La caratteristica più bella dei femminismi contemporanei è la capacità che hanno le ragazze di oggi di non tacere più. La rabbia è uscita dalla mitologia delle Erinni, ed è diventata uno strumento grazie alla denuncia virale. Le donne hanno smesso di piangere. E lottano.
Il pittore norvegese Edvard Munch ha più volte raccontato che, per dipingere la serie di quadri che vanno sotto il titolo L’urlo, si è ispirato a un fatto realmente accaduto: stava camminando con amici lungo una collina quando il cielo si era tinto di rosso e tutto il paesaggio intorno, dai fiordi alla città, era stato attraversato da un grido, che lui aveva “visto” attraverso il colore del sangue. Tutti conosciamo quell’immagine diventata il simbolo dell’angoscia contemporanea, ma da dove viene l’urlo che Munch giura avergli attraversato le orecchie? Appartiene a una voce femminile o maschile? Leggi di più
La creatura dei quadri è androgina, eppure io l’ho sempre identificata con un sesso preciso: a urlare è la natura, ed è femmina. Ne ho avuto conferma quando ho scoperto le Banshee, creature celtiche il cui nome deriva dal gaelico bean (donna) e sith (fata). Secondo la tradizione, gli spiriti delle Banshee si aggirano per le campagne e quando perdono qualcosa o qualcuno, per manifestare il disappunto lanciano un urlo che perfora i timpani e il cervello dei mortali e può perfino ucciderli, un lamento che riempie le valli e riecheggia nei boschi. Gli uomini interpretano quella voce lugubre e rabbiosa come il presagio di un lutto o di una mancanza. Eccolo, l’urlo della natura: i miti e le leggende nascono per dare forme e storie ai fenomeni naturali e al mondo sottaciuto, e così l’arte. E la natura dolorante è la perfetta incarnazione di un’emozione a lungo messa a tacere: la rabbia delle donne.
La rabbia delle donne somiglia a un’esplosione, a un’eruzione vulcanica. Irrompe e squarcia, distrugge e terrorizza. La rabbia delle donne non è uguale a quella degli uomini: gli iracondi sono percepiti come virili e rispettabili, adatti a governare anche grazie al timore che incutono. La rabbia delle donne invece non regna, anzi: distrugge. In ogni mitologia corre, sottile e persistente, un sentimento che viene alle donne dall’essere limitate e punite, arginate e marginalizzate. In principio furono le Erinni, le Banshee greche, nate dal sangue di Urano evirato da Crono (ecco i primi fili comuni: il colore rosso visto da Munch, l’evirazione che simboleggia la paura di castrazione). Le Erinni sono femmine alate con la bocca aperta in un grido, serpenti al posto dei capelli, le mani impegnate a brandire tizzoni ardenti, torce, fruste o altri oggetti contundenti e punitivi. Creature della Notte, agiscono un’eterna vendetta: se qualcuno ha ucciso un familiare, sono loro a vendicarlo. Come le cugine irlandesi, non sopportano la perdita, e da questa somiglianza capiamo che a tutte le donne, nei secoli e nelle diverse culture, è stato assegnato un ruolo preciso, ribellarsi alle ingiustizie, a costo di sembrare pazze o andare contro il potere. La rabbia femminile si mischia al dolore, viene dagli orli di società dove le regole sono scritte dagli uomini. È una rabbia che incarna la denuncia e il coraggio, accetta la solitudine e rischia la follia: come Antigone, sono le donne a portare la vita dentro le leggi, a contrapporre il cuore all’aridità. A venire chiamate in causa quando si tratta di vendicare, seppellire, cercare nuovi spazi di disobbedienza. La rabbia delle donne viene dall’impotenza, che è il contrario del potere. Viene dal bordo dove sono state relegate e da lì tuona, e demolisce.
Quanto ai maschi, i più illuminati hanno imparato a raccogliere e raccontare la forza di quell’urlo. Eschilo dà vita alle Erinni, mentre Omero nel dodicesimo canto dell’Odissea narra la furia di Scilla e Cariddi, ninfe diventate mostri, punite per superbia e per gola, ovvero rispettivamente per aver rifiutato un pretendente sgradito e per aver mangiato per sbaglio i buoi di Gerione. Le due ex ragazze, trasformate in creature orribili e – anche loro – urlanti, passano il tempo a spaventare i marinai e distruggere le imbarcazioni: ma come dar torto a quella rabbia? Sono donne private della libertà, prima ancora che della bellezza. Donne che hanno imparato a picchiare per difendersi dal male che gli altri hanno fatto loro, come Uma Thurman in Kill Bill, icona delle figure mitologiche vendicative di tutto il mondo. O come Lisbeth Salander, l’hacker protagonista di Millennium, la trilogia di Stieg Larsson, che sa bene chi salvare e chi uccidere, e non si lascia scalfire dai sentimenti, che renderebbero la sua ira incontrollabile. Già, perché il confine tra la donna rabbiosa e la donna isterica è labile, ed è tracciato dagli uomini. La maggior parte degli aforismi o dei ragionamenti sulla rabbia sono di uomini. A loro è permesso parlarne senza essere bollati portatori di quel “violento male che viene dall’utero”, per usare le parole del filosofo Celso. Alle donne che dicono la verità a costo di essere scomode e sfidano la giustizia a costo di essere giustiziate, nessuna medaglia può essere riconosciuta. La loro legittima rabbia dev’essere trasformata in qualcosa di ammaliante e mostruoso, demoniaco almeno quanto la seduttività involontaria della bellezza. Se così non può essere, allora quella donna dev’essere medicalizzata, curata. Un’isterica è spesso una donna la cui causa di rabbia non è stata riconosciuta come dignitosa: per lei gli uomini hanno inventato un’offesa precisa, che va dalla ridicolizzazione alla reclusione. La rabbia delle donne, però, ha imparato a resistere, è diventata mutevole e imprendibile. La caratteristica più bella dei femminismi contemporanei è la capacità che hanno le ragazze di oggi di non vergognarsi dei soprusi che subiscono, di non tacere più. La rabbia è uscita dalla mitologia ed è diventata organica, uno strumento di resistenza quotidiana attraverso la denuncia virale. È una rabbia creativa, combattiva in modo quasi festoso: come se quella natura ritratta da Munch avesse smesso di piangere e si fosse messa a lottare.
La prosa della scrittrice in questo commento ha molti pregi, nel suo solido impianto argomentativo, fatto di numerosi esempi. Tuttavia vi proponiamo di intervenire sul testo per renderlo leggibile anche da chi ha un livello di istruzione molto basso.
Vi proponiamo cioè di intervenire sul testo in modo che il suo punteggio di leggibilità (qui 48/100) migliori sensibilmente. Non occorrono grandi interventi, perché la prosa dell’autrice è cristallina, basta lavorare un po’ sul testo: è piuttosto lungo (938 parole) e non è suddiviso in paragrafi; c’è qualche frase piuttosto lunga; ci sono diverse forme passive. Intervenite su questi aspetti e calcolate infine il vostro punteggio col servizio online offerto da Web&Multimedia.
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