.
Da un po’ di tempo, la sensazione è che l’Occidente stia perdendo mordente. Che l’egemonia culturale euro-americana, intesa soprattutto come bianca, eurocentrica e perlopiù abituata all’inglese come lingua franca, stia cedendo il passo. Che il destino provenga da Oriente, o dal sud del mondo, e che «Tutto questo stia già finendo», per tornare a parafrasare Welles nel suo radio-capolavoro, adattamento del quasi omonimo H.G. Wells, La guerra dei mondi. «Sta a noi decidere come».
C’è un altro noto pessimista selettivo, che ultimamente guarda al futuro con giudizio più mite di quanto ci abbia abituati ad aspettarci e che, da riluttante quanto indiscusso campione letterario occidentale, in questo momento incarna più di chiunque altro la dose di lucida autocritica della quale questa particolare umanità convinta di assistere a un tramonto prospettivo ha forse bisogno: il romanziere americano Jonathan Franzen.
Nel corso di una sfaccettata corrispondenza durante la quale l’America ha messo in dubbio la sanità mentale di un presidente in carica, visto il suo avversario cadere e rialzarsi sotto i colpi della sua stessa ambiguità ed eletto una nuova eroina, mentre l’Europa stava a guardare in silenziosa apprensione pensando ai suoi matti, alle sue guerre e ragionando sulla propria ostentata rilevanza culturale, Franzen ci ha dato la sua visione dei fatti.
Cominciamo da Orson Welles e, in estrema sintesi, da una domanda ampia quanto due continenti: di cosa parliamo quando parliamo di declino della cultura occidentale?
«Di niente. Non parliamo di niente, perché sono decenni che da occidentali viviamo con la dannazione di trovarci di fronte a un declino che non arriva mai. È una convinzione figlia della supposizione europea di dover governare il panorama culturale, e spero davvero di non farne parte, anche se forse è un po’ troppo tardi per questo. Da romanziere e da americano spesso mi capita di venire interrogato in quanto esperto di “cultura occidentale”. Non credo di esserlo, soprattutto perché, di fatto, non so davvero cosa sia la cultura occidentale. Quindi, forse, la domanda dovrebbe innanzitutto essere ridotta – per ridurre il campo, quantomeno: di cosa parliamo quando parliamo di cultura occidentale? Di cristianità? Di democrazia ateniese? Di arte rinascimentale?».
Se è questo il punto, allora ha ragione Orson Welles: non esiste un solo declino, non esiste una sola umanità, ma esiste una serie di avvicendamenti che lasciano alcuni ad avere a che fare con la tragedia e altri con il trionfo. Pensare di trovarsi sempre dall’una o dall’altra parte è quantomeno un’illusione.
«Io resto legato al mio piccolo angolo di cultura: la letteratura. È probabile che ci si possa concedere di preoccuparci del fatto che sempre meno persone – stringiamo il campo: sempre meno lettori occidentali – apprezzino Dante e Tolstoj.
Ma: a) Non è mai esistito un tempo, nemmeno a loro contemporaneo o immediatamente successivo, in cui le masse ne abbiano veramente apprezzato il lavoro; quella che noi intendiamo come struttura della letteratura occidentale, i nostri classici, sono esempi eccellenti costruiti con uno studio particolare se non addirittura ossessivo che ne ha scomposto ai minimi termini l’essenza per dare al resto della letteratura a venire non degli esempi o dei termini di paragone, ma i mezzi pratici per costruire un canone. E il canone è per definizione uno strumento di variazione.
E: b) Voglio davvero essere considerato come uno di quegli scrittori ansiosi (autori delle cause delle proprie ansie e spesso abbastanza abili da generarne dal nulla!) che si lamentano di una generica perdita di interesse nella letteratura “alta”? No. Vorrei che la lettura rimanesse qualcosa di volontario e che la sua comprensione continuasse a essere quello che è: un atto arbitrario, che non torni sempre per forza al canone ma che lasci la discrezione ai lettori di scegliere se perdersi nello studio o limitarsi all’intrattenimento. Qualcosa da intraprendere per il piacere di farlo, non per l’obbligo imposto da chi è “acculturato”».
