Purgatorio canto Quinto: il corpo

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Purgatorio canto Quinto: il corpo. Analisi del testo di Ferdinanda Cremascoli, pubblicata su Academia.edu nel 2020. Filo conduttore dell’episodio è la fisicità del corpo umano, fin dall’inizio del canto e poi nel racconto dei tre “morti per forza”.

Purgatorio canto Quinto: il corpo

Purgatorio canto Quinto: il corpo


Perché l’animo tuo tanto s’impiglia, (…)
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti

Purgatorio canto Quinto: il corpo. Quando Dante e Virgilio hanno appena cominciato a salire la montagna e si trovano ancora nell’antipurgatorio, al di qua della porta che dà accesso alle sette balze, incontrano le anime dei pigri, di coloro cioè che non ebbero un’attiva disposizione d’animo nella lotta contro il Male e proprio per questo sono condannati ad una pena supplementare: dovranno vagare in questa zona della montagna un tempo molto lungo, che potrà essere ridotto solo grazie alle preghiere dei vivi. 

Lasciati i pigri  i due viandanti s’accorgono che un’altra schiera di penitenti vien loro incontro: sono coloro che morirono di morte violenta, ma si pentirono dei loro peccati proprio poco prima di perdere la loro vita. 

Tutte le anime incontrate fin qui sono stupite del fatto che Dante sia vivo; gli si affollano intorno per pregarlo di ricordarli ai loro cari, in modo che le loro preghiere li aiutino a diminuire la lunga permanenza cui sono costretti davanti alla porta del purgatorio. Poi tre anime prendono la parola, in rapida successione.

Il canto si divide in sei diverse sequenze narrative: il congedo dai pigri (vv.1/21); l’incontro con le due anime che si staccano dalla schiera delle anime dei morti di morte violenta (vv.22/42); il primo scambio di battute con le anime purganti (vv.43/63); il racconto di Jacopo del Cassero (vv.64/84); il racconto di Bonconte da Montefeltro (vv.85/129); il racconto di Pia (vv.130/136).

Come si vede anche in quest’occasione, il canto non coincide con l’episodio narrativo: anche qui la prima sequenza del canto completa il racconto dell’incontro coi pigri che aveva occupato parte del canto precedente. D’altra parte il dialogo con le anime dei morti di morte violenta prosegue nel canto successivo. 

Tuttavia il filo conduttore forte del canto è nel corpo. Il corpo di Dante, il corpo di Jacopo, il corpo di Bonconte, il corpo di Pia dominano il canto. 

Nelle prime due sequenze narrative Dante suscita la sorpresa delle anime che incontra per la presenza del suo corpo. Gesti, parole, sguardi convergono rapidamente su di lui, il cui corpo fa ombra, non si lascia trapassare dai raggi solari. Uno dei pigri lo indica col dito, i morti ammazzati interrompono la recita del loro salmo e prorompono in un grido di meraviglia, addirittura mandano avanti due di loro per accertare questo fatto così strano. La presenza di Dante vivo suscita un grande fermento tra questi morti che corrono, gridano, implorano, si muovono con la rapidità del lampo (cfr. la similitudine ai vv.37/40).

 Vapori accesi non vid’ io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto,

che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.

Poco oltre, quando alle parole corali le voci soliste fanno il contrappunto, il tema del corpo torna con un’evidenza che è impossibile non notare. Ma poiché queste voci soliste appartengono ai morti-per-forza il tema del corpo diventa il tema del corpo ferito e ucciso. 

Le ferite del corpo di Jacopo sono una presenza ossessiva, rimarcata anche dalle allitterazioni e dalle iterazioni consonantiche (vv. 73-77).

Quindi fu‘ io; ma li profondi fori
ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenor,

là dov’io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far……………

Anche per Bonconte il tema delle ferite torna con lo stesso verbo usato da Jacopo e la stessa analogia fonica (vv.97-99).

Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Prosegue Bonconte, variando poi sul tema: la perdita della vista e della parola, e l’immagine del corpo abbandonato, la grandiosa metonimia della «carne sola», acquistano un particolare rilievo perché in tutta la terzina le pause segnate dalla cesura (e nel secondo verso c’è una spezzatura) non coincidono mai con le naturali pause sintattiche (vv.100-102). 

Quivi perdei la vista / e la parola;
nel nome di Maria / fini’, e quivi //
caddi, e rimase /  la mia carne sola.”

Si crea così una sottile tensione tra il ritmo del discorso e quello del metro che esprime appunto lo strazio e nello stesso tempo la salvezza di Bonconte che invoca il nome di Maria. 

Meno cruda è l’immagine che usa Pia per alludere alla sua morte, ma il suono del verso riproduce lo stesso fonema che è comparso per gli altri due personaggi, sottolineato fortemente dall’antitesi fé/disfecemi e dalla disposizione chiastica della frase Siena /Maremma; mi fé/disfecemi/ (v.134).

Siena mi , disfecemi Maremma

Da notare anche che nell’economia del canto l’assolo di Jacopo dura venti versi, mentre straordinariamente esteso è il monologo di Bonconte, seguito dalle brevissime parole di Pia. 

