L’ipocrisia è necessaria

Se oggidì dici a qualcuno, “sei un ipocrita”, costui nel migliore dei casi s’ingegna a dimostrare che non è vero, nel peggiore s’offende, ti mette alla gogna mediatica, magari mena pure. Invece questa benedetta ipocrisia che è stata un caposaldo della civiltà di corte, e poi borghese, bisognerebbe proprio riabilitarla.

Dell’onesta reticenza

Un intervento di Bruno Ventavoli nel dibattito sulla dittatura del politicamente corretto, pubblicato su La Stampa del 26 luglio 2023. Il testo di 1005 parole richiede 5 minuti di lettura. Leggi di più

L’ha fatto, per esempio, Stefano Bartezzaghi nell’intervista con Simonetta Sciandivasci su questo giornale domenica scorsa. Dice il semiologo: «Ci siamo convinti che le differenze siano attribuzioni inautentiche e, soprattutto, espressioni ipocrite. Invece l’ipocrisia andrebbe rivalutata: aiuta a separare gli ambiti». Insomma, nell’era digitale che ha fatto della brutale verità un valore assoluto, un orgoglio, un comportamento social-mente etico, ribadire che le differenze esistono e che talvolta sarebbe meglio ammorbidirle con un po’ d’ipocrisia è doveroso. 

Ma il problema è più complesso. La società liquida, virtuale, digitale che ha dichiarato guerra all’ipocrisia è in realtà più ipocrita che mai. Solo che usa l’ipocrisia in una versione rozza, politicamente corretta, velleitariamente ugualitaria, che nulla ha a che fare con l’ipocrisia saggia e virtuosa affinata da millenni di saggezza pretesca e cortigiana. Invece di “aggiustare” le contraddizioni della realtà, le nega. Insomma una tragedia ermeneutica. 

Prendiamo la voga modernissima che invita tutti a essere fieri del proprio corpo comunque esso sia. Ovvero la rivolta al bodyshaming. Si dice a chi non è portatore di una fisicità che sarebbe piaciuta a Prassitele (scultore greco del trecento avanti cristo che amava le forme perfette): «Vai bene così», «Sei perfett(schwa), devi essere fier(altro schwa) dei tuoi novantasei chili!». Non è forse questa ipocrisia subdolissima? E siamo davvero sicuri possa servire ad affrontare la crudeltà del mondo? Senza ipocrisia, credo proprio di no. (Io, tanto per dire: dopo aver rinunciato alla birra da venti giorni, sono appena sceso sotto i novantacinque chili e invoco da tutt(schwa) i colleg(schwa) un ipocrita apprezzamento ai miei addominali che premono sulla camicia). 

Il dizionario della lingua italiana definisce quel sostantivo femminile come una “simulazione” estendibile all’ambito morale, ai rapporti sociali, a quelli affettivi. Insomma a tutto ciò che è umano. Esistono ovviamente vari livelli di ipocrisia, come tante sono le gradazioni del grigio per passare dal bianco al nero. Dal bene al male. Dal giusto allo sbagliato. E una modica quantità di “simulazione” rende le differenze più accettabili. Prendiamo la politica o la vita sociale. Oggi la democrazia si esercita, oltre che nel parlamento istituzionale, nei vari parlamenti surrogati dei talk show televisivi o dei social. Naturalmente è sommamente ipocrita rispettare l’avversario, che in cuor proprio si vorrebbe vedere silenziato, mandato a casa degli elettori, e perché no?, anche a qualche mesetto di confino. Eppure sarebbe bello vedere gli avversari che non si insultano con la bava alla bocca! Un’umile dose di ipocrisia obbligherebbe tutti, conduttor(schwa) compres(schwa), a usare il condizionale, a tenere toni di voce bassi, a esercitare una forma moderata di dissenso… tipo: «La tua tesi è rispettabile però non la condivido, e quindi suggerirei… eccetera». Una distopia del genere nella nostra politica televisiva non solo sarebbe esteticamente favolosa, ma migliorerebbe il dibattito delle idee. 

Saltando di palo in frasca. Un topos della medicina moderna è la verità a tutti i costi. Vai dal medico che tira fuori le tac, e con voce impersonale, dando una furtiva occhiata al cellulare prima di silenziarlo, dice: «Hai il cancro, purtroppo c’è poco da fare, al momento la scienza medica non ha farmaci adeguati». Il paziente deve essere informato, sostengono. Giusto. Perché magari il poveraccio lotta contro il destino e sappiamo che la mente umana ha risorse incredibili. Ma in certi casi non c’è nulla da fare. La statistica dice che al 99,9 per cento il paziente è spacciato. Fra un paio di mesi se ne va al creatore. Domanda ipocrita: non sarebbe meglio in questo caso usare un po’ di ipocrisia e far finta di niente, di modo che il morituro passi le ultime settimane di vita senza fare il conto alla rovescia, ogni istante, di quanto resterà su questa Terra? La risposta ovviamente non è univoca, dipende da persona a persona. C’è chi vive con coraggio la propria malattia mortale. C’è chi, invece, come don Abbondio, il coraggio non ce l’ha e avrebbe bisogno di tanta ipocrisia per tirare avanti. La verità a tutti i costi non è virtù. È un falso pregiudizio. Talvolta la menzogna onesta è, di gran lunga, moralmente superiore alla verità frettolosa. 

Si potrebbe andare avanti con migliaia di esempi, dal tradimento coniugale ai complimenti sul lavoro, al corteggiamento, alle telecronache, ai migranti, all’effetto serra, ai premi letterari (a proposito: lo Strega è un premio ipocrita?). L’ipocrisia, come sapeva Torquato Accetto, quel raffinatissimo conoscitore della mente umana riscoperto da Croce, è un’arte del comportamento che rende la vita migliore. È l’uso sapiente della menzogna a fini nobilissimi, quali sono il benessere collettivo, la pace, l’armonia. Nel suo Honesto trattato spiegava che «Il dissimulare è un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo». Insomma, la verità, certe volte, è meglio lasciarla riposare un attimino prima di sbatterla in faccia al mondo con un tweet. 

Nella nostra italica cultura abbiamo elaborato una meravigliosa arte dell’ipocrisia, dai gesuiti che trattavano le questioni dell’anima, a Machiavelli che insegnava come sopravvivere nel risiko dei principati, a Giovanni della Casa che insegnava come cavarsela in società con il Galateo. Wimbledon impone a tutti di indossare il bianco uniforme. Sembra una follia nell’epoca in cui l’abbigliamento sportivo esalta il colore dell’individualità. Eppure, disciplinatamente, i protagonisti del torneo si attengono alla regola. È ipocrita. Ma com’è rassicurante! Ci ricorda che abbiamo immenso bisogno di ipocrisia, perché l’ipocrisia ha una sua realtà ontologica. È connaturata al mondo, da quando un serpente nel paradiso terrestre fece distinguere il bene dal male. La realtà umana è ipocrita. Meglio quindi viverla con una gentile dose di ipocrisia perché la rende più bella, più accettabile, più educata. Diceva La Rochefoucauld: «L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù».