Nazionalismo e memorie tossiche. La guerra in Ucraina mette l’Europa davanti alle sue debolezze, la cui origine è nella trascuratezza dell’idea europea come progetto di culture comuni.
Nazionalismo e memorie tossiche
Intervista di Francesca Mannocchi a Guido Crainz (1.303 parole, 7 minuti circa di lettura). Troppo spazio ai nazionalismi che si nutrono di memorie vendicative, intossicate, prigioniere dei propri torti, di quelli subiti e non di quelli fatti.
Come immaginare il futuro dell’Europa dopo un’invasione dell’Ucraina che l’ha costretta a interrogarsi ancora sulla propria ragion d’essere e sul proprio ruolo? E quale può essere l’impegno della cultura in questo scenario? Sono questi gli interrogativi da cui parte Guido Crainz, storico, politologo, ex docente di Storia contemporanea all’Università di Teramo, nel suo ultimo lavoro edito per Donzelli, Ombre d’Europa. L’autore si interroga sull’uso della Storia come arma di guerra e definisce un percorso che, dall’attualità, ci riporta indietro alle radici, troppo spesso trascurate, dell’Europa come progetto di comunità di culture comuni, oltre che di comuni interessi. Leggi di più
Professor Crainz, partirei dal titolo: Ombre d’Europa. Quali sono le ombre che pesano sul presente e sul futuro dell’Europa?
«Direi da un lato l’insorgere dei nazionalismi e le loro radici ma anche la loro capacità di incidere nella formazione dei cittadini sin dalla scuola, con un uso deformato della storia. Dall’altro lato la difficoltà di far crescere un’opinione pubblica europea capace di contrastare le derive».
Nel libro si chiede da dove sia partita la crisi dell’Unione Europea e quali siano le basi per riprogettarla. Uno dei punti da cui parte è aver sottostimato le tensioni che hanno preceduto il 1989, fino alle conseguenze dell’allargamento a Est del 2004 e all’emergere di nazionalismi illiberali e sentimenti antieuropei. Perché l’Europa post 1989 non ha visto – o voluto vedere – le contraddizioni che la animavano?
«Eravamo impreparati. All’indomani dell’89 Václav Havel, l’allora presidente della Cecoslovacchia, intuiva una cosa centrale: “le varie strutture europee sono state costruite per l’Occidente, con un allargamento così grande vanno ripensate insieme”. E invece si fece l’opposto: i parlamenti dei nuovi Paesi dovettero incorporare passivamente migliaia di pagine di legislazioni comunitarie, diventando organismi fotocopia anziché soggetti di un ripensamento collettivo».
Uno dei capitoli iniziali si intitola Alle origini del disincanto. Descrive il passaggio dall’euforia al disincanto – se non al rancore – che ha segnato «l’Europa ritrovata» dopo la caduta del Muro di Berlino. Uno dei limiti del processo di unificazione, scrive, è aver privilegiato il versante economico, cioè aver privilegiato la concezione «utilitaristica» del progetto europeo. Pensa che negli ultimi anni sia cambiato qualcosa rispetto a quella impostazione?
«Nel passaggio post 89 si fece un errore fondamentale, ovvero identificare la democrazia liberale con il liberismo economico. “Non ci sono alternative” diceva la Thatcher. Ma dopo la caduta del muro i Paesi in cui il comunismo aveva comunque garantito un sistema, seppur distorto, di protezione sociale cominciarono a fare i conti con la disoccupazione prima sconosciuta, l’emigrazione all’estero, soprattutto dei giovani, e il ridimensionamento della protezione sociale, cioè un rovesciamento rispetto a quello che accadeva nell’Europa occidentale. A Occidente, nel dopoguerra, la democrazia si è identificata con il welfare. Nell’Est è successo esattamente l’opposto: l’avvento della democrazia ha portato ad incrinare, talora anche fortemente, quel sistema di tutele che il comunismo aveva comunque garantito. E più in generale, è stata messa progressivamente alla prova la dichiarazione fondativa di Robert Schuman che nel ’50 sosteneva che l’Europa sarebbe nata dagli atti di solidarietà economica concreta. Ecco, la pandemia ha rivelato tutta la forza di quell’idea, parleremmo di un’altra Europa se il Recovery Fund non fosse stato approvato».
I vuoti, scrive, sono stati riempiti anziché da una cultura condivisa dell’Unione, da movimenti che hanno «costruito disunione» alimentando nazionalisti. Quali sono i casi che avrebbero dovuto allarmarci anni, decenni fa e che sono invece scomparsi dai radar del dibattito pubblico?
«Credo che avrebbe dovuto preoccupare fin dall’inizio il riemergere nei Paesi comunisti di memorie nazionali vittimistiche. C’era il rischio che dalla caduta di quei regimi e dell’ideologia da loro imposta, emergessero delle memorie vendicative, intossicate. La memoria dei propri torti, di quelli subiti e non di quelli fatti. Il rischio era già evidente nell’ex Jugoslavia. Già nel 1989, quello che sarebbe successo è reso manifesto da un’enorme manifestazione di serbi alla piana di Campo dei Merli in Kosovo in cui Milošević annuncia il processo che avrebbe dilaniato la Jugoslavia. È la commemorazione di una battaglia di 600 anni prima e del suo eroe, il re Lazar, accompagnata appunto dall’annuncio di Milošević di un grande riscatto della Serbia. Nei giorni scorsi abbiamo visto, di nuovo, che i serbi del Kosovo affiancano nei manifesti l’immagine del re Lazar e quella di Putin. Ecco, proprio nell’ex-Jugoslavia si coglieva per intero l’uso della storia come arma di guerra. Esattamente quello che Putin fa in Russia da vent’anni».
Un processo analogo di utilizzo della storia come arma di costruzione di un tessuto patriottico condiviso ma basato su una lettura alterata degli eventi e delle responsabilità storiche.
«Siamo colpevoli di non aver voluto vedere quello che Putin stava preparando da vent’anni. Eppure ce l’ha sbattuto in faccia. Aveva preparato il terreno, la società russa e poi l’ha accompagnata all’invasione dell’Ucraina. Ha riscritto la storia basandola su celebrazioni pubbliche, è intervenuto pesantemente sulla scrittura dei manuali di storia, presenziava ai convegni degli insegnanti dicendo cosa avrebbero dovuto dire per plasmare l’orgoglio patriottico degli studenti. A settembre ha inaugurato l’anno scolastico in una scuola elementare, e l’ha fatto simbolicamente a Kalinigrand, l’exclave russa tra Polonia e Lituania, quella dove ha i missili puntati sui Paesi baltici. Il tutto accompagnato dalla repressione delle voci dei dissidenti».
Leggendo la sua ricostruzione anagraficamente deduciamo che chi oggi ha venti, venticinque anni e combatte al fronte è cresciuto immerso in questa educazione distorta.
«Sì, esattamente. Per di più accompagnato dagli anziani che hanno il rimpianto della grande potenza della Russia sovietica».
Viviamo il paradosso per cui i regimi come quello russo hanno una visione, sebbene distorta, dell’istruzione a cui dedicano risorse per usarla come arma di guerra mentre sembra che nelle nostre democrazie l’istruzione sia sempre l’ultimo tassello nella piramide delle cose su cui vale la pena investire.
«È paradossale ma è vero. Se è vero come è vero l’uso della storia da parte dei sovranismi, risulta ancora più grave la carenza degli investimenti sulla storia nei programmi più recenti. Qualche anno fa era stata tolta la traccia di storia dall’esame di maturità con la motivazione che purtroppo gli studenti non la sceglievano. È rimasta carta straccia la circolare conseguente sull’importanza di dedicarsi allo studio del Novecento, inclusi gli anni più recenti. Significa costruire un contesto in cui i ragazzi continuano a ignorare pezzi di storia recente, significa lasciarli esposti al racconto della storia deformato dai media, dalla televisione. Dovremmo capire quanto sia importante dare anticorpi e questo è possibile solo facendo crescere relazioni; ecco, questo libro vuole essere un sommesso grido d’allarme, mentre i sovranisti agiscono nel creare connessioni internazionali sempre più strette. Siamo molto indietro su questo aspetto».
All’inizio del volume cita Agnes Heller dal suo Orbanismo. Scrive che nel 1989 «cambia il sistema politico, non il popolo». Le chiedo: qual è lo strumento per invertire la tendenza dell’affermazione dei nazionalismi? L’aggressione russa in Ucraina nel lungo periodo può diventare un grande ostacolo per lo spirito di coesione europeo?
«Difficile fare previsioni. Dovremmo però ricordare quello che Stefan Zweig scriveva già negli anni Trenta, cioè che era necessario costruire “una nuova visione della Storia”. Prima di pensare l’Europa politica, diceva, bisognava realizzare un’unità culturale. L’idea dell’Europa è il frutto lentamente maturato di un pensiero comune, Zweig sapeva che l’istruzione doveva essere alla base di questo pensiero comune. Questo mi sembra il cuore del ragionamento. Ripensare una storia comune, elaborare i rimossi. Pensi all’espulsione di milioni di tedeschi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e così via. Negli Anni 60 i vescovi polacchi si rivolsero a quelli tedeschi dicendo: noi perdoniamo gli orrori del nazismo, e chiediamo perdono per l’espulsione dei tedeschi. Ecco questo è lo spirito di costruzione dell’Europa».
L’Europa per come la conosciamo oggi e per come la stiamo imparando a conoscere in questi mesi di guerra è ancora in grado di perdonare e insieme chiedere perdono?
«Non so se è in grado di perdonare ma so che è l’unica via».
Guida alla lettura
Mettete questo articolo a confronto con i tre che vi ricordiamo di seguito. Individuate i punti in comune e preparate una scaletta per un vostro successivo breve saggio.