Parole cattive, antisemitismo, Shoah. La riflessione sull’antisemitismo, sulle sue motivazioni, e sul contesto che ha reso possibile lo sterminio si sviluppa in molti passi della dilogia di Stalingrado di Vasilij S. Grossman, a volte come secca osservazione del narratore a volte come argomentato giudizio critico.
Il nazismo respinge il concetto di persona, di individuo. Anzi, i nazisti hanno elaborato l’idea di sterminare interi strati di popolazione, individuati sulla base dell’etnia o della razza, per la probabilità che lì si concentri un’opposizione. (VD, I, 19). E dal momento in cui i fascisti si sono sentiti vincitori, i lutti che hanno colpito tutta l’Europa sono diventati sempre più estesi. È falso, sostiene la voce narrante, che la crudeltà sia prodotta dalla tensione della guerra. Quando ci si sente insicuri, anzi, si tende a essere prudenti. Ma il caso dei fascisti fu che, al culmine del loro successo sul finire dell’estate 1942, non ebbero più freni: approvarono leggi di un rigore inaudito contro gli ebrei e cominciarono l’opera genocida. Era giunto cioè «il momento di attuare i punti più atroci del programma nazionalsocialista, quelli che colpivano l’uomo, la sua vita e la sua libertà» (VD, I, 42). Leggi di più
Il narratore ripercorre la storia dell’antisemitismo in Europa (VD, II, 32). Gli ebrei in Europa e nel mondo non sono l’unica minoranza etnica: come si spiega allora un accanimento e così persistente e aggressivo contro di loro? È una domanda complessa che non ha una risposta univoca. C’è un antisemitismo dei falliti che amano dare la colpa a qualcuno dei propri fallimenti. C’è un antisemitismo degli idioti quelli che sono dominati da un forte pregiudizio religioso. C’è un antisemitismo degli invidiosi, quelli che vorrebbero impadronirsi delle ricchezze e del prestigio intellettuale che gli ebrei hanno conquistato soprattutto nel mondo moderno dove, affermato il principio dell’uguaglianza dei diritti e delle responsabilità, molti di loro sono diventati industriali di successo, tecnici, scienziati, artisti di fama, e leader politici di primo piano. Gli ebrei, argomenta ancora la voce narrante, si integrano nelle società che li accolgono, ma la più parte mantiene le proprie caratteristiche identitarie, fatte di gesti, modi di dire, abitudini quotidiane. Inoltre li caratterizza una forte coscienza del valore dell’istruzione e si distinguono nelle compagini sociali più evolute.
Tuttavia nel mondo moderno l’antisemitismo tipico dei falliti, degli idioti e degli invidiosi, della gente comune insomma, per quanto volgare è incruento. L’antisemitismo sociale nelle compagini democratiche può essere aggressivo e si manifesta nella stampa reazionaria, in azioni politiche promosse da forze reazionarie, ma non genera lo sterminio. È nei regimi politici totalitari dove non esiste società civile che il potere utilizza il rancore di idioti, invidiosi e falliti per scatenare un antisemitismo fatto di discriminazione, di violazione dei diritti naturali della persona fino ad arrivare allo sterminio. «L’antisemitismo si fa ideologia di Stato e di partito. Così è successo nel XX secolo, l’era del nazismo» (VD, II, 32).
È il totalitarismo la causa più potente del genocidio (VD, I, 50). Il narratore indica in qualunque forma di dispotismo, passata presente e futura, nella negazione del principio base della democrazia, cioè il riconoscimento dei diritti inalienabili dell’Uomo, la causa più forte dello sterminio.
Il massacro su larga scala di esseri umani, di tutto un popolo compresi i bambini e i vecchi richiese preparazione: la prima mossa dei nazisti fu di seminare e coltivare sentimenti di odio e repulsione contro gli ebrei. In alcune regioni, come l’Ucraina e la Bielorussia ad esempio, fu facile, perché lì qualche anno prima Stalin e i suoi avevano coltivato l’odio contro i kulaki e contro gli avversari politici. Allo scatenarsi della campagna d’odio, orchestrata da una minoranza, interessata o malvagia o idiota, la maggioranza non reagì, fu atterrita dal massacro in corso, non osò opporsi. Rarissimi furono quelli che offrirono aiuto attivo alle vittime.
Ma la voce narrante non si sofferma troppo sulla deprecazione della fragilità umana. È troppo facile giudicare negativamente tanti esseri umani che hanno subito su di sé la terribile potenza di queste forze coercitive. Nessuno, nessuno che non si sia trovato nelle medesime condizioni, ha titolo per giudicare, per dire come ci si dovrebbe comportare. È invece più interessante studiare l’operazione, che il narratore definisce nuova e tremenda, di plagio di grandi masse umane. Lo Stato totalitario sottomette anche la scienza e la tecnologia e le usa per produrre la violenza necessaria a paralizzare ogni opposizione. I progressi scientifici e tecnici, le grandi rivoluzioni della prima metà del XX secolo sono contemporanei alla «inimmaginabile» (VD, I, 50) remissività di tanti esseri umani, delle vittime e di chi non reagì o addirittura approvò le misure che furono adottate, accettando il proprio servaggio e l’idea che qualcuno non sia degno di vivere. E tuttavia per indurre un animo plagiato a giustificare l’ingiustificabile, la violenza ed il terrore non bastano. La terza potente arma dei totalitarismi è la propaganda, la martellante persuasione di agire in nome di ideali altissimi, degni di ogni sacrificio, in nome di un futuro radioso.
Con questi mezzi si accecano gli animi plagiati, inducendoli, anche di fronte all’evidenza dei fatti, a sviluppare un ottimismo idiota che ne accentua le remissività. Poche e gloriose le eccezioni: i rivoltosi di Varsavia, di Sobibor, di Treblinka, alcuni brenner … agirono, sottolinea il narratore, perché la loro disperazione non conobbe speranza, non concepì ottimismo alcuno. E proprio le rivolte nelle camere a gas, osserva la voce narrante, come tutte le rivolte passate presenti e future contro ogni forma di totalitarismo passato presente e futuro, dimostrano che la libertà soffocata tuttavia sopravvive. Per asservire un essere umano occorre esercitare una violenza senza limite, perché nessuno accetta volontariamente di essere privato della vita e della libertà.
“E questa conclusione è il faro della nostra epoca, un faro acceso sul nostro futuro” (VD, I, 50).
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