Procacciatori d’affari

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Procacciatori d’affari è un racconto di Primo Levi che leggo e rileggo sempre con divertimento. Se conoscete questo racconto, spero che condividiate il mio piacere; se non lo avete mai letto, ecco cinque buone ragioni per leggerlo.

Procacciatori daffari

Analisi del testo di Ferdinanda Cremascoli. Per tornare alla pagina principale su Primo Levi.

Prima le notizie

Procacciatori d’affari è uno dei venti racconti inclusi in Vizio di forma, scritti tra il 1968 e il 1970, e pubblicati da Einaudi nel 1971. Già il titolo della raccolta vi dice che il tema dominante è quel qualcosa che non va, quel qualcosa di sbagliato nella nostra esistenza, un “vizio di forma” che, magari in modo impercettibile, vanifica la nostra civiltà e il nostro codice morale.

Primo Levi ha esordito come narratore di fatti veri e di fatti immaginati. In questo suo quarto libro, come già nel terzo (Storie naturali – 1966), da scrittore testimone di fatti realmente accaduti (Se questo è un uomo – 1947 – e La tregua -1963), diventa scrittore di “fantascienza”, una forma moderna di allegoria, così la definisce lui stesso, a significare che l’indagine su come potrebbe essere il futuro umano non può svilupparsi senza riflessione morale. Se l’umanità non avrà sensibilità morale, il vizio del presente non potrà essere corretto e un mondo distopico sarà il destino umano.

Procacciatori d’affari è stato trascritto per la Rai già nel 1971. Il progetto si concretizzò qualche anno più tardi nel 1978. Lo sceneggiato Rai si trova su YouTube e dura 39 minuti circa.

Prima buona ragione. Il fascino

1. Il fascino di Procacciatori d’affari dipende da diversi fattori. Il primo, solo perché questo è un elenco, è che i maestri dei racconti fantascientifici di Primo Levi sono grandi maestri. Sono Swift, Wells, Verne. In occasione della messa in onda delle versioni televisive, Levi rilasciò alcune brevi interviste, e da lì viene l’indicazione della fonte che ha ispirato il racconto “Procacciatori d’affari”: un romanzo fantascientifico e satirico di Samuel Butler, Erewhon.

Seducente è l’ambientazione della storia: un non luogo al di fuori del tempo. La scena è in un interno. Dapprima molto ampio ed altissimo e luminosissimo, dalla luce bianca e azzurra, e praticamente vuoto. Al centro stanno solo uno sgabello e un tavolo da disegno. Sul tavolo dei fogli gialli, su cui si staglia l’inchiostro bruno. Vi regna il silenzio della concentrazione, dello studio. Poi, quando il protagonista incontra il team dei funzionari, la scena cambia: l’interno alto, luminoso e vuoto, si riempie e si rimpicciolisce: una stanzetta dal soffitto così basso che lo si può toccare con le mani, arredata con un tavolo e qualche sedia. La luce qui non è più menzionata. Dalle regioni della ricerca pura si scende nel negotium, nell’attività umana.

Intriganti sono i personaggi. L’attento, preciso, razionale protagonista e i tre venditori, i tre procacciatori d’affari, che sono certo meno precisi e meno razionali. Una lettera puntata è il loro nome. S.,il protagonista, è seduto sullo sgabello davanti al tavolo da disegno, indossa un camice bianco. È un giovane uomo, quasi un ragazzo, ed è così assorbito dal suo disegno da sentire il suono di un campanello solo al terzo squillo. Gli altri tre personaggi sono: G., un giovane robusto che sembra essere il responsabile del team, la signora B., relazioni umane, una donna bionda e bella di mezza età, ed il collega R., magro, dai capelli brizzolati che risponde alle domande di natura storica e filosofica.

Chi sono? Precisano subito che non sono assicuratori, non sono venditori, sono piuttosto dei funzionari. Ma il loro registro espressivo, spassoso, è quello dei venditori: «no, non le porteremo via molto tempo»; «con questo colloquio lei non contrae con noi alcun impegno»; «abbiamo il dovere di avvisarla: non ci sarà una seconda visita».

Seconda buona ragione. Lo stile dei personaggi

Godibilissimo il linguaggio di G, il capo team. È lo stile di chi cerca di convincere qualcuno a fare qualcosa. Questi “funzionari” cercano infatti di convincere le anime come S. a nascere, e a nascere sulla Terra.

Un pianeta «bene attrezzato, anzi confortevole,(…) ha un grazioso satellite, (…) un oceano d’acqua salata progettato senza economia, (…) un’atmosfera assolutamente eccezionale, unica nella galassia, e n on le dico quanta fatica e quanto tempo ci è costata: pensi, piú del 20 per cento d’ossigeno, una ricchezza inestimabile, e una fonte di energia che non andrà mai alla fine. Sa, si fa presto a dire petrolio qui, carbone là, idrogeno, metano. Conosco dei pianeti che ne sono pieni, di metano: pieni che versano. Ma senza ossigeno, cosa se ne fanno? Beh, basta, non sta bene sparlare dei prodotti della concorrenza. Oh, mi scusi, mi sono un po’ lasciato trascinare dall’argomento e ho dimenticato le buone creanze».

