera, dopo aver fatto un giro di controllo in casa, aver constatato i danni della guerra, dopo aver fatto un giro in giardino, essere rientrato, aver messo il pigiama ed essere andato a letto, aprendo gli involti del pacchetto … riconosce la calligrafia della madre: allora si alza, si veste in fretta come se qualcuno lo chiamasse. E legge. Legge e rilegge la lettera, non ne farà parte a nessuno, la conserverà sempre su di sé, in una tasca interna della giacca. Legge lui solo. Il lettore non conosce qui il testo. Potrà conoscerlo soltanto in Vita e destino. Tale è l’orrore del racconto da non poter essere affrontato tutto insieme! La mattina dopo nella dacia di Viktor Pavlovič tutto ha l’aspetto consueto, il sole sorge, gli uccelli cantano, lo specchio gli rimanda il suo viso sempre uguale. Ma un filo rosa, torto, sta sulla coperta del letto, la luce del sole sembra muoverlo… Quel filo, è il filo del sangue che attraversa tutta la dilogia.
Il filo di sangue in tre episodi
È il sangue rosso che scivola sui corpi bianchi degli assassinati ai bordi delle fosse. È così crudele l’idea che si possano assassinare tutti insieme tanti esseri umani da essere incredibile. Eppure questo sanguinoso racconto torna in tre distinti episodi, significativi perché creano stretti rapporti di senso nella dilogia grossmaniana, uno in Per una giusta causa, gli altri due in Vita e destino.
La morte triviale e burocratica
Krymov, dopo il suo arresto, narrato in Vita e destino, è rinchiuso in una prigione di campagna. Lì è testimone di un fatto terrificante. Chiuso in cella, sente il carceriere e il suo superiore litigare furiosamente. Lo fanno uscire in corridoio e lì vede un uomo scalzo, in mutande, la faccia piccola e giallastra, sporco. «E piangeva quella faccia, piangeva disperata: piangevano le rughe, le guance flaccide, le labbra. Solo gli occhi non piangevano, ma sarebbe stato meglio non vederli quegli occhi tremendi, tanto atroce era la loro espressione» (VD, III, 3). È un prigioniero, fucilato poche ore prima, ma solo ferito, evidentemente, e sepolto sotto uno strato di terra non molto spesso. Si è liberato ed ora è tornato alla prigione, dove, del tutto indifferenti al suo terrore, i carcerieri si accusano a vicenda e non sanno cosa fare dell’uomo che sta loro davanti, come fosse un oggetto di nessun conto.
La morte gloriosa
Molti anni prima, in una discussione con Štrum raccontata in Per una giusta causa, Krymov ricordava che ad Abarčuk era toccata una sorte simile: «Negli Urali gli uomini di Kolčak l’avevano fucilato e lui è uscito dalla fossa insanguinato (…)» (PGC, I, 28). Abarčuk, da quell’uomo di fede ardente che era, non tornò dai suoi assassini, ma raggiunse il comitato rivoluzionario e riprese la lotta. È un episodio centrale per comprendere il mondo emotivo di Krymov in due momenti diversi della sua vita. Lo stesso terrificante episodio, per il Krymov rivoluzionario è un mito, il mito del combattente valoroso, che risuscita dalla tomba, insanguinato, e continua a lottare con i suoi compagni; per il Krymov ormai arrestato, un episodio analogo è finalmente visto per quello che è: una scena mostruosa, dove un uomo, traumatizzato e istupidito, insanguinato e sporco, è agli occhi di altri uomini soltanto una cosa. E quando sarà duramente interrogato e picchiato alla Lubjanka, gli tornerà in mente quel prigioniero annientato, e si identificherà in lui. «Farò la stessa fine. Nemmeno io saprei dove andare. È tardi, ormai» (VD, III, 43).
Le fosse
Il motivo della fuga dalla fossa comune che gorgoglia sangue compare una terza volta nell’opera, in Vita e destino nel contesto del racconto dello sterminio degli ebrei. Nataša è nel ghetto, presto è avviata con gli altri alla fossa comune e lì colpita. Ma dalla fossa esce, «dopo aver strizzato la camicia madida» (VD, I, 46). E torna in città. È ormai notte. Un’orchestra suona un valzer nella piazza del ghetto dove poche ore prima si è svolta la caccia infernale e dove ora si fa festa.