Interessante è anche la tecnica con cui il narratore passa la parola ai personaggi al coro prima, ai solisti poi.  Le anime dei morti-per-forza «corsero incontro a noi, e dimandarne:» (v.29); e più avanti cominciano a parlare e solo dopo la loro invocazione al pellegrino, il narratore commenta «venian gridando» (v.48). Per Jacopo il narratore dice: «E uno incominciò:….» (v.63). Lo stesso per Bonconte: «Poi disse un altro…» (v.85).  Ma quando prende la parola Pia, il discorso diretto passa da Bonconte a lei senza mediazione della voce narrante, che solo dopo la prima battuta di Pia lunga due versi «Deh, quando tu sarai tornato al mondo/ e riposato de la lunga via» interviene, spezzandone il denso discorso: «seguitò ‘l terzo spirito al secondo» (v.132).

Proprio questi interventi del narratore insieme alla diversa estensione dei tre monologhi costruiscono il crescendo di quest’ultima parte del canto che magistralmente s’interrompe sulla voce di Pia, dando così anche a questo personaggio un grande rilievo emotivo. Tra l’altro è una donna; l’ultima che aveva parlato prima di lei è stata Francesca, nel V canto dell’Inferno.

Nell’episodio di Bonconte trova spazio un racconto degno degli exempla  che i predicatori spesso usavano nei loro sermoni: un angelo e un demone si contendono l’anima di un uomo, drammatica immagine del conflitto terribile che oppone nel tempo terreno il Male al Bene. Bonconte vive ormai nell’eternità, ma sente il bisogno di affermare che è la verità quella che sta per raccontare ed esorta Dante, il pellegrino, a comunicarla agli uomini, perché tale è il valore di questo racconto, essere per l’umanità tutta libro del vero (vv.103-108).

Io dirò vero e tu ‘l ridì tra ‘ vivi
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?

Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”

Il demone è infuriato perché l’anima di Bonconte gli è sottratta proprio dall’ultimo istante di pentimento e contrizione, e scatena una tremenda tempesta, la cui genesi ci è sinteticamente mostrata attraverso un dotto cenno alla dottrina fisica di Aristotele rielaborata da san Tommaso.

Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ‘l freddo il coglie.

Subito dopo prendono vita immagini grandiose: la furia degli elementi è scatenata dal diavolo furibondo di rabbia. Il respiro del discorso anche qui è definito dalla tensione tra sintassi e metro: le frasi non s’esauriscono nel verso o nella strofa, ma variamente si distendono oltre la terzina, giocano sulle inversioni, e si spezzano in fine verso  (vv.115-129).

Indi la valle, come ‘l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse // spezzatura. (Il soggetto di “coperse” è il demonio)
di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento,

sì che ‘l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde e a’ fossati venne // spezzatura
di lei ciò che la terra non sofferse;

e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.

Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse // spezzatura
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce

ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse.

In un poema ricco di significati simbolici, in cui non mancano le storie esemplari di scontro tra demoni ed angeli vi sono tuttavia straordinari momenti di racconto realistico. Bonconte, ad esempio, dà un resoconto preciso del luogo in cui è andato a morire ed è una cartina quella che si dispiega agli occhi del lettore (vv.94-99).

« Oh! », rispuos’elli, « a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.

Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Allo stesso modo la corsa di Jacopo inseguito dai suoi assassini, i luoghi dell’agguato in cui Jacopo cade, i luoghi in cui ha vissuto gli ultimi momenti della sua vita sono evocati con precisione geografica.

Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Oriaco,
ancor sarei di là dove si spira.

“Mira”, “Oriaco”,  dice Jacopo e poi evoca le canne e il fango della palude che lo impigliano e il lago di sangue che vede allargarsi sotto di  sé.  Il suo affanno angoscioso è rievocato anche dal ritmo della terzina che cambia rispetto a quello delle strofe che l’hanno preceduta. 

Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco 
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
de le mie vene farsi in terra laco ».

L’ictus cade qui sulla prima posizione del verso; la sintassi si rompe, perché «cannucce» e «braco» sono i soggetti del verbo «m’impigliar» che si trova nel verso successivo; l’inversione sintattica del terzo verso «de le mie vene» «laco»; infine la metafora potente del «laco». Tutto ciò sottolinea l’orrore di Jacopo che osserva se stesso morire: «vid’io», dice Jacopo insistendo sul pronome, parola rima.

La concretezza, l’attualità dei personaggi, ma anche dei luoghi, degli eventi, di un racconto dichiaratamente simbolico è il fenomeno del «realismo» dantesco». Erich Auerbac lo interpreta, mettendolo in relazione con la concezione figurale della storia umana. 

La simbolizzazione figurale non solo non cancella la realtà di uomini e azioni ma li osserva dal punto di vista del giudizio divino.  È così che in un poema che racconta la storia di un viaggio nell’aldilà possono permanere forti le caratteristiche peculiari dell’aldiqua.


Purgatorio canto Quinto: il corpo. La lettura del V canto si trova sul canale YouTube di Ferdinanda Cremascoli