L’immagine pubblica della scienza

L’immagine pubblica della scienza. È possibile formare un’opinione pubblica informata, capace di distinguere la correttezza di un ragionamento, consapevole dei limiti della scienza?Il delicato tema del rapporto tra scienza e democrazia. Recensione di Alberto Peruzzi al saggio di Marco Salucci, Dalla mela di Newton all’Arancia di Kubrick. Mele e arance hanno diverso sapore, com’è noto. Il titolo del saggio allude con la mela all’atteggiamento di chi ha verso la scienza estrema fiducia, mentre l’arancia rappresenta all’opposto l’estrema sfiducia nella scienza.

La recensione è pubblicata su La Stampa in Tuttoscienze del 10 agosto 2022. Su ItalianaContemporanea il testo è pubblicato nella pagina “La scienza“. Il testo consta di 1283 parole, tempo di lettura circa 6 minuti.


Mele e arance hanno diverso sapore. Il titolo del libro “Dalla mela di Newton all’Arancia di Kubrick” si riferisce a una mela e un’arancia che hanno sapore opposto. La mela allude al progresso reso possibile dalle applicazioni tecniche della ricerca scientifica, l’arancia allude agli impieghi amorali del sapere, che possono portare alla distruzione dell’umanità. Su questi impieghi Stanley Kubrick aveva richiamato l’attenzione già nel “Dottor Stranamore”, del 1964, dunque prima di “Arancia meccanica”, il film del 1971 ispirato al romanzo di Anthony Burgess. Dunque, i due frutti corrispondono ad atteggiamenti opposti verso la scienza: estrema fiducia ed estrema sfiducia.

La gamma di posizioni fra i due estremi è oggetto del saggio pubblicato da “thedotcompany edizioni” e scritto da Marco Salucci, uno dei maggiori esperti italiani di filosofia della mente, che esce dal suo specifico campo di ricerca per affrontare una serie di questioni che riguardano la scienza e l’immagine che tante persone ne hanno. Non vi dico quali sono, così vi resta la curiosità, ma sono questioni filosofiche, che alcuni miei amici scienziati disdegnano oppure affrontano in maniera näif, mentre alcuni miei amici filosofi le venerano, ritenendole scientificamente insolubili. Sono questioni che si lasciano esprimere in parole comprensibili da tutti e proprio per questo ingannano, perché fanno pensare che in proposito ognuno possa dire la sua senza bisogno di alcuna preparazione scientifica.

A molti non piace l’idea che per affrontare simili questioni si debba sapere un bel po’ di cose: è una minaccia al loro diritto all’ignoranza. Salucci documenta le sciocchezze cui una simile presunzione conduce e, per alleggerire il discorso, ricorre a un espediente: ogni questione è introdotta a partire da un brano di narrativa o dai versi di una poesia, in qualche caso da un fumetto o da un film. L’idea non è quella di portare chi legge a pensare “Ma guarda un po’! Interessante. Quanti punti di vista diversi!”. E neanche si vuole puntare a facili risposte emotive. Chi legge si trova di fronte piuttosto ad argomentazioni serrate che lasciano poco spazio alle conferme delle intuizioni, dei sentimenti, delle visioni-del-mondo, il cui campionario è mirabilmente colto dai grandi scrittori.

Perciò il sottotitolo del libro – “La scienza spiegata con la letteratura” – è fuorviante. In particolare, non è alla letteratura che Salucci si richiama per denunciare l’immagine superficiale che della scienza alcune ideologie hanno veicolato, cioè, come qualcosa al servizio del potere, di modo che alla “scienza ufficiale” bisogna contrapporre la vera scienza, oppure bisogna ridurre la scienza a tecnologia, per rivolgersi invece a chi già possiede le risposte alle domande che più contano. Ma la nostra non dovrebbe essere considerata un’epoca scientifica?

Be’, lo stesso pensavano gli illuministi e l’Expo di Parigi del 1900 lo fece pensare di nuovo a tanti. Allora come oggi l’idea di essere in un’epoca scientifica conviveva con atteggiamenti pseudoscientifici e antiscientifici. La differenza è che i nuovi media consentono di diffondere questi atteggiamenti con maggiore rapidità; però, anche senza un tribunale dell’inquisizione, l’ostilità al sapere che si esprime in formule, il disagio (che diventa rancore) verso la competenza, l’accusa di presunzione agli scienziati… ci sono ancora come ai tempi di Galileo. Semmai, l’analfabetismo funzionale è maggiore rispetto al passato, perché la crescita delle conoscenze richiesta per capire gli oggetti che usiamo ogni giorno comporta ostacoli maggiori da superare.

Salucci parte da una citazione tratta da una conferenza di Richard Feynman, le cui splendide lezioni (“La fisica di Feynman”, Zanichelli) fu il testo che Giuliano Toraldo di Francia mi consigliò di leggere quand’ero poco più di una matricola. Feynman si poneva appunto la domanda se la nostra è un’epoca scientifica o no e rispondeva che, certo, lo è, se guardiamo alle applicazioni tecnologiche di cui ci serviamo ogni giorno, ma proseguiva osservando che “se intendiamo che oggigiorno la scienza svolge un ruolo nella visione del mondo della gente, ebbene, in tal caso, quest’epoca ha ben poco di scientifico”.

Salucci si richiama a una serie di risultati delle scienze cognitive per indagare i meccanismi mentali che favoriscono il persistere di atteggiamenti irrazionali e mette in luce due tipi di difficoltà: in primo luogo, la difficoltà a capire il linguaggio scientifico (l’imputato ovvio è la matematica) e a superare la collisione fra credenze di senso comune e spiegazioni scientifiche; in secondo luogo, la difficoltà a comunicare efficacemente il sapere a chi ne è digiuno ed è facile bersaglio di quelli che sfruttano le tecnologie di rete per fabbricare dubbi sulla scienza. Del resto, basta guardare a quel che succede nei talk show: il contesto appiattisce le differenze tra mere opinioni e conoscenze: “uno vale uno”.

Ci troviamo di fronte a un fallimento dei sistemi d’istruzione in campo scientifico… e non solo? Spesso verrebbe da pensarlo, ma non è quel che Salucci vuol indurci a pensare. Né propone come rimedio una visione complessiva, capace di abbracciare tutto quanto – voglio dire: la cultura scientifica e la cultura umanistica – un sogno per anime belle, che non farà mai in tempo a realizzarsi, perché nel frattempo la molteplicità dei saperi avrà già delineato nuovi orizzonti. L’ottusità specialistica non si supera con una visione d’insieme, fatalmente approssimativa, ma con la focalizzazione delle questioni che riguardano i fondamenti delle singole discipline e con la comprensione degli specifici legami fra un’area di ricerca e un’altra. (Si chiama transdisciplinarità, non interdisciplinarità.) Quindi niente “cultura della complessità” e niente appello (consolatorio) a un “nuovo umanesimo”.

Salucci adduce solidi argomenti per prendere le distanze sia dalla mitizzazione della scienza sia da ogni ricettario metafisico che pretenda sfornare risposte definitive (alle grandi domande cui la scienza, poverina, non dà risposta) e mette in guardia da forme religiose di ecologismo che relegano in un cantuccio la specie umana, brutta e cattiva, così come dalle nebulose teorizzazioni del “post-umano”. La lezione che ne trae fa tornare in mente quella di David Hume: è l’invito a una cautela che sfuma nello scetticismo, quando Salucci affronta temi etici.

Il quadro che emerge dai sette capitoli del libro ha a che fare con il delicato rapporto fra scienza e democrazia, che, spesso, capita di vedere affrontato in termini vaghi. In alcuni libri usciti negli ultimi anni potreste leggere che questo rapporto è di perfetta armonia, se non di identità. Salucci, invece, si preoccupa di mettere in chiaro alcune differenze tra i modi di procedere della comunità scientifica e della comunità dei cittadini di una democrazia e osserva: “La qualità di entrambe dipende dall’esercizio della razionalità, del pensiero critico e della preparazione dei suoi membri”. Un punto che mi ha ricordato le parole di Giulio Preti, quando nel 1957 prospettava una “cultura democratica” nutrita di atteggiamento scientifico.

“Esortare all’uso della ragione non basta”, scrive Salucci. Giusto, com’è giusto che bisogna tener conto “degli aspetti non razionali degli esseri umani”. Se no, mi chiedo, che razionalità sarebbe? D’altro canto… la democrazia, come scriveva Albert Dicey nel 1905, è il governo dell’opinione, non della conoscenza e neanche della razionalità. E allora? Questo ci esime forse dal compito di favorire un’opinione pubblica informata, allenata a distinguere un ragionamento corretto da uno scorretto e cosciente del fatto che la scienza non offre certezze definitive? Non ci esime, anche se sappiamo che potrà non bastare. Qui è l’idea tradizionale di cultura, come qualcosa di esclusivamente appartenente alle humanities che è da rivedere e Salucci fa bene a metterlo in risalto. Stesso discorso anche per quell’affare che si chiama “filosofia” e in particolare per l’etica.

Molte pagine del libro entrano nel merito e lo fanno con un’esemplare acutezza, anche se per carattere sarei portato ad avere più fiducia in quello che chiamo “contagio di razionalità”, mentre Salucci è guardingo, ma per chiudere mi permetto di dirgli che, se si rivolge a qualcuno in questo libro, è qualcuno che dà valore alla razionalità.

Guida alla lettura

  • È una recensione, dunque la struttura logica è in due blocchi di cui uno informativo: individuatelo e riportate tutte le info che vi dà. Vi permette, se siete interessati, di recuperare il saggio?
  • Come valuta il recensore il sottotitolo? e quali sono le ragioni che adduce per sostenere il suo giudizio?
  • Il tema centrale del saggio, secondo il recensore, è «il delicato rapporto fra scienza e democrazia».
  • Da questo discendono:
    • le considerazione sul diffuso e persistente atteggiamento antiscientifico: riassumete quanto dice il testo su questo;
    • le differenze tra il modo di procedere della comunità scientifica e quello della comunità civile: riassumete anche qui quanto potete ricavare dal testo;
    • Il rimedio NON È nell’armonizzazione tra cultura scientifica e la cultura umanistica – un sogno per anime belle, lo definisce- perché? quali ragioni adduce?
  • Quale via di condotta è proposta come soluzione al problema di avere un’opinione pubblica razionale e consapevole?