A differenza di altre opere leviane come La chiave a stella, con le sue incursioni nel piemontese e nel lessico settoriale, La tregua offre una lingua che è insieme di respiro classico e di scientifico nitore: Levi, come ebbe a dire una volta Cesare Cases, «era una réclame vivente del vecchio liceo classico» (e pensare che al Liceo D’Azeglio fu anche rimandato a ottobre proprio in italiano).
L’espressività del parlato compare davvero solo in un caso, nelle battute dell’ebreo romano Cesare, un personaggio per il quale l’autore prova una dichiarata simpatia: le parole della quotidianità polacche e russe vengono adattate e marcate affettivamente con una forma alterata : così il polacco ryba «specie di pesce» diventa ribbona, il russo kaša «piatto a base di miglio» diventa cascetta («Voi statevene con la vostra cascetta: io la gallina me la vado a cercare da solo»), il russo kuritsa «gallina» diventa curizetta.
C’è un settore privilegiato per entrare nell’officina di uno scrittore di forte educazione letteraria che si sforza di non essere letterario (nella Tregua è raro il ricorso a similitudini, per esempio): l’uso dell’aggettivo. Gli aggettivi, che compaiono spesso in serie, non sono mai decorativi, ma sfaccettano la realtà rappresentata, illuminandone gli aspetti diversi e talvolta contraddittori. Un paio di esempi, attinti ancora dal primo capitolo. Le parole dei soldati russi a cavallo sono «brevi e timide» (viene spontaneo il contrasto con le frasi pronunciate dai nazisti in Se questo è un uomo: altrettanto brevi, ma sprezzanti e aggressive). «Di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte»: i primi tre aggettivi costituiscono una climax, cioè una progressiva intensificazione, e il terzo, atrofizzati, dà un’impronta scientifica, e comunque obiettiva, alla situazione rappresentata.
La personalità stilistica di Levi spicca ancor di più se la confrontiamo con quella di una grande scrittrice che a Torino passò gli anni dall’infanzia alla giovinezza: Natalia Ginzburg, che nel 1963, lo stesso anno in cui apparve La tregua, pubblicò Lessico famigliare e vinse il premio Strega. Ginzburg ha segnato, nel romanzo italiano, una linea alternativa rispetto a quella di Levi: una lingua volutamente priva di ogni risonanza letteraria, nutrita di parole comuni e misurata sul ritmo del parlato quotidiano. Un indicatore è costituito dalle forme verbali di seconda persona (indicativi o imperativi) di tre verbi di largo uso, venire, fare e andare, ovviamente forme tipiche del discorso diretto. Confrontando La tregua e Lessico famigliare i dati sono i seguenti: vieni un esempio in Levi, nove in Ginzburg; fai Levi tre, Ginzburg sette; vai Levi due, Ginzburg dieci.
Più in generale, l’escursione lessicale di Levi è ampia e varia. È facile accertarlo, confrontando La tregua con altri 99 romanzi apparsi tra 1947 e 2006 e consultabili attraverso un meritorio Primo Tesoro della Lingua Letteraria del Novecento, diretto da Tullio De Mauro (2007). Vediamo dieci aggettivi, non appartenenti alle duemila parole del lessico di più alta frequenza: alcuni sono indubbiamente ricercati (inconcreto è addirittura un hapax leviano); ma molti di essi dovrebbero appartenere al patrimonio linguistico di uno studente di scuola superiore. Sono alacre, frusto «consumato» o «ripetuto stancamente», insipiente, loico, negligente, omerico «grandioso», polito «levigato, affinato», prolisso in senso proprio «lungo», sismico «straordinario».
Parte di questi aggettivi, tra gli autori del Primo Tesoro, si ritrova, con tre occorrenze, in Landolfi, col suo gusto del fantastico e con la propensione per la parola rara (frusto, loico, polito), in Magris, che è anche un grande intellettuale (loico, omerico, prolisso), in Bellonci, amante delle ricostruzioni d’epoca (alacre, frusto, polito) e, con due esempi per ciascuno, in Eco, Arbasino, Banti.
Ma più significative sono le assenze. Nessuno dei dieci aggettivi che ho passato in rassegna compare in Calvino (presente con due romanzi nel Tesoro) e nessuno nella variegata ma fitta rappresentanza di scrittori che appartengono al, o risentono del, neorealismo (Pratolini, Vittorini, Pavese, Cassola) ovvero che perseguono, in tempi più vicini ai nostri, una lingua volutamente disadorna, modellata sui ritmi del parlato (come Ortese, Mastronardi, Cialente, Mazzucco, De Carlo, Di Lascia, Ferrante, Veronesi). Primo Levi sta davvero a sé, insomma: per le cose che ha da raccontare, prima di tutto, e per come le racconta.
L’officina di Primo Levi. Il testo, oltre a Primo Levi nomina molti altri scrittori per confrontarli stilisticamente con Primo Levi stesso. Lavorando in coppia, individuate gli scrittori e scrittrici menzionati/e e compilate per ciascuno una Scheda Autore.