La sua riluttanza a parlare del presunto declino della cultura occidentale e, anzi, la sua convinzione – condivisa – che non esista in realtà alcun declino, fa di Franzen il soggetto perfetto per guardare l’argomento sotto una luce diversa rispetto al trito dualismo allarmista tra chi ne difende i valori contro minacce esterne e inesistenti e chi plaude al tramonto del vecchio per il nuovo e indefinito corso di una multiculturalità ancora non ben delineata e tutta da costruire. Forse, se è vero che il futuro del continente è globalista e che l’accoglienza ci salverà, è a questo che dobbiamo guardare per preservare la letteratura occidentale?
«Ma questo sta già accadendo e non sta cambiando niente alla radice. Anche se la letteratura è, indubbiamente, diretta verso una nuova ispirazione, contaminata da influssi provenienti da Est, dal Sudamerica e dall’Africa e che in generale seguono le rotte migratorie per arricchire quella strana bestia in presunta estinzione che è la cultura europea (e di conseguenza la sua figlia adolescente ribelle e americana), il prodotto di questa contaminazione è pur sempre cultura occidentale. Cioè dell’Occidente, per definizione.
Ho il sospetto, ed è proprio solo un mio sospetto, che questa idea del declino della cultura occidentale provenga in larga parte dalla paranoia che molti europei hanno di vedersi portare via le conquiste accumulate in anni di studio e costruzione del canone da qualcosa di imprevisto, proveniente dall’Africa, dall’Oriente, da tutta quella porzione di mondo che l’Occidente stesso ha provato a colonizzare non solo culturalmente ma anche fisicamente.
Non credo che accadrà, per lo meno non in questi termini: una delle ragioni per le quali la cultura occidentale ha conquistato la sua egemonia è che, storicamente, ha sempre fondato la sua esistenza su basi di inclusività e sulle connessioni con le altre culture. In pratica, è sempre stata generalmente più aperta alla contaminazione, rispetto al fronte asiatico per esempio. La cristianità – anche se adesso pare che molti si siano scordati di questo principio in nome di non so bene quali nuovi dogmi morali – è sempre stata di fatto una religione malleabile, influenzabile, relativamente giovane e per questo anche soggetta a correzioni. Il razionalismo della filosofia classica era aperto a qualsiasi tipo di influenza, e così la tradizione del liberalismo politico. La democrazia, per definizione, è la base – il canone, se vogliamo tornare alla letteratura – della contaminazione politica.
In altre parole: il fatto che la cultura (continuo a parlare per la letteratura) occidentale stia così democraticamente accogliendo nuovi flussi di scrittori e scrittrici di discendenza diversa da quella occidentale è la prova che non sia in atto alcun declino. È una conferma, non una disfatta».
Questo concetto, però, ha un contro. Se da una parte è vero che la cultura e la politica occidentali si fondano su una certa apertura e inclusività che le dota del potere di resistere al declino in favore del cambiamento, dall’altra le trasforma in una sorta di filtro universalizzante che impone a qualsiasi influenza di essere inglobata e canonizzata. Insomma, il rischio è di fabbricare una varietà fittizia e superficiale che nasconda la solita, vecchia e rassicurante, universalità occidentale e in generale europea.
«Se vogliamo, è una questione di nomi: la letteratura europea e americana – e per estensione tutte le forme di arte – si sta arricchendo di nuovi nomi, provenienti da passati e discendenze non europei e non americani. Questo è un bene, è ciò che definisce la cultura occidentale: la curiosità verso ciò che esiste al di fuori. Ma è anche ciò che ha finora fatto dell’Occidente un punto di riferimento, un orizzonte al quale orientarsi da un punto di vista culturale e politico. È, dopotutto, una questione di libertà che consiste tanto nell’importare nuovi spunti culturali, quanto nell’assimilarli e nell’adattarli alle regole e alle norme della tradizione radicata.
