Nichilismo climatico

Nichilismo climatico. Un commento di Maurizio Ferraris sul catastrofismo ambientale, che è una delle forme in cui oggi si manifesta il pensiero nichilista. Il riscaldamento globale esiste, l’aumento vertiginoso della popolazione mondiale esiste, ma non è con l’appello alla buona volontà che miglioreremo la nostra vita: la nostra, non quella del pianeta. Il pianeta che abitiamo non ha bisogno di noi: prima di noi umani è cominciato e dopo di noi finirà. La scienza e la tecnica sono il nostro strumento non di salvezza, ma di una vita migliore per tutti, una vita affrancata dal bisogno e dalla malattia, almeno finché durerà la nostra vita sulla Terra.

Il testo è pubblicato su LaStampa del 17 luglio 2022. Su italianaContemporanea il testo è pubblicato nella pagina “Scienza“. 1.312 parole. Tempo di lettura circa 6 minuti.


«Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas, o nel vapore, o nei tavolini parlanti, consiste nella diminuzione delle tracce del peccato originale». I tavolini parlanti, le tables tournantes, sono quelli delle sedute spiritiche, e l’apoftegma è di Charles Baudelaire in Il mio cuore messo a nudo. Nelle intenzioni di Baudelaire è una condanna della tecnica e dell’orgoglio prometeico della sua età e dei suoi filosofi «zoocrati e industriali», ossessionati dal «fanale oscuro» del progresso, come scriveva qualche anno prima, deprecando la messa solenne del progresso celebrata nell’Esposizione universale del 1855.

Quelle opinioni, che erano controcorrente ai tempi di Baudelaire, sono mainstream oggi, nella coscienza comune per la quale il sogno del progresso si è trasformato nell’incubo della crisi climatica. Intervistato da Annalisa Cuzzocrea, Jonathan Safran Foer ha detto che «siamo dentro un film post-apocalittico» e Amitav Ghosh, intervistato da Alberto Simoni, ha aggiunto che «Niente di quello che possiamo fare per salvare il pianeta ha speranza di essere realizzato». Spero e credo che, per quanto comprensibili siano le loro preoccupazioni, le loro constatazioni e previsioni siano sbagliate, altrimenti l’atteggiamento più razionale sarebbe quello di Bolsonaro: disboscare l’Amazzonia e goderci gli ultimi giorni dell’umanità.

Greta Thunberg, Jonathan Safran Foer, Amitav Ghosh, esattamente come ognuno di noi (Trump compreso), sperimentano il riscaldamento climatico e le sue conseguenze, vedono la guerra in Ucraina e (tolto Trump che ne trae auspici immobiliari sull’aumento di case con vista mare) formulano un decreto unanime: occorre che ci sia una assunzione di responsabilità globale rispetto alla crisi politica e climatica, altrimenti il Pianeta sarà finito. Quanto alla fine del Pianeta, vorrei rassicurarli: continuerà a esistere per milioni di anni in un rigoglio lussureggiante di forme di vita, solo senza di noi, almeno se andiamo avanti di questo passo, ma credo che questo costituisca già un conforto per gli animalisti.

Quanto alla fine dell’Umanità, sostenere che si tratta di un destino segnato (e lo è! Non dimentichiamolo! Ma non subito) equivale a dire che ormai solo un dio ci può salvare: ossia, che lo si voglia o no, a un atteggiamento nichilista che contrasta con qualsiasi assunzione di responsabilità.

Cosa sia il nichilismo è abbastanza noto: l’idea che tutti i valori si riducano a nulla, e che l’umanità sia destinata alla catastrofe. Non tutti coloro (ossia la maggioranza dell’umanità) che sono convinti che l’umanità sia destinata alla catastrofe ammetterebbero di essere nichilisti, ma solo perché non ci pensano. Non considerano, per esempio, che proporre come rimedio alla crisi ecologica una decrescita che non può che essere infelice, come rimedio alla crisi economica niente di niente, e come rimedio alla crisi politica ancora niente di niente (il disarmo universale, o unilaterale, l’universale amore o che altro), è nichilismo. Insomma, si può avere il cuore colmo di buone intenzioni ed essere più nichilisti di un eroe di Dostoevskij.

Nichilismo è pensare che l’umanità abbia imboccato una via di decadenza, da chissà quanto tempo, e che stia giungendo al capolinea. Già questa, se vogliamo, è una buona domanda: quando esattamente è iniziato tutto ciò? La difficoltà nell’assegnare dei confini cronologici all’Antropocene, che alcuni fanno iniziare con il 1964, con il ritrovamento di residui radioattivi nel polline del mais, altri con la diffusione dell’agricoltura, 10 mila anni fa, altri ancora con il controllo del fuoco, dovrebbe suggerire che l’Antropocene è tutto tranne che la manifestazione di un crescente dominio dell’umanità sull’ambiente, clamorosamente smentito (e non confermato, come erroneamente si asserisce) dai disastri ecologici.
Nichilismo è non voler ammettere che se le prime pagine dei giornali, nel luglio 2022, sono dedicate alla morte di escursionisti sui ghiacciai che si sciolgono e degli abitanti di un condominio ucraino centrato da un missile russo è perché queste tragedie – immani, perché ogni morte è la fine di un mondo – non sono oscurate dalle notizie del luglio 1945 (in Nuovo Messico esplode la prima bomba atomica, poche settimane dopo tra 150 e 220 mila civili giapponesi fungeranno da cavie umane); o del luglio 1916, quando ebbe inizio la battaglia della Somme, che in pochi mesi si portò via 300 mila morti, oltre che più di un milione di feriti; o del luglio 1520, quando Hernán Cortés distrusse l’immensa capitale degli Aztechi e avviò un genocidio che in pochi anni vigesimò, per così dire, la popolazione del Messico: da 80 a quattro milioni.

Nichilismo è non rendersi conto del fatto che l’umanità nel suo insieme non ha mai avuto un tenore di vita così alto e non è mai stata così numerosa; e che proprio questa numerosità determina la catastrofe ambientale. Perché indubbiamente, se avessimo gli strumenti tecnici e scientifici del mondo preindustriale, l’Europa sarebbe comunque disboscata (il problema era vivissimo nel Settecento, e l’introduzione del carbone come fonte energetica alternativa al legno rispondeva a una preoccupazione ecologica), ma saremmo molto meno numerosi. La nostra vita sarebbe più breve e misera, la mortalità infantile sarebbe enorme, la fatica fisica sarebbe la forma di vita della maggior parte della popolazione. In compenso, la natura, concluderebbe qualcuno, tornerebbe a essere forte, dopo le violenze subite dagli umani. Ma quel qualcuno negherebbe l’evidenza, perché la natura non è mai stata di sana e robusta costituzione come oggi: chiedetelo ai virus e ai batteri, chiedetelo alle zanzare e ai ratti, chiedetelo a Caronte e a Katrina.

Non la tutela della natura (che non ha bisogno di noi), ma la sua potenza ne fanno oggi una preoccupazione e una minaccia assoluta, prendendo il posto della fame, cioè della scarsità di risorse che sino a ieri era stato il massimo assillo della scimmia nuda. A questo punto si aprono due vie. La prima è di tutto riposo e consiste nel denunciare la catastrofe che incombe, quasi che non ce ne fossimo accorti. La seconda, più difficile, consiste nel trovare alternative per uno sviluppo che ci permetta di bilanciare il rapporto con la natura, che non è stato mai così sfavorevole agli umani, sempre più numerosi ed esigenti, di beni e di cure, e dunque sempre più bisognosi e indifesi.

Per nostra fortuna, abbiamo il sapere e il saper fare, la scienza e la tecnica. E poiché gli scienziati non sono una banda di ambiziosi senza scrupoli, come sostengono alcuni autorevoli pensatori, né siamo schiavi della tecnica, come sostengono altri autorevoli pensatori, ma ne siamo i padroni, le vie per adoperare scienza e tecnica in questa direzione non difettano. Non è un auspicio, è una constatazione. In questo preciso momento milioni di donne e uomini di buona volontà stanno lavorando in questa direzione, non solo perché siamo tutti sulla stessa barca, ma anche perché la convenienza economica spinge verso la sostenibilità: è difficile vendere stufe in un mondo surriscaldato, è futile scoprire vaccini in un mondo spopolato.

Così, Baudelaire aveva più ragione di quanto non credesse quando enunciò la sua boutade reazionaria: la vera civiltà consiste nella diminuzione delle tracce del peccato originale, ossia del fatto che l’umano non sia un essere perfetto e virtuoso corrotto dalla tecnica e dalla società (come sostiene un utopismo sempre pronto a maledire il destino cinico e baro che ci ha impedito di vincere a una lotteria di cui non avevamo comprato il biglietto), bensì un essere radicalmente imperfetto e difettoso, e dunque bisognoso di rimedi che possono venire soltanto dalla tecnica, dal supplemento con cui, sin dall’origine, ha cercato, con relativo successo, di correggere le proprie mancanze. Così che la vera civiltà, l’attenuazione del peccato originale, passa proprio attraverso il gas, il vapore e i loro successori contemporanei e più compatibili (se si realizzasse la fusione nucleare, molti dei nostri problemi sarebbero risolti). Quanto ai tavolini parlanti, invece, oggi come ai tempi di Baudelaire sarei più cauto, ma ho il sospetto che siano stati sostituiti dai talk show. E anche questo, malgrado tutto, è un progresso, perché sui problemi del presente anche il più apocalittico dei commentatori la sa più lunga di Cleopatra.

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