È un capitolo breve, ma intenso per l’orrore della tomba comune che gorgoglia di sangue sui corpi bianchi delle vittime, per l’orrore della fossa che si muove, perché non contiene solo cadaveri: molti bambini, vecchi e disabili vi sono gettati vivi, e la morte per soffocamento può avvenire a distanza di molte ore, di giorni. Proprio questa è la condizione di Nataša che è disabile, ha un ritardo mentale, ed è figlia di un medico eliminato nel Trentasette. Questa notizia è nel testo uno degli anelli di congiunzione tra le stragi sovietiche e quelle naziste, a sottolineare che, al di là dei motivi, di stragi si tratta, e che le modalità operative degli uni e degli altri si somigliano: sono le modalità operative dello stato totalitario.
È il professor Štrum a formulare con nitidezza questa osservazione: il nazismo respinge il concetto di individuo e basa la sua azione sull’idea di probabilità: in quale insieme di individui è più probabile trovare degli oppositori? Definito questo, procede alla neutralizzazione preventiva della minaccia, ricorrendo alla deportazione e al genocidio. E in Vita e destino il parallelo col mondo sovietico diventa esplicito: il potere sovietico ritiene più alta la probabilità di scovare un nemico tra gli strati sociali non operai. «Però anche i nazisti si erano basati sulle probabilità per distruggere popoli e nazioni» (VD, II, 54), riflette il professor Štrum.
La sistematica contestazione della narrazione di Stato
Emerge qui uno dei temi centrali della dilogia grossmaniana: il parallelo tra lo stato nazista e quello staliniano, o per meglio dire, tra le modalità operative di questi due regimi politici. Per la libertà di pensiero che questa riflessione dimostra, i lettori occidentali hanno ammirato, e tradotto, soprattutto il secondo romanzo della dilogia, Vita e destino, dove il tema emerge con grande forza nei pensieri del professor Štrum e nel celebre dialogo tra Liss e Mostovskoj.
I fatti dell’estate 1941 nella memoria di chi c’era
Tuttavia proprio la lettura dell’intero racconto non solo chiarisce che questo stesso tema è presente anche nella prima parte, in Per una giusta causa, ma offre al lettore una prospettiva più ricca e profonda: non è solo la similitudine tra i due regimi ad emergere è anche, e forse sopratutto, l’esistenza di memorie diverse, talvolta divergenti, della storia sovietica della prima metà del XX secolo. Le memorie di tutti coloro che vissero la rivoluzione, la guerra civile, la collettivizzazione, l’industrializzazione e infine l’invasione tedesca sono molteplici, e sono altro rispetto alla leggenda nazionalista costruita dallo Stato sulla superiorità russo-sovietica in guerra e, per estensione, in ogni altro possibile ambito, naturalmente sotto la guida infallibile del partito e del suo leader.
È nel testo grossmaniano che trovano voce le memorie mutilate dalla memoria di Stato.
Come in Vita e destino la critica al regime sovietico torna nelle parole di molti personaggi, così in Per una giusta causa ci sono i ricordi di Novikov, di Krymov, di Darenskij e di Berëzkin sull’inizio della guerra nell’estate 1941 e sugli errori militari commessi in quei mesi da Stalin e dai suoi generali; ci sono le considerazioni del generale Ageev sull’ordine “Nessun passo indietro”, del luglio ‘42 (PGC, III, 19). E tra i civili, Vavilov stesso e i cosacchi del Don, ci sono le discussioni sui kolchoz; e nella storia di Dmitrj c’è lo spavento, e lo scandalo, del gulag. Sono proprio queste riflessioni che danno origine alla critica del sistema sociale e politico dell’era staliniana in entrambi i romanzi.