È vero che l’inclusione di influenze provenienti da altre tradizioni prevede una specie di assoggettamento, una diluizione in quella che è la norma. Ma anche questa è una norma in evoluzione, che trae beneficio dal continuo includere e aggiustare. La norma di oggi non è la stessa di cinquant’anni fa, e allora non era la stessa dei classicisti di primi Novecento. Abbiamo l’illusione di essere radicati a una cultura rocciosa e inscalfibile, decisa millenni fa e immutabile, ma non è così. La cultura occidentale è in cambiamento costante, non ce ne accorgiamo perché diamo per scontata la sua stessa natura evolutiva come regola introiettata.
In questo senso: tutto ciò che viene a contatto con la letteratura occidentale trasforma la letteratura occidentale a sua volta, ma in ogni occasione contribuendo a mutarne la forma dettaglio dopo dettaglio».
È lo stesso principio applicato, in maniera forzosa e rapidissima, con l’occidentalizzazione del Giappone durante il periodo Meiji?
«Il Giappone è un esempio perfetto: quando nel 1885 la regola imperiale impose che si abbandonassero, nemmeno troppo gradualmente, le tradizioni, gli abiti e il sistema politico feudale in favore dell’occidentalizzazione, si è di fatto applicata la regola occidentale che per millenni aveva modellato quella che noi chiamiamo la “nostra” cultura in un tempo ridottissimo, producendo di fatto gli stessi effetti ma in maniera molto più traumatica e invasiva. È, per fare un esempio, ciò che ha poi permesso agli europei e agli americani di apprezzare, comprendere e celebrare Murakami Aruki e faticare a capire Yukio Mishima. Il primo parla la lingua dell’occidentalizzazione e assimila l’Occidente nei dettagli nella sua letteratura, il secondo è radicato alla tradizione. Il primo lo capiamo, il secondo no. Il Giappone mi affascina: l’ordine e la discrezione che applicano a tutto, e che di certo non derivano dall’occidentalizzazione, mi sembrano molto affini a ciò che ho sempre cercato nella vita».
La discrezione, dunque, è qualcosa che scorre quasi naturalmente attraverso la colonna strutturale della letteratura e della cultura occidentale, e la sua salvezza è intrinseca in questa stessa tendenza alla discreta inclusione che fa da linfa salvifica per una tendenza da preservare. Ma cosa teme chi grida al declino e alla disfatta? Qual è la minaccia che alcuni intravedono all’orizzonte e altri – come Franzen – lasciano scivolare via con una scrollata di spalle?
«Viviamo delle nostre abitudini e delle nostre certezze, in un mondo che negli ultimi anni sembra avere ridotto notevolmente le distanze tra un cambiamento, una rivoluzione, uno scossone, e l’altro. Parliamo di cultura e di politica, qui, più che di letteratura nello specifico. La minaccia di una mutazione mette gli esseri umani, per loro natura abitudinari, alle strette. La minaccia di una rivoluzione fa crollare le certezze e produce eroi e dittature. Barack Obama ha prodotto Donald Trump. La risposta a un grande cambiamento è quasi sempre segnata dalla confusione e dall’irrazionalità. Questo significa che ogni volta che una nostra certezza viene esposta a una novità non si può fare a meno di soppesare attentamente tutte le conseguenze possibili e, vista la tendenza caotica dei tempi, è molto più facile che la risposta tipica si traduca in qualcosa di reazionario, più che di rivoluzionario.
