Così mentre le sue compagne di corso si trastullavano con Facebook, la giovane donna di cui stiamo narrando studiava l’impatto dei social nella comunicazione pubblica con un’acribia degna del ricercatore più motivato. Aveva uno scopo ben chiaro in mente: entrare nel mercato della pubblicità in una posizione distinta.
Fino ad allora la pubblicità si faceva soprattutto in TV. In Italia della seconda metà degli anni Ottanta del XX secolo s’era andata consolidando un’azienda milanese che ormai nel 2008 era il dominus del mercato pubblicitario. Era così potente che il padrone di quell’azienda ebbe l’ardire di farsi eleggere prima in Parlamento, e poi, ambizioso com’era, fu nominato a furor di popolo capo del governo.Leggi di più
Era un’ascesa resistibile in realtà, ma pochi in Italia capivano la logica della pubblicità. Se l’avessero capita avrebbero anche trovato i mezzi per contrastarla.
Intanto l’azienda padrona di tutta la pubblicità, narrava agli italiani il suo modo di vedere i propri affari, perché non fu mai capace di elaborare una visione dell’Italia intera. Si limitava a presentare come “italiani” i suoi specifici interessi di crescita, della propria ricchezza, del proprio potere sempre più invulnerabile. In breve non è che questa azienda narrasse il falso, ma selezionava, manipolava, elaborava le info in modo da costruire un’unica narrazione: la propria.
Capite da soli che voler essere qualcuno in un mercato pubblicitario così monolitico era una sfida davvero molto risoluta. E la dice lunga sul carattere di quella giovane donna: era coraggiosa, ben preparata e capace di immaginare una strategia.
Anzitutto, scelse il terreno. Non certo la TV. Non avrebbe avuto nessuna possibilità. Ma si ritrovò per le mani Facebook che muoveva allora i suoi primi passi in Italia.
Facebook come tutti i social si fonda sull’incompetenza informatica e telematica dei più. Permette di accedere a internet senza avere un sito web, senza acquistare da un provider un indirizzo IP, senza acquistare un dominio, senza dargli un nome, senza avere una computer in casa che faccia da server web.
In realtà tutti questi “senza” se fossero “con”, darebbero pieno controllo sull’indirizzo IP, sul dominio, su tutto. Ma per la stragrande maggioranza delle persone queste azioni appena elencate in realtà sono al di là delle loro competenze.
È qui che interviene il senso degli affari, che intuisce una vasta platea cui vendere i servizi tecnici per essere in rete. Siamo alla fine degli anni Novanta, primi anni Duemila, e nascono le grandi piattaforme, dove basta registrarsi, e si può cominciare a pubblicare. All’inizio il servizio era semplicemente mandare messaggi sul proprio stato, poi è venuta la possibilità di caricare foto, di creare una rete di contatti, infine sono state stabilite regole sempre più raffinate su chi vede cosa. Morale, Facebook è parte importante della vita personale e professionale, culturale e politica di centinaia di milioni di persone nel mondo. Quindi Facebook e gli altri social, nati per facilitare il processo di pubblicazione on line, sono diventati invece strumenti potentissimi di comunicazione in tutti gli ambiti, da quello personale a quello politico.
La giovane donna di Milano s’inserì dunque in questo clamoroso processo. Il successo che ebbe dipese da una fortunata circostanza. La sua azione s’ingigantì proprio perché si trovò nella corrente impetuosa di sviluppo dei social, che moltiplicarono le sue forze, altrimenti insufficienti per entrare nel mercato pubblicitario e guadagnare le cifre elevate che voleva. Non era il tipo da accontentarsi di un buon reddito!
L’ambizione non fu la qualità peculiare solo di questa giovane donna. Ambiziosi in grado non paragonabile al suo furono i social. Tutti. Compresero di avere un potere enorme e invece di averne paura, e mettere le cose in modo da proteggersi, presero a fantasticare, perdendo il contatto con la realtà, la realtà dei sentimenti. È un aspetto dell’umano difficile, il sentimento, perché ha contorni sfumati spesso contraddittori, ma è molto forte e ignorarlo non è consigliabile. Un sentimento di amore per la libertà personale, di valutazione personale delle vicende del mondo c’è, e resiste nei cuori umani. L’ambizione di dominio dei social lo vorrebbe neutralizzare.
Il difetto più grave dell’ambizione è che non ha misura. L’ambizione smisurata è avidità. Dante le dà sembianze di una lupa:
«e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria».
E così, anno dopo anno, i social maturarono una crisi di credibilità che li espose a molte pesanti accuse: di non rispettare la privacy dei loro iscritti, di violare le leggi sul copyright, di usare i conflitti e i contrasti d’opinione per fare più iscritti, incuranti di seminare odio e cattiveria facendo a volte delle vittime. Insomma accuse gravi.
Gravi anche le accuse che la procura di Milano contestò alla giovane influencer: fece pubblicità ad un prodotto dal prezzo più caro della media, perché il ricavato sarebbe andato in beneficenza, ma in realtà, contesta il giudice, quel denaro prese altre strade: quelle dei suoi conti?
Questa storia de l’influencer mi ricorda quella del pifferaio magico. Una fiaba che mi ha sempre fatto paura. Il pifferaio dapprima ha un aspetto cordiale e colorato, ma è un tipo cinico: incantare topi o bambini per lui è uguale! Lavora per se stesso, il suo scopo è guadagnare il più possibile: incantare topi è business. In cambio di una bella somma il pifferaio promette di liberare la città invasa da topi famelici che divorano ogni provvista. La città è l’antagonista del pifferaio, ma il suo carattere è identico a quello del pifferaio: è avida e avara, e non sta ai patti: a lavoro finito, non paga ciò che era stato concordato e provoca la vendetta del pifferaio sui bambini della città. Perché è sempre chi non ha potere che paga per le colpe dei potenti.
Ma questa città e questo pifferaio non ricordano il mondo dei social e la giovane donna, influencer da milioni di followers? «Lui usava la musica (per questo era magico). Gli influencer usano una parola magica: condivisione. Condividono in diretta amori, figli, ristoranti, genitori, matrimoni, soprammobili di casa, malattie, premi, e performance varie. E, talora, in mezzo ci passano l’immagine di un jeans, di una crema antirughe o di un pandoro. È la nuova forma, geniale, della pubblicità: mescolare alle immagini il racconto di sé, della propria vita, delle proprie emozioni. L’influencer ci influenza perché condivide: non nasconde ma mostra, ostenta, non tiene per sé ma mette a disposizione, esibisce, include, coinvolge, spesso addirittura interloquisce rispondendo. Per questo ci caschiamo: perché lui ci fa sentire parte della sua vita». (1)
Come finirà? Il futuro non si conosce. Sulla sorte del pifferaio non scommetterei, “giusto giudicio” incombe su di lui. Ma potrebbe anche andargli bene. Scommetterei invece sulla città: eterno Leviatano, perpetuerà il suo vizio. Un pensiero mi consola: che l’eterno umano, e pur sempre umano, cioè alla fine destinato a scomparire.