Quando i rifugiati eravamo noi italiani. Una recensione d’autrice. Caterina Soffici recensisce il suo romanzo Nessuno può fermarmi, dove racconta la fine di 446 emigrati espulsi dall’Inghilterra nel 1940. La Stampa del 10 aprile 2017.
Quando i rifugiati eravamo noi
Quando i rifugiati eravamo noi. Questa storia mi è venuta a cercare. Come gli amori che ti capitano addosso quando meno te l’aspetti e non puoi evitarli. Così è successo a me con la vicenda che racconto in Nessuno può fermarmi. Mi ci sono imbattuta per caso, camminando per Clerkenwell Road, una strada di Londra dove i turisti non si spingono, anche se è vicinissima a Soho.
Questo era il cuore di Little Italy, il quartiere degli immigrati italiani: qui arrivavano per scappare dalla miseria, sognando una nuova vita di benessere e prosperità. In Clerkenwell Road c’è la chiesa italiana di St Peter, dove ho visto la targa dedicata alle vittime dell’Arandora Star: 446 italiani morti in una tragedia di cui non avevo mai sentito parlare.
Quante targhe del genere si vedono nelle chiese? Perché non sono passata oltre, anche quella volta? Non lo so. O meglio, l’ho capito dopo, quando questa grande epopea popolare ha iniziato a spiegarmisi di fronte. All’inizio è stato solo un intuito, una mosca nell’orecchio. La storia mi è venuta a cercare e mi ha portato dentro le sue pagine. Un po’ come il giovane Bartolomeo nel romanzo, ho iniziato la mia personale ricerca.
La vicenda
I fatti sono questi: il 10 giugno 1940, quando Mussolini dichiara guerra all’Inghilterra e alla Francia, la reazione degli inglesi alla pugnalata alle spalle è violenta. Churchill ordina «Collar the lot!». Acchiappateli tutti, prendeteli per la collottola, come si dice di ladruncoli. Il giorno stesso, negozi e caffè italiani vengono presi d’assalto. Vetrine distrutte, sassate e spranghe. Scatta la caccia all’uomo. La notte iniziano gli arresti, 4 mila italiani tra i 16 e i 70 anni sono arrestati e chiusi dietro il filo spinato in campi di internamento. Italiano diventa sinonimo di fascista. I servizi segreti hanno un elenco di personaggi ritenuti pericolosi, sobillatori e collaborazionisti, spie in sonno pronte a scattare su ordine di Hitler. Devono essere allontanati subito dall’isola. Così vengono imbarcati sull’Arandora Star, un transatlantico requisito dalla marina britannica, che in tempo di pace era il sogno delle crociere di prima classe: piscina, campo da tennis, saloni di stucchi dorati, specchi e camerieri in livrea, che solca gli oceani dai Caraibi alle Indie, pieno di ricchi e aristocratici.
Stavolta invece il carico è ben diverso. La nave salpa da Liverpool diretta in Canada. Il 2 luglio 1940, dopo appena un giorno di navigazione, al largo delle coste della Scozia viene affondata da un siluro nazista. A bordo ci sono prigionieri tedeschi, soldati britannici di guardia, e circa 800 civili italiani. Non sono uomini pericolosi, come dicono gli 007 inglesi. Sono lavoratori, per lo più gente semplice: ristoratori, cuochi, camerieri, gelatai, commercianti. Alcuni appena immigrati, altri già di seconda generazione. La maggior parte non sono fascisti. Anzi. Ci sono ebrei scappati dalle leggi razziali di Mussolini che avevano trovato rifugio a Londra, come l’avvocato Uberto Limentani, voce di Radio Londra per la Bbc. E anche veri oppositori del regime, tra cui il capo degli antifascisti in Inghilterra, il sarto Decio Anzani.
Nel naufragio muoiono 446 italiani, il più giovane ha 16 anni. Le famiglie erano all’oscuro di tutto. Molte non hanno mai saputo niente. Altre hanno ricevuto una lettera: «Missing, presumed drowned», «Scomparso, presunto annegato». Per settimane centinaia di cadaveri hanno continuato ad arrivare sulla coste dell’Irlanda del Nord e della Scozia e solo una decina hanno un nome. Gli abitanti di quei luoghi remoti li raccoglievano dal mare e li seppellivano alla meglio. Questi i fatti. Che a me però non bastavano. Il tragico naufragio dell’Arandora Star è stato chiuso nel cassetto della memoria collettiva come una episodio di guerra. Ma non è andata così. C’è qualcosa di non detto, che rendeva la storia magnetica ai miei occhi. Era davvero una nave di spie?
Ho voluto portare il lettore nella vita del quartiere, fargli rivivere le ore di angoscia delle famiglie, il senso di ingiustizia, il dolore. Capire come il sospetto contro gli italiani si insinuò nelle menti degli inglesi