Migranti e lavoro povero. Gli immigrati fanno solo i lavori che agli italiani non piacciono. Uno studio Inps: l’occupazione straniera non ha legami con i salari bassi. Saggio di Alessandro Barbera pubblicato su La Stampa del 2 aprile 2017.
Migranti e lavoro povero
Migranti e lavoro povero. Quante volte l’avete sentito dire? Quante volte vi siete fatti irretire dalla rassicurante convinzione che gli immigrati rubano lavoro e futuro? Lo sospetta persino Bakari, uno dei giovani africani che ogni mattina pulisce le strade di Roma Nord nel timore di essere arrestato. Non ha bisogno di molto: una ramazza, una paletta, due pezzi di cartone con cui – quasi scusandosi per il disturbo – chiede in italiano qualche centesimo e una manciata di dignità. A Roma l’inefficienza dell’Ama ha raggiunto un livello tale da trasformare truppe di irregolari nel più straordinario spot a favore dell’integrazione. Bakari si aggira attorno a una grande struttura della Polizia, e nessuno sente il bisogno di distoglierlo dalla rimozione meticolosa delle ortiche ai lati di un marciapiede più simile a quelli di Accra che di una capitale europea. Meno male che Bakari c’è: secondo la più classica delle regole del mercato, colma la domanda inevasa di decoro di una città sull’orlo perenne del collasso finanziario.
Gli immigrati non rubano il lavoro agli italiani, né – se regolari – spingono al ribasso i salari. Non è l’opinione parziale di un romano o di anime belle. Lo dice con dati inoppugnabili una recente ricerca di tre studiosi: Edoardo di Porto dell’Università Federico II di Napoli, Enrica Maria Martino del Collegio Carlo Alberto di Torino e Paolo Naticchioni di Roma Tre. Non è l’unico studio sul tema, ma è il primo che censisce un intero campione di immigrati. Lo hanno fatto grazie ad una borsa VisitInps, il progetto voluto dal presidente Tito Boeri che mette a disposizione della ricerca l’enorme mole di dati dell’Istituto di previdenza. I protagonisti dello studio sono i 227mila lavoratori di 107.000 imprese private (esclusa l’agricoltura) emersi grazie alla più grande sanatoria mai effettuata in Italia, quella decisa a settembre 2002 dal secondo governo Berlusconi che regolarizzò 650mila persone. Le due sanatorie successive furono drasticamente inferiori: nel 2009 furono accolte 222mila richieste su 295mila, nel 2012 passarono appena 60mila richieste su 134mila. Il numero di extracomunitari in rapporto alla popolazione in Italia è volato in quindici anni: dall’1,7 per cento del 1998 all’8 del 2012. Oggi quella crescita è azzerata o quasi: gli immigrati censiti in Italia sono poco più di cinque milioni, due terzi dei quali extracomunitari. In Francia sono 4,3 milioni (ma con un altissimo numero di immigrati di seconda e terza generazione), in Germania i residenti stranieri sono ben sette milioni e mezzo.
Il crollo
Se una volta gli immigrati si fermavano in Italia per cercare fortuna, oggi la gran parte di loro si spinge verso nord. Fra il 2008 e il 2013 i permessi di soggiorno per lavoro sono passati da 738mila a 1.442mila, ma negli ultimi anni la progressione è calata fino ad azzerarsi: nel 2013 sono stati appena lo 0,46 per cento in più dell’anno precedente. Chi non ha potuto avere il rinnovo annuale del permesso è lentamente scivolato nel lavoro irregolare. Danesh Kurosh del dipartimento immigrazione Cgil spiega che la progressiva chiusura dei decreti flussi sta ingrossando il sommerso: oggi quelli che lavorano senza una regolare posizione contributiva sono almeno 500mila.
Cosa accadeva quando l’Italia era invece fra i principali Paesi di destinazione e accettava di buon grado le regolarizzazioni? La novità della ricerca Inps è nella precisione dei dati a disposizione: la sanatoria di fine 2002 imponeva alle imprese di assegnare a ciascun lavoratore emerso un codice rimasto negli archivi dell’Istituto.
