L’ambiguità folgorante della luce, e di Robert Oppenheimer.
Al suo primo studente a Barckley Oppenheimer insegna proprio questo principio della fisica quantistica: la luce è allo stesso tempo particella e onda. Così è per ogni cosa, per la luce, ma anche per un uomo, o per il film che lo racconta.
L’ambiguità. È questa la caratteristica più evidente del folgorante ritratto che Christopher Nolan dedica a J. Robert Oppenheimer nel suo ultimo film: potente, complesso, polifonico, stratificato. Ma anche sfuggente, visionario, problematico, spiazzante. Fin dalla frase in esergo, Oppenheimer è rappresentato come un Prometeo dalle mani insanguinate: uno scienziato che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini rendendosi conto solo in un secondo momento che le sue scoperte scientifiche sarebbero state usate come armi di distruzione di massa. Colpa sua? O colpa del potere? “I dilettanti – si dice nel film – cercano la luce e si bruciano. Il potere rimane nell’ombra”. Oppenheimer sul piano umano è un dilettante. Cerca la luce. Dovrebbe sapere – lo insegna al suo primo studente – che la luce ha una doppia natura, sia ondulatoria che corpuscolare, sia particella che onda. È l’esempio che serve a Oppenheimer per spiegare il principio fondamentale della fisica quantistica: una cosa può essere se stessa e anche qualcos’altro, nello stesso momento. È così per la luce, ma si potrebbe dire una cosa analoga anche di un uomo, o del film che lo racconta. Leggi di più
L’uomo – Oppenheimer – è geniale e ingenuo al tempo stesso. È timido e arrogante. È un eroe e al tempo stesso un potenziale criminale. Vive dentro la dicotomia per cui il suo trionfo scientifico implica la più devastante catastrofe umana della storia. Anche Nolan si dibatte dentro polarità contrastanti: è al tempo stesso un biografo innamorato del suo personaggio e un giudice severo delle sue scelte e delle sue azioni. Un giudice severo con l’America, che pure ama. E con l’umanità tutta, di cui fa parte.
Scivolando avanti e indietro nel tempo, lungo i tre livelli temporali su cui si articola il racconto (1942, 1954, 1959), Nolan inscena un potentissimo apologo sulla fatale attrazione dell’umanità per la propria autodistruzione. Perché questo è al fondo “Oppenheimer”: un’immersione in apnea dentro un buco nero in cui creazione e distruzione coincidono, dentro un enigma più oscuro di “Tenet”, dentro un grumo cosmico-concettuale più denso di quello di “Interstellar”.
L’Oppenheimer di Cillian Murphy è ossessionato fin dall’inizio dai mondi reali ma non visibili che la fisica gli ha fatto intuire, permettendogli di andare oltre i limiti della nostra percezione sensoriale (“Tu vedi oltre il mondo in cui viviamo. C’è un prezzo da pagare per questo”). Sono quei mondi che tanti artisti hanno esplorato con altri linguaggi: T.S. Eliot con le parole, Picasso con la pittura, Stravinsky con la musica.
Oppenheimer agisce come loro, Nolan anche: scompone e riassembla. Spezza la logica lineare-progressiva del racconto. Orchestra uno spartito dodecafonico di parole. Cerca di far capire che un film, come la luce, può essere una cosa e al tempo stesso il suo opposto: un blockbuster e un film d’autore. Un biopic e un film processuale. Un film d’azione in cui non succede nulla e un film teorico in cui succede l’evento più rilevante nella storia dell’umanità negli ultimi secoli. Insomma: un congegno audiovisuale esplosivo. Una danza macabra con i fantasmi dell’indicibile apocalisse di Hiroshima e Nagasaki. Dopo l’esperimento nucleare di Trinity (la prima esplosione atomica della storia, avvenuta il 16 luglio 1945 nel deserto di Los Alamos, in uno spazio allestito da Oppenheimer come un set, mentre tutti i collaboratori esultano e gioiscono per il risultato raggiunto, all’improvviso la musica tace, la scena piomba in un silenzio surreale e minaccioso, i volti dei personaggi continuano ad aprire la bocca ma non emettono alcun suono ed è in quel momento di sospensione, di surplace percettiva, di azzeramento acustico, che Oppenheimer si porta le mani alle tempie, abbassa le palpebre e vede (vede?) l’orrore, vede (prevede?) volti che si decompongono, pelli che si sfaldano, corpi che implodono, vede l’annuncio dell’apocalisse nucleare che egli stesso ha progettato. Lì il film cessa di essere solo un artefatto finzionale, vola oltre il perimetro dello schermo e diventa un gesto creativo intriso di lungimiranza storica, etica e politica. Lì la minaccia dell’autodistruzione (o dell’autoestinzione della specie umana…) risuona sinistra e letale.
Viene in mente Sting e il suo Russians: “How can I save my little boy from Oppenheimer’s deadly toy”: come posso salvare mio figlio dal giocattolo mortale di Oppenheimer? Sting la cantava nel 1985, quando ancora c’era il muro di Berlino. Ma la minaccia torna oggi più attuale che mai. Impossibile non pensare a ciò che accade in Ucraina: ma ricordando che “Tenet”, tre anni fa, iniziava con un assalto – guarda caso – proprio al Teatro dell’Opera di Kiev. Nolan era già lì. L’arte e il cinema, a volte, vedono oltre. Vedono prima. E consentono, se lo vogliamo, di vedere prima e oltre anche a noi.
Guida alla lettura
Il tema posto dalla recensione di Gianni Canova è l’ambiguità. Questo vocabolo è progressivamente messo a fuoco man mano che la recensione si sviluppa. Che significa “ambiguità”? quali significati assume nel discorso di Gianni Canova? Provate a completare la mappa concettuale che vi proponiamo.
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