Lungo tutto il racconto c’è la memoria dei tanti fatti che il nuovo Stato nato nel Diciassette visse, e delle tante scelte che erano pur possibili e che avrebbero potuto portare ad esiti ben diversi. La stesse considerazioni sulla rivoluzione di Mostovskoj, il bolscevico, si sviluppano nelle due parti del romanzo, non solo in Vita e destino, ma anche all’inizio dell’intero racconto. In un capitolo iniziale in Per una giusta causa, egli ricorda Leningrado assediata, la città che è memoria vivente «dei primi battiti del giovane cuore della rivoluzione» (PGC, I, 12), questa stessa città ha per lui i tratti sofferenti dei visi infantili mortalmente pallidi, i gesti pazienti e ostinati delle donne, degli operai, dei soldati. E Mostovskoj ricorda anche le lontane, profonde e vivaci discussioni con i compagni di emigrazione, di cui sente ancora dentro di sé le voci, a Londra, nel parco dell’Università, sulla tomba di Marx. Mostovskoj ricorda la fatica estenuante degli anni in cui fu costruita la Repubblica sovietica, il suo personale contributo all’organizzazione teorica e pratica dei piani quinquennali, al programma di elettrificazione, il suo lavoro al Centro Ricerche Scientifiche dello Stato, e soprattutto il suo lavoro di commissariato all’istruzione pubblica, dove lavorò con un compagno con cui si capiva «sempre al volo» (VD, I, 4), Lunačarskij. Appena un cenno fuggevole in Vita e destino a questa figura di primo piano del gruppo dirigente bolscevico; così abile che seppe proteggersi da Stalin (non fu infatti arrestato ed eliminato), ma che non non riuscì a contrastarlo politicamente e fu emarginato, proprio come Mostovskoj. Il cenno a Lunačarskij si illumina di significato proprio se messo in relazione col capitolo di Per una giusta causa in cui è narrata la storia di Mostovskoj, il bolscevico che idealizza la rivoluzione, che la considera come grandiosa opera di Lenin, anche quando ha la prova che l’errore sta proprio nella debolezza di quell’elaborazione teorica, che non riesce a immaginare istituzioni capaci di tradurre in politica l’ideale di democrazia; anche quando ha la prova che il leninismo apre la via al regime staliniano, che si affermò infatti, e processò e uccise anche Bucharin, un compagno di lotta che Mostovskoj aveva stimato e amato profondamente.
È dunque sul terreno della memoria, anzi delle memorie, che si svolge il duello, impari, tra questo testo e lo Stato, fin dalla tormentata vicenda di censura che accompagna già nella prima metà degli anni Cinquanta il primo romanzo e che conduce al sequestro del secondo all’inizio dei Sessanta.
L’esigenza insopprimibile del racconto è quella di contrastare la narrazione del potere, che dell’amor di patria e della guerra vittoriosa fa un monumento retorico al nazionalismo. La dilogia grossmaniana al contrario dà voce ad un amor di patria che non è nazionalismo, che si declina in modi diversi, plurali, e tutti legittimi, e tutti implacabilmente espunti dalla versione ufficiale o rielaborati monchi e privati del loro senso. Eppure l’amor patrio del menscevico Černecov non è meno degno di quello del colonnello Novikov, che se lo costruisce nei duri mesi della guerra. Per una patria libera combatte il capocasa Grekov non meno eroicamente del comandante Filiaškin e degli uomini che periscono con lui alla stazione. E il bolscevico Mostovskoj non è meno critico del vecchio principe Šarogorodskij sul ripescaggio di tutte le figure di condottieri russi, di generali gloriosi del passato e sulla politica di riapertura delle chiese, che sono piene, come fa notare non senza una nota di umorismo Agrippina Petrovna, la padrona di casa di Mostovskoj (PGC, I, 13).
Una polemica esplicita con il mito della “Grande Guerra Patriottica” è proprio in Per una giusta causa (PGC, II, 4) nel capitolo in cui durante una conferenza stampa al fronte il generale Erëmenko fa notare ai giornalisti che la situazione attuale non è quella del consiglio di guerra tenutosi a Fili, narrata in Guerra e pace. Lì Kutuzov, contro l’opinione generale, sostiene che non può difendere Mosca, e dunque permetterà alle truppe nemiche di occuparla. Invece a Stalingrado Erëmenko dichiara che non abbandonerà mai il suo posto in città. Il corrispondente che aveva interrogato il comandante proprio sulla possibile ritirata si accorge di aver arbitrariamente calato lo schema del romanzo di Tolstoj sulla realtà. Le parole di Erëmenko suonano altre da quelle di Kutuzov all’epoca dell’invasione napoleonica e la guerra contro i tedeschi del 1941 non è la guerra contro francesi del 1812!
Il meditato link tra i fili del racconto
Leggere dunque solo il secondo romanzo, che in origine è stato pensato come un unico testo con il primo, non consente di cogliere compiutamente il senso della vicenda di Stalingrado, che è sì storia di una guerra, di una guerra vera storicamente combattuta, ma anche racconto di come si costruì pezzo per pezzo una menzogna, quella della “Grande Guerra Patriottica”, che cancella la verità popolare di quella guerra. È storia di un paradosso: la vittoria sui nemici, ottenuta dal popolo russo a prezzo di sacrifici indicibili, dà origine non alla libertà, ma ad un nuovo capitolo di servitù.