Terza buona ragione. La figura di S. che vuole conoscere

La sicurezza e la disinvoltura di G. e dei suoi colleghi, B. e R., si scontra con S., il potenziale cliente. Dapprima incerto, poi sempre più deciso a vederci chiaro. Man mano che i tre venditori gli illustrano le caratteristiche della vita umana, S. si rende conto che c’è qualcosa di non detto, qualcosa di evitato, qualcosa che non torna. Le sue domande iniziali sono puramente informative. Apprende così che gli umani sono uomini e donne, che c’è una loro evoluzione dalla nascita all’età adulta e poi alla vecchiaia, che producono oggetti straordinari come la penna a sfera, il nylon, la plastica, i detersivi. Ma mentre i funzionari si sforzano di mostrare immagini accattivanti emerge sempre qualcosa che le contraddice: tra le foto dell’umanità bella e in salute, compare una giovane madre indiana col suo bambino, affamati; oppure l’evoluzione di un giovane uomo in un vecchio, ammalato. E non tutti gli esseri umani hanno la pelle dello stesso colore.

Quarta buona ragione. Conoscere è una corsa a ostacoli

Dicevo che il fascino di questo racconto trae origine da diversi motivi. La reticenza dei funzionari di fronte alle nuove insistenti domande di S. è uno di questi.

Ecco, non è che tutto vada sempre liscio: qualche questione c’è stata e c’è ancora. Non si tratta di cose molto gravi, nella maggior parte dei casi ciascuno vive per conto proprio, oppure bianchi e negri si incrociano e il problema cessa di esistere. Ma ci sono, sí, ci sono dei casi di tensione, con qualche vetro rotto, magari anche qualche osso rotto. Infine, non tutto sulla Terra è programmato, un margine di libertà (e quindi d’imprevedibilità) esiste; il tessuto ha qualche smagliatura, non possiamo negarlo.

Minimizzano. Sono venditori che devono piazzare la loro merce. A poco a poco cresce la tensione del racconto: si prepara qualcosa di brutto. Infatti S. insiste, vuol seguire nel tempo qualcuno degli esseri umani di cui gli hanno mostrato le foto. E le foto si mettono in movimento. L’ultima mostra una biblioteca, molti giovani studiano, uno architettura, un’altra fisica teorica, uno filosofia. S. vuole sapere come si sarà evoluta la loro vita. Ed emergono le faglie. Dapprima quelle di carattere sociale: il giovane, che dopo la laurea lavora come impiegato alla Posta e ci lavora per tutta la vita, allude al tema della sottooccupazione giovanile, al tema del lavoro privo di senso, all’assistenzialismo di Stato.

Ma i problemi sulla Terra sono anche più gravi e traumatici. Uno dei giovani della fotografia sembra avviato ad una vita felice, si sposa, ha un figlio. Ma la foto lo mostra in divisa militare mentre saluta la moglie in lacrime. Poi da un aereo militare si lancia col paracadute; è notte, riesce ad arrivare a terra, ma è ferito a morte, una macchia nerastra s’allarga sotto di lui. L’ultima immagine è una rozza croce su un tumulo di terra.

Il commento di G. è terribile: «che cosa sono cinquanta milioni di morti su una popolazione di tre miliardi? La vita, comprende, la vita è un tessuto unico, anche se ha un diritto e un rovescio; ha giorni chiari e giorni scuri, è un intreccio di sconfitte e vittorie, ma si paga da sola, è un bene inestimabile».

Forse è meglio non nascere, pensa S., ma G. prosegue implacabile. «Io, noti bene, non ho argomenti per dimostrare chi dei due abbia ragione, il non-nato o il nato, ma una cosa le posso affermare per diretta esperienza: chi ha assaggiato il frutto della vita non ne sa piú fare a meno. I nati, tutti i nati, con pochissime eccezioni, si aggrappano alla vita con una tenacia che stupisce perfino noi propagandisti, e che è il miglior elogio della vita stessa. Non se ne staccano finché hanno fiato in corpo: è uno spettacolo unico». E mostra fotografie che documentano questo attaccamento.

Quinta buona ragione. Il rifiuto del privilegio

La ritrosia di S. non solo non scema ma aumenta. Allora G. cala l’asso: mette sul tavolo una proposta che ritiene irrifiutabile: propone a S. di nascere non a caso, ma nel posto giusto nel mondo, nella famiglia giusta in modo da essere fra quelli che, collaborando, possano corregge il vizio di forma.

Lei, mi pare, lo ha intuito: qualcuno da qualche parte ha sbagliato, ed i piani terrestri presentano una faglia, un vizio di forma. Per una quarantina d’anni hanno fatto vista di non accorgersene, ma adesso troppi nodi stanno venendo al pettine, e non si può piú aspettare: dobbiamo correre ai ripari, e ci serve gente come lei. (…) Abbiamo necessità urgente di gente seria e preparata, onesta e coraggiosa. (…) Riceverà, insieme con la veste umana, le armi che le occorreranno: sono armi potenti e sottili, la ragione, la pietà, la pazienza, il coraggio.

Dopo un’attenta riflessione la risposta di S. è breve ed icastica. Impossibile da dimenticare. S. accetta di nascere, ma rifiuta con recisione il vantaggio, il privilegio.

È il rifiuto della superbia di chi si crede il sale della terra solo perché è più fortunato.

…Non vorrei partire con vantaggio. Temo che mi sentirei un profittatore, e dovrei chinare la fronte per tutta la vita davanti a ciascuno dei miei compagni non privilegiati. Accetto, ma vorrei nascere a caso, come ognuno: fra i miliardi di nascituri senza destino, fra i predestinati alla servitú o alla contesa fin dalla culla, se pure avranno una culla. Preferisco nascere negro, indiano, povero, senza indulgenze e senza condoni.

È il riemergere nell’ultima fulminante battuta dell’orrore del XX secolo, è il ricordo dell’umanità inerme e cieca sterminata nelle camere a gas.

Preferisco essere solo a fabbricare me stesso, e la collera che mi sarà necessaria, se ne sarò capace; se no, accetterò il destino di tutti. Il cammino dell’umanità inerme e cieca sarà il mio cammino.