L’inflazione dell’io. L’inflazione dell’io disgrega la societas. Sebbene il “noi” non scompaia, perde tuttavia il suo valore universale e designa piuttosto il clan.
L’inflazione dell’io
Dialogo tra Massimo Ammaniti e Vito Mancuso pubblicato su La Stampa del 6 giugno 2022. Il testo di 1.728 parole richiede 9 minuti circa di lettura.Leggi di più
Massimo Ammaniti. Caro Mancuso, il bisogno di ricostruire, di cui ha scritto su questo giornale, porta con sé anche il desiderio di una nuova costruzione. Elliott Jacques, psicanalista, diceva che ogni costruzione o ricostruzione deve avvenire all’interno di una cornice, che poi genera e consente una discrezionalità. La cornice, però, si oppone alla fluidità, che è il principio di realtà della nostra vita attuale. Tutto è fluido. Pensi ai partiti politici, che prima erano strutture più o meno monolitiche, con un elettorato altrettanto monolitico e anche inconsistente, che si muove da una parte all’altra.
Vito Mancuso. Sa che, più che di un desiderio, parlerei di un bisogno di ricostruzione? Lo avverto innanzitutto dentro di me e poi anche fuori, tra le persone che frequento, e avverto anche che si accompagna a una paura della disgregazione, del tramonto, della fine. Una paura che si agitava dentro di noi prima del covid e anche prima della guerra, e che adesso abbiamo cominciato a manifestare. Ciò che occorre ricostruire è la società, intesa come societas, insieme di soci, e quindi anche di comunità. Ho l’impressione che fino al passato recente entrambe le cose stessero in piedi, perché c’era una volontà di mantenerle salde: i vicini erano vicini non solo nel senso fisico ma anche nel senso psichico. Lei parla di partiti: erano case della mente, così come lo erano le chiese. E davano appartenenza. Ora neanche le squadre di calcio la danno. Lei conosce senz’altro il lavoro del professor Stefano Bolognini, che è stato il primo psicanalista italiano a diventare presidente della società psicanalitica internazionale: mi racconta spesso che, anni fa, quando aveva cominciato da poco a fare il suo lavoro, i suoi pazienti erano in lotta contro la prevalenza del super ego, che generava complessi, angosce, paure e imponeva delle castrazioni. Adesso, invece, c’è il problema opposto: ristabilire il super ego, cioè qualcosa che sia superiore al senso spropositato dell’ego che, senza qualcosa di superiore, appunto, diventa un iper ego, sempre più in balia dell’es. Dico questo perché per ricostruire la società così come la intendo e cioè insieme di soci, dobbiamo sia ricompattare la singolarità umana sia ripristinare la fiducia in qualcosa che la superi, e che la guidi. Che questo qualcosa sia la politica, o la religione, o l’estetica per me non fa differenza: non ho tesi a riguardo. So, però, che una guida ci vuole. Un senso da inseguire. E come lei penso che tutto questo debba svolgersi all’interno di una cornice entro cui allacciare le cose: niente di vivo e strutturato, a partire dalle cellule, può stare senza una membrana. Nel suo saggio sull’Illuminismo, Kant diceva che si deve avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza e della propria ragione. Ecco, io penso che questo ritorno alla singolarità e alla dignità umana, che sono due cose pressoché coincidenti, debba ricondurci a considerarci come esseri pensanti: a ricordarci che siamo innanzitutto questo. Se potessi, dell’educazione e dell’istruzione non riformulerei le nozioni, quanto l’acquisizione della fiducia nelle capacità umane di pensare, sentire, percepire, ragionare. L’essere umano è senziente: è sapiens. Homo sapiens è l’etichetta che abbiamo dato alla nostra specie e, da qualche tempo, la usiamo per connotare quella che sembra essere la catastrofe peggiore del pianeta: ci pensiamo e raccontiamo come abitanti invasivi, crudeli, devastatori. Il pianeta si surriscalda e noi che siamo pianeta ci surriscaldiamo a nostra volta, e infatti ci aggrediamo e non siamo più capaci di cooperare.
MA. Riparto dal tema dell’inflazione dell’Io, che è una conseguenza del riferire tutto a se stessi, di ottenere e appropriarsi delle cose. Si vuole per sé, e non per gli altri. Il noi non scompare, ma si riferisce non più a una comunità, bensì a gruppi di complici diversi che lottano per affermarsi, in competizione con altri gruppi. Ciò che unisce, in questi ambiti, non è il mettersi nei panni dell’altro, tentando di comprenderne il punto di vista (insomma, non è l’empatia), bensì l’aggredire gli altri per difendere un interesse o un bisogno immediato del proprio clan. L’identità non si costruisce in relazione all’altro: l’egoismo individuale o del branco deve avere il sopravvento su tutto. Non credo che il Super-Io sia quello formulato da Freud, che è sempre meno presente come guida regolatrice e di richiamo: credo che il Super-io interiorizzi le regole sociali e i valori trasmessi dai genitori, così come credo che esiste un super io inconscio, crudele e sadico che può schiacciare l’io. Quest’ultimo esiste e viene trasferito sugli altri. La guerra in Ucraina ne è la prova e mi fa pensare a Sartre, quando diceva che l’inferno sono gli altri. L’ultima degenerazione della comunità umana. È difficile pensare a come ricostruire questo tessuto, perché è come se fosse un mosaico in cui le varie tessere non corrispondono più e ognuna forza l’altra per poter prendere spazio: è quello che chiamiamo narcisismo, che non è altro che l’altra faccia del senso di solitudine e di vuoto che fa nascere la paura verso gli altri, l’altra faccia di una società in cui vengono meno i legami comunitari. Non credo nei grandi cambiamenti, nelle rivoluzioni: credo che la sola possibilità di migliorare stia nel cambiare i comportamenti quotidiani individuali. Io curo gli oleandri che ci sono davanti al mio studio, anche se sono di proprietà del comune, perché altrimenti soccomberebbero all’incuria. Non è un mio compito, spesso vengo anche rimproverato da alcuni vicini, ma io sento che è mio dovere farlo, che devo salvare la bellezza. Ognuno deve testimoniare un modo diverso di vivere, riconoscendo e proteggendo la bellezza.