I numeri
A fine 2003, appena un anno dopo, nove di quei dieci immigrati lavoravano ancora in Italia. Dopo cinque anni erano ancora l’85 per cento. Ma la cosa ancora più sorprendente è che dopo due anni solo il 45 per cento di quel campione era impiegato nella stessa impresa, dopo cinque più di un lavoratore su tre aveva cambiato provincia. «I dati suggeriscono che queste persone erano e sono disposte ad una mobilità che gli italiani non hanno mai avuto», spiega Di Porto. Per intenderci: la probabilità di cambiare impresa per un lavoratore italiano negli ultimi trent’anni è stata appena del 15 per cento. Inoltre «la persistenza nel mercato italiano associata al rapido cambiamento di impresa e residenza dimostra un eccesso di domanda insoddisfatta per mestieri a bassa qualifica». Questi numeri confermano una tendenza che si noterà anche negli anni della crisi. Linda Laura Sabattini dell’Istat ha fatto notare che mentre i posti scendevano nell’industria, nell’edilizia, nel commercio, gli occupati stranieri aumentavano comunque nei servizi alle famiglie e nella ristorazione: riecco la domanda inevasa. L’evidenza dei numeri Inps non solo conferma l’utilità della forza lavoro immigrata, ma smonta un altro falso mito, ovvero la presunta spinta al ribasso dei salari. Nei dati il fenomeno emerge solo nei primi tre mesi: le retribuzioni medie degli emersi fanno scendere di circa il 16 per cento il salario delle imprese che li regolarizzano. Ma in meno di un anno quel gap si chiude. La sanatoria della Bossi-Fini produsse l’emersione di due-tre lavoratori a impresa nell’arco di tre mesi. Sei mesi dopo il numero degli occupati era lo stesso, a dimostrazione che la gran parte delle aziende, se nelle condizioni di farlo, non aveva interesse ad occupare irregolari.
Raccontare con dovizia di dettagli la storia di ieri aiuta a capire cosa fare oggi e domani. Il ministro dello Sviluppo tedesco Gerd Mueller stima che dall’Italia solo quest’anno potrebbero transitare fino a quattrocentomila persone, il doppio dell’anno scorso, venti volte quelle sbarcate nel 1997. La mera chiusura delle frontiere rischia di scaricare decine di migliaia di Bakari sulle strade italiane. Il ministro Marco Minniti propone di utilizzare i richiedenti asilo nei Comuni e per lavori di pubblica utilità, ma in mezzo a quelle decine di migliaia di persone ci saranno molti migranti economici. Dimenticate per un momento l’esodo di cinque milioni di siriani, o la tragedia della Libia orfana di Gheddafi. Sui barconi che dal Mediterraneo si spingono lungo le cose siciliane ci sono anzitutto migranti in cerca di fortuna. Giovedì scorso a Pozzallo sono arrivate su una nave 428 persone: più di trecento erano marocchini.
Gli emersi dalla sanatoria 2002 erano quasi per la metà (il 45 per cento) dipendenti in due settori, manifattura e costruzioni. Dopo cinque anni quella percentuale era salita al 60 per cento: una conferma in più della tendenza degli immigrati a compensare la scarsa offerta di manodopera. Liliana Ocmim è peruviana, vive in Italia da 25 anni, ha tre figli e fa la presidente del dipartimento immigrati Cisl: «Come è possibile che i giovani italiani all’estero siano disponibili ai lavori umili che qui rifiutano?» La risposta è amara, e dice molto dei problemi del Belpaese.
Immigrati mobili
Negli anni della crisi la salvezza di quegli immigrati è stata ancora una volta la mobilità: «Molti sono rientrati nel proprio Paese dove hanno trovato il lavoro che qui avevano perso», racconta Mohamed Saady, edile e presidente della Anolf-Cisl. Ocmim allarga le braccia: «Questi numeri confermano quanto siano sbagliate le politiche di chiusura. Più il lavoro è irregolare, più aumenta la concorrenza al ribasso». La ricerca dice una cosa chiara: la sanatoria della Bossi-Fini non fu un regalo a persone poi tornate nell’illegalità, ma un riconoscimento a chi già lavorava in Italia ed è rimasto a lavorare in Italia.
Uno dei luoghi comuni sugli immigrati vuole che siano un salasso per lo Stato. E invece è vero il contrario. Pochi giorni fa a Biennale Democrazia Boeri ricordava che i lavoratori stranieri residenti in Italia versano otto miliardi di contributi sociali all’anno e ne ricevono tre in prestazioni. Vero è che molti di loro domani avranno una pensione, ma non tutti: l’Inps calcola che sin qui gli immigrati hanno regalato al sistema previdenziale 16 miliardi di contributi. Spiega Boeri: «Chiudere le frontiere produce solo tre risultati: più evasione contributiva, schiaccia i salari, aggrava i problemi sociali. Per far sopravvivere l’Europa occorre una politica comune dell’immigrazione, una gestione del problema dei rifugiati e la revisione della convenzione di Dublino. Ma è possibile crederci con i populisti al potere in cinque Paesi dell’Unione?».