Forse sarebbe più semplice dire che abbiamo paura. Ma anche questa sarebbe una generalizzazione, perché in realtà ad avere paura sono soprattutto le vecchie generazioni. Le nuove hanno già ben chiaro il processo di mutazione perché ci vivono dentro. Chi è abituato a un cambiamento più lento, meno sovversivo, meno sorprendente, teme che da un giorno all’altro le sue certezze vengano divelte e la sua cultura venga completamente sostituita. Chi invece è nato al centro del sistema nella sua fase di mutazione più evidente e acuta, e cioè quando gli effetti dell’inclusività sono immediatamente apprezzabili, è anche più abituato al cambiamento e se ne spaventa meno. Questo non significa che in futuro non avverrà un nuovo cambiamento e che non ci saranno generazioni ancora più preparate delle presenti, altri giovani e altri vecchi, altre influenze culturali e altre abitudini da dimenticare.
Forse dipende soprattutto dalla nostra territorialità e dalla tendenza a considerarci sempre privi degli strumenti ottimali per adattarci in quanto singoli, ma come gruppo siamo piuttosto preparati. Non credo ci sia nulla di spaventoso in quello che sta succedendo ultimamente nella letteratura e nella cultura mondiali, men che meno in quella occidentale che sta procedendo come ha sempre fatto, forse solo un pelo più velocemente. La politica è tutta un’altra storia».
Mentre si svolgeva questa corrispondenza letteraria, sul piano politico americano si sono verificati alcuni scossoni in rapida sequenza: durante un comizio qualcuno ha attentato alla vita di Donald Trump e il presidente Joe Biden, già evidentemente confuso e stanco, provato dal Covid e dalle pressioni dei suoi alleati democratici, ha deciso di rinunciare alla prossima candidatura in favore della sua vice Kamala Harris. Parlando di ordine, discrezione e declino presunto, sarebbe stato impossibile lasciare questi fatti fuori dalla conversazione.
«L’attentato a Trump ha complicato le cose in un modo imprevisto ma stranamente atteso: ha distratto l’attenzione dalle condizioni di eleggibilità di Biden e cambiato il fuoco di una preparazione a una campagna presidenziale già di per sé difficile. Trump ne è uscito come una specie di eroe popolare, un santo privato del martirio ma indubbiamente miracolato, uno che a questo punto potrebbe fare qualsiasi cosa dato che è stato in grado di schivare, letteralmente, una pallottola, e Biden ha perso completamente la presa sulle redini di quanto rimaneva della sua stessa presidenza, rischiando anche che venisse messo in discussione il suo operato, dopotutto buono.
So che qualcuno la penserà diversamente, ma il fatto che, alla fine, lui abbia deciso di rinunciare alla candidatura è stata una benedizione. Se non lo avesse fatto avrebbe rischiato di consegnare il Paese e gran parte del mondo occidentale nelle mani della peggiore scelta che abbiamo mai avuto. Trump non è più imprevedibile: sappiamo di cosa è capace e non fa altro che elencare le ripicche e le vendette che intende mettere in atto nel caso venga eletto. Questa prevedibilità è la vera minaccia. Biden non era armato per combatterla.
Stavamo parlando di declino, e la notizia del suo ritiro è un piccolo tassello verso la salvezza da un possibile disastro – politico, ma forse anche culturale, perché quando l’irrazionalità arriva al potere giustifica l’aridità di chi la ha approvata e votata.
Harris è una candidata ottimale: è più giovane, preparata, solida e si trova a fronteggiare un avversario che non solamente è vecchio, ma è anche così pieno di sé e delle menzogne che si racconta da solo da non avere più idea di quale sia la realtà. Se Biden non avesse rinunciato, avremmo rischiato una disfatta, ma così stiamo cominciando a ragionare.
Per riportarci in tema: la natura della cultura occidentale è quella di mutare, di assimilare, di accogliere per non crollare mai ma continuare a sopravvivere attraverso i dettagli, le limature, gli adattamenti. La natura della politica di Trump incarna il rifiuto di questo principio. Per ora, siamo ancora tutti salvi».