VM. Lei ha usato la parola empatia, che credo sia una delle cose che ci fanno umani. Eppure, mi sembra che più che empatia, ormai, proviamo antipatia. Nell’immediato, almeno, l’altro ci suscita un rigetto istintivo. Una prova lampante sta nella frequenza e nell’esasperazione con cui diciamo che, su questo pianeta, siamo tanti, troppi. Quando andiamo in montagna, invece, e incontriamo un altro essere umano, dopo ore di cammino solitario, siamo contenti: lo salutiamo persino con gratitudine e sollievo. Nelle nostre città sovraffollate, invece, quando incontriamo l’altro, o ci giriamo dall’altra parte, o ci sentiamo minacciati: abbiamo paura, quindi ci difendiamo. Io capisco il discorso del post umanesimo, persino di coloro che preferiscono l’intelligenza artificiale e si fidano più delle macchine che del fattore umano. Ci sentiamo più vicini a ciò che non è umano: alle piante, agli animali, che amiamo in contrapposizione agli uomini. Non amiamo gli oleandri perché sono belli, ma perché pensiamo siano migliori e meno deludenti degli altri uomini. Sperimentiamo la morte di Dio, o meglio la mancanza di una religio, nel senso latino. Non intendo biasimare il movimento di pensiero che ha portato alla morte di Dio, ovvero i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), perché era fisiologico abbattere la religione che spesso generava quel super ego negativo di cui abbiamo parlato prima. Quando parlo di ricostruire io non intendo in nessun modo restaurare. Ricostruire è una funzione a cui la religio può condurci, facendoci fare i conti con un’assenza: la mancanza, come dicevo, di qualcosa che ci sorpassa, ci trascende perché è più grande di noi, del nostro ego. Se riconosciamo, per esempio, che la legge costituzionale è più grande di noi, di tutti i nostri interessi, facciamo in modo di ordinarci in base a essa, di obbedirle, perché la rispettiamo. È questo ciò di cui avverto la necessità: di un passo indietro per accogliere qualcosa di più grande. Ho evocato la riforma della scuola ma anche io, come lei, penso che la sola possibilità di cambiamento stia nell’azione quotidiana di ciascuno, eppure sento che su quel fronte dobbiamo fare: i bambini necessitano di qualcosa che la scuola non gli dà e, al contrario, la scuola dà loro molte cose di cui non sanno cosa farsene, e così si genera una frustrazione che li allontana dalla bellezza dello studio. La tracotanza del nostro tempo non è soltanto una reazione alla paura: è anche dovuta all’ignoranza: meno sappiamo, più crediamo di sapere. Abbiamo da poco celebrato l’anniversario della morte di Falcone: lui diceva che non conta tanto stabilire se uno ha paura o no, bensì saper convivere con quella paura senza farsi troppo condizionare. E questo è possibile se sappiamo riconoscere negli altri un esempio. Lei che cura un oleandro può essere d’esempio a qualcuno che può imitarla e generare così un circolo virtuoso. Io cerco nei classici un esempio e provo a seguirlo perché è il solo modo che conosco per evitare che mi si restringa il cuore, che il mio spirito si abbrutisca. Lei perché cura gli oleandri?
MA. Perché vedere l’abbandono e il degrado mi addolora profondamente. Credo come lei che gli atti dimostrativi servano a evocare una dimensione umana che viene talvolta calpestata. E, prima ancora, a vedere. Una signora una volta ha quasi travolto con la macchina, parcheggiando, gli oleandri: quando gliel’ho fatto notare, mi ha insultato. Non li aveva nemmeno visti, e di questo non si è dispiaciuta, non si è fermata a rifletterci. Se uno si abitua a non vedere, anche le sue capacità di percezione vengono meno e questa è una delle cose che più mi fa soffrire. È come quando al museo non si guarda l’opera ma ci si fotografa di fianco all’opera. Lei parla di religione e a me viene in mente “Il sogno come religione della mente”, il libro di uno psicanalista morto purtroppo qualche anno fa, Mauro Mancia: lui sottolineava che sin dall’infanzia dobbiamo costruire legami prima di tutto con la nostra famiglia che nascano da una sorta di religiosità interna a partire dalla quale si struttura il nostro sentire e il nostro vedere. Ho fatto molte ricerche in campo infantile e so che quando un bambino interagisce con la madre, anche nel primo anno di vita, si crea tra loro un ritmo, una musicalità: lì lui scopra la bellezza. Queste sono le cose che dobbiamo avere premura di trasmettere. Parlavamo di empatia: il meccanismo di “lui è come me” è alla base del riconoscimento dell’altro. Il neonato vede un’espressione dell’adulto e cerca di riprodurla: è la base dell’empatia, che è quindi qualcosa di cui siamo capaci sin dalla nascita. Per eliminare il bullismo basterebbe che la scuola facesse anche solo passare questo messaggio. Il bullo non vede l’altro o meglio lo vede opaco, quindi minaccioso: per questo lo colpisce e punisce. Perché ha paura di qualcuno che non vede.
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