Parole cattive azioni cattive. «Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato», osservava Primo Levi nell’immediato dopoguerra in Se questo è un uomo (1947); avrebbe rincarato la dose in Arbeit Macht Frei (1959): «Se il fascismo avesse prevalso, l’Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio».
Delle sue proiezioni controfattuali si sarebbe avuta per così dire una tragica conferma nella struggente apparizione, ne La tregua (1963), di Hurbinek, il “figlio della morte”, il bambino di tre anni che forse ad Auschwitz, in quel mondo capovolto, ci era nato, e ripeteva incessantemente un solo lemma che però nessuno comprendeva. «Il bisogno della parola», avrebbe ricordato Levi, «premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva»; era «un caso estremo di comunicazione necessaria e mancata» (così ne I sommersi e i salvati): «anche sotto questo aspetto, il Lager era un laboratorio crudele in cui era dato assistere a situazioni e comportamenti mai visti né prima, né dopo, né altrove». Leggi di più
Quel “laboratorio crudele” in cui si assassinarono 1.100.000 persone fu l’epicentro di un’immensa prigione, l’Europa della prima metà degli anni ’40, dove – come mai era accaduto nel cuore del Vecchio Continente – venne messa in atto la più brutale macchina di annientamento dell’età contemporanea. Concentrati massicciamente in ghetti spesso circondati da alte mura costruite da loro stessi, gli ebrei d’Europa furono costretti al lavoro schiavo e alla morte per fame e attraverso lo sterminio sistematico e diretto. Prima serrati e chiusi all’esterno, i ghetti furono infatti “liquidati”, eufemismo per indicare che la stragrande maggioranza dei loro abitanti fu deliberatamente uccisa mentre da tutta Europa centinaia di migliaia di persone si avviavano verso lo stesso destino. A Varsavia furono murati vivi in 500 mila: lo storico Emanuel Ringelblum, che scelse di restare per documentare quanto stava accadendo, nel suo diario Sepolti a Varsaviascrisse che a rispettare le leggi «non si vive» e che «nella Polonia liberata dovranno erigere un monumento al contrabbandiere».
Noi umani siamo cattivi scolari della storia, non c’è che dire: la “lezione” della Shoah non ha affatto impedito il risorgere del più feroce nazionalismo, come problematizzato da Valentina Pisanty nel suo I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani, 2020); né nuove atrocità, nuovi crimini, nuovi stermini. Non erano dunque infondati i cupi timori di Levi?
Guerre, genocidi e massacri si sono succeduti senza sosta in questi tre quarti di secolo; muri e fili spinati, ghetti e campi di concentramento non sono affatto una storia chiusa. Il fascismo in Europa non ha prevalso, allora, ma il ritorno di fiamma è qui e ora – ai vertici di innumerevoli paesi, compreso il nostro – e gode di una notevole zona di sicurezza, più o meno consapevole: un rinnovato armamentario retorico identitario. Perché nell’Europa di oggi sopravvive l’idea che sia auspicabile un mondo a due velocità, in cui qualcuno (“noi”) abbia diritto a stare dentro e qualcuno (“loro”) debba essere tenuto fuori, in cui i diritti siano privilegi, i nativi debbano venire “prima” e l’empatia sia selettiva. Basta allargare lo sguardo all’assuefazione dello spettacolo della morte in mare e degli incalcolabili luoghi di reclusione dove rimangono incagliate ogni anno milioni di persone con un sogno: giungere a destinazione. Il rapporto tra la segregazione e le parole che usiamo per dirla, come il recente Ghetto. Storia di una parola di Daniel B. Schwartz (Hoepli) contribuisce a sottolineare, è simbiotico – con buona pace di chi crede che la realtà e la sua rappresentazione corrano su binari distinti. L’angoscia che ci attanaglia per quanto sta accadendo a Gaza, con l’orrenda rappresaglia israeliana in seguito all’atroce incursione terroristica di Hamas, non può allora impedirci di parlare ancora della “nostra” Europa, altrettanto pregna di sangue innocente. Scandita da barriere fisiche in gran parte successive al 1989, la nostra età dei muri è segnata dal ricorso sistematico di questa pratica mostruosa proprio da parte dei regimi formalmente democratici, che negano l’accesso al loro territorio a chi lo necessiterebbe. Decine di migliaia di morti giacciono sulle rotte labirintiche e blindate verso la fortezza Europa.
Da quando la retorica dell’“invasione” ha preso in ostaggio l’agenda politica occidentale, annichilendo le promesse di libertà universale, pare svanita quell’idea di globalizzazione – che pure esisteva – con al centro i diritti delle persone, compreso quello di viaggiare. La libertà di circolazione interna esiste per “noi” solo a patto che sia negata a “loro”: la storia d’Europa degli ultimi lustri verrà verosimilmente ricordata anche come quella della “guerra ai migranti” da parte di una politica della paura che ha fatto propri gli slogan dell’estrema destra genocidaria della prima metà del ‘900. Con la criminalizzazione dello spostamento è andata di pari passo, d’altronde, quella della solidarietà, mentre parole che pochi anni fa indignavano – “clandestino” su tutti – ora sono all’ordine del giorno.
Chiunque non sia ritenuto degno di essere incluso merita di essere annientato, fisicamente o socialmente. E lo stigma della “diversità” pare indelebile: è sufficiente essere arrivato in tempi recenti in Europa per non poterne, agli occhi di troppi, farne parte. Basti guardare l’abisso in cui è scivolato l’opinionismo soi-disant moderato (difficile trovare tracce di moderazione), che se la prende con la disabilità, con i bisogni educativi speciali e con i «sempre più numerosi» ragazzi stranieri «incapaci di spiccicare una parola di italiano». Che orrore.
Se c’è una cosa che la storia ci ha insegnato è che la crudeltà si costruisce così, partendo dalle parole, da quelle parole ignote a Hurbinek. Se il nativismo prevarrà definitivamente, a questo nuovo linguaggio dovremo abituarci. Sempre che non sia troppo tardi.
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