La lunga notte di Sarajevo

La lunga notte di Sarajevo. Corsivo di Domenico Quirico. La lezione del secolo breve: la distruzione della città, non più luogo di ricchezza e libertà, ma crudeltà e distruzione. Che cos’è il coraggio? e la resistenza passiva? Sarajevo nel secolo breve. «Ma quanto è lungo il martirologio delle città uccise: Mogadiscio, Beirut, Grozny, Aleppo, Homs, Mariupol. E già si affaccia un nuovo, sanguinante, fantasma ucraino, Bakhmut».  

Se cercate di sapere cos’è la guerra, leggete questo corsivo. È su La Stampa del 17 marzo 2023. 1.185 parole. Tempo di lettura 7 minuti


Sarajevo: a questa città si va incontro, come in pellegrinaggio. Perché dentro c’è tutto, i resti di imperi defunti come quello asburgico e quello turco e nuovi stati ritagliati da furiosi nazionalismi, le eredità di due guerre mondiali e della guerra fredda, le vibranti idee del diciannovesimo secolo e l’ottuso socialismo reale del ventesimo, le tangenti e le trasversali tra est e ovest, il capitalismo goloso e il comunismo sprofondato in sé stesso. Quattro anni di assedio, sedicimila morti: che altro dire, non vi basta? Volete anche l’odore e il colore del sangue? Qui c’è il materiale capace di cogliere lo spazio ma anche la fuga del tempo, di imporre la Storia alla geografia, capace di restituire tutto con una terribile accelerazione. 

Il cimitero del leone di pietra, che scivola giù, inghiotte la collina… non più lapidi di marmo a forma di turbante per i maschi, coniche per le donne: i morti sono troppi, solo pezzi di legno conficcati in terra con i nomi vergati frettolosamente… E ancora… ancora… i morti conquistano lo stadio dall’altro lato della strada, si gratta appena la terra ghiacciata con la pala… nessuna cerimonia … lacrime che si asciugano con la manica… i cecchini amano ferire perfino la terra dei morti per ingannare il tempo mentre danno la caccia ai vivi… una ragazza bella, esile, flessuosa corre in una strada, a perdifiato, per giocare la roulette della vita con gli sniper… vicino al ponte dove Princip fulminò nel 1914 l’arciduca e il destino d’Europa… Markale, il mercato della strage levigato come un obitorio rimasto senza cadaveri… Questa è una delle città il cui corpo è stato calpestato dall’elefante della Storia: rifletto guardando le aspre fotografie di Paolo Siccardi per la mostra La lunga notte di Sarajevo, fino a domenica alla Cittadella di Torino, nata dalla collaborazione tra la curatrice Tiziana Bonomo e l’associazione La porta di vetro per riflettere su eventi della storia contemporanea. 

A Sarajevo, tra il 1992 e il 1996 noi europei abbiamo imparato a fare i fatti nostri, come suggeriva Voltaire, massimo pensatore della mediocrità umanitaria: «Orsù, limitiamoci a coltivare il nostro giardino». Una indifferenza ipocrita che abbiamo poi messo a profitto in molti luoghi. Sarajevo nel declinare del secolo breve… ma quanto è lungo il martirologio delle città uccise: Mogadiscio, Beirut, Grozny, Aleppo, Homs, Mariupol. E già si affaccia un nuovo, sanguinante, fantasma ucraino, Bakhmut. 

Di queste città, anche quando in qualche modo rinascono, vorresti parlar sempre per tramandarle come erano, dolci e feroci, ricche e miserande, è la nostalgia di cui son fatti i miraggi. 

Non a caso la poesia è iniziata con un assedio lungo dieci anni. L’Iliade è una successione di massacri, ma, in quanto poema mirabile, appare non come barbarie ma come qualcosa di eroico e di epico. Oggi non sono più assedi; le mura con un dentro e un fuori, le sortite, gli assalti. Alle città è riservato qualcosa di più terribile: la città che diventa guerra all’interno di sé, gli offre palcoscenico e comparse ma per farsene divorare, si tende come un corpo vivo sotto le cannonate, è smantellata pezzo a pezzo. In una minuziosa lobotomia di cemento e di pietra gli uomini comuni vivono e muoiono banalmente, senza eroismi. 

Ecco: Sarajevo avrebbe dovuto insegnarci che la Crudeltà stava per diventare il tema del tempo in cui viviamo, le città come luogo di crudeltà divorante in cui l’individuo è trasceso da qualcosa più grande di lui. Si consuma lì, tra strade, palazzi e monumenti, infinite silenziose topografie di vite umili, ignote, il momento in cui la soggettività si dissolve. Nel luogo simbolo della esaltante avventura umana, replica e sfida alla Natura, trionfa l’accettazione della crudeltà come figura del reale, davvero al di là del Bene e del Male. 

Sì, al terzo millennio incombente era già stata strappata la maschera. Sarà questo il secolo delle città trucidate e crudeli, in cui dove prima era pura geometria razionale tutto diventa il suo contrario, contraddizione, violenza, disordine, cesura: una scia di crimini spiccioli e collettivi, terrore e bombe, rovine e cielo, vociare e silenzio, buio e luce. L’antica idea del corpo suppliziato si estende alla città, che torna a essere luogo minerale: squarci anneriti, merletti bruciati, avanzi polverosi. 

La città per lungo tempo ha reso liberi, cancellava con l’atto stesso di superarne le porte, vincoli e servitù. Ora si cerca disperatamente di fuggirne dopo che la guerra le invade; è prigione, vincolo, cimitero. Dove camminavi baldanzoso, ora strisci, corri, ti pieghi per sfuggire al cecchino pestifero, vero dio maligno nel suo tempio crudele. L’unico luogo sicuro sono le sue viscere, il rovescio buio, la metropolitana, le cantine, gli immensi sotterranei degli stabilimenti industriali. La città che aveva cacciato la notte, dove la luce grondava come un miracolo permanente, dove si viveva senza interruzione, ora, pezzo a pezzo, ripiomba nel buio. Con tenebre affatto nuove, diverse che imprimono ai quartieri una aria di decrepitezza. La riportano indietro, la sprofondano nel passato. 

La città era simbolo della ricchezza. Diventata campo di battaglia, è povera, miserabile. Si vaga alla ricerca di acqua e di pane, si vegeta per mesi, per anni su questa cosa brutale che è la guerra. La gente si rannicchia via via nei quartieri ancora intatti, come sotto un ombrello nell’uragano. Assiste ogni giorno alla distruzione di ciò che è creazione dell’uomo come sotto i colpi di antiche vendette divine. Tra le trincee di macerie non esisti neppure se fai paura. Il disegno razionale della battaglia si sfilaccia, gli eserciti non danno prova di crudeltà efficiente, solo di una ferocia spicciola, frustrata, senza esiti evidenti. Si uccide e si muore come in una rissa cieca. Nulla vi è più di sicuro, ora tutto è pericolo, agguato, incertezza. Ci si abitua a questa vita scandita dai colpi di cannone, rombi lontani che fanno vibrare l’aria e colpi secchi vicini, onde sonore che ancor più fanno tendere l’orecchio verso l’orizzonte. 

Da Sarajevo a Mariupol l’unica risorsa degli uomini è quell’eccesso negativo che è il dolore. Nelle città travolte dalla guerra il coraggio di resistere è nella passività, che è ben diversa dalla rassegnazione. È la rinuncia a una identità soggettiva, la dissoluzione dell’io, consentire completamente a ciò che accade. Il contrario della vigliaccheria non è la volontà ma l’abbandono a ciò che sopraggiunge. Domando: una pazienza umana o disumana? Non vi è dentro qualcosa di minaccioso? Forse non c’è alternativa. Solo così nella carneficina non si diventa cattivi, si resta umani.

Guida alla lettura

Vi proponiamo diverse possibilità di lettura.

  1. La prosa di Domenico Quirico è sempre affascinante: analizzate le coppie del primo paragrafo (imperi defunti/nuovi stati; furiosi nazionalismi…). Il secondo paragrafo è un caleidoscopio di immagini: quali e quale mostra cita? Poi lo sguardo dello scrittore si alza e non vede solo Sarajevo: vede anche le città distrutte nel Novecento: quali? a quali eventi storici fa riferimento? Vede l’estrema crudeltà del presente e lo contrappone al passato: cosa rappresenta la città? e com’è ridotta la città? Quale idea di “coraggio” emerge?
  2. Dice Domenico Quirico: «A Sarajevo, tra il 1992 e il 1996 noi europei abbiamo imparato a fare i fatti nostri, come suggeriva Voltaire, massimo pensatore della mediocrità umanitaria». Siete d’accordo con questa interpretazione del Candide di Voltaire?
  3. Vi suggeriamo altri due articoli (li trovate sul nostro sito) di Paolo Rumiz che sviluppano quest’idea dell’allontanamento dell’Occidente dai suoi ideali fondativi. Fatene una comparazione. Paolo Rumiz dice che a Sarajevo «Noi, l’occidente, abbiamo accettato il principio aberrante che in Serbia possano vivere solo i serbi, che in Croazia solo i croati ,… e oggi accettiamo che in Russia possano vivere solo i russi? che Ucraina possano vivere solo gli Ucraini? Oggi stiamo zitti. Incapaci di comprendere cosa stia accadendo» (L’identità etica della nazione), e prosegue: «trascuratezza dell’idea europea come progetto di culture comuni. Questo lascia spazio ai nazionalismi che si nutrono di memorie vendicative, intossicate, prigioniere dei propri torti, di quelli subiti e non di quelli fatti» (Nazionalismo e memorie tossiche).