Ecco un brano di Cesare Pavese, uno dei nostri scrittori del Novecento che racconta gli episodi del bombardamento di Torino nell’agosto del 1943. Cesare Pavese. La Casa in collina, cap X. Il testo è rubricato nella categoria “romanzo“. Su italianaContemporanea il testo è rubricato in Guerra. Pagina storica.
Notti dopo Torino andò in fiamme. Durò più di un’ora. Ci pareva di avere sul capo i motori e gli scoppi. Caddero bombe anche in collina e nel Po. Un apparecchio mitragliò inferocito una batteria antiaerea -si seppe l’indomani che diversi tedeschi erano morti. -Siamo in mano ai tedeschi, – dicevano tutti, – ci difendono loro.
La sera dopo altra incursione, più tremenda. Si sentivano le case crollare, tremare la terra. La gente scappava, tornarono a dormire nei boschi. Le mie donne pregarono fino all’alba, inginocchiate su un tappeto. Scesi a Torino l’indomani tra gli incendi, e dappertutto s’invocava la pace, la fine. I giornali si scambiavano ingiurie . Girava la voce che i fascisti rialzavano il capo, che il Veneto si riempiva di divisioni tedesche, che i nostri soldati avevano ordine di sparare sulla folla. Dalle prigioni, dal confino, sbucavano i detenuti politici. Il papa fece un altro discorso invocando l’amore.
Passò una notte tranquilla, in tensione paurosa (toccò a Milano questa volta), poi di nuovo una notte di fuoco e di crolli. Le radio nemiche lo ripetevano ogni sera: «Sarà così tutte le notti fino all’ultimo. Arrendetevi». Adesso nei caffè, per le strade, si discuteva solamente sul modo. La Sicilia era tutta occupata. «Trattiamo, – dicevano i fascisti superstiti – ma che prima il nemico sgombri il suolo della patria». Altri imprecavano ai tedeschi. Tutti attendevano uno sbarco sotto Roma, sotto Genova.
cap. XI
L’estate finiva. Si cominciavano a vedere contadine per i campi, e le scalette contro i tronchi dei frutteti. Adesso con Dino non uscivamo dal prato: c’eran le pere, c’era l’uva, c’era il campo di meliga. Venne la nuova dello sbarco in Calabria. La notte, discussioni accanite. Il fatto grosso, irreparabile, accadeva. Dunque proprio nessuno tentava nulla? Dovevamo finire così?
L’otto settembre ci sorprese che con Gregorio abbacchiavamo le noci. Prima passò sulla strada un autocarro militare, che ululava alle curve e levò un polverone. Veniva da Torino. Dopo un attimo, altro schianto, altro fragore: un secondo autocarro. Ne passarono cinque. La polvere giunse fin tra le piante, nell’aria limpida della sera. Ci guardammo in faccia. Dino corse in cortile.
Sull’imbrunire giunse Cate. -Non sapete?- gridò dalla strada. -L’Italia ha chiesto oggi la pace.
Alla radio la voce monotona, rauca, incredibili, ripeteva macchinalmente ogni cinque minuti la notizia. Cessava e riprendeva, ogni volta con uno schianto di minaccia. Non mutava, non cadeva, non aggiungeva mai nulla. C’erano dentro l’ostinazione di un vecchio, di un bambino che sa la lezione. Nessuno di noi disse nulla lì per lì, tranne Dino che batté le mani. Restammo sconcertati, come prima al passaggio dei cinque autocarri.
Cate ci disse che a Torino nei caffé e per le strade radio-Londra sbraitava e grandi crocchi applaudivano. C’era stato uno sbarco a Salerno. Si combatteva dappertutto. – A Salerno? non a Genova? – C’eran cortei, dimostrazioni.
-Non si capisce cosa facciano i Tedeschi, – disse Cate. – Se ne andranno, sì o no? Non sperarci – le dissi, – neanche volendolo non potrebbero. Tocca ai nostri soldati, – disse la vecchia, – tocca a loro adesso.
Il vecchio Gregorio taceva, senza perdermi di vista. Era anche lui come un bambino stupefatto. Mi lampeggiò la buffa idea che anche il vecchio maresciallo che quella sera ci buttava allo sbaraglio, anche i suoi generali, ne sapessero quanto Gregorio e stasera pendessero smarriti dalla radio come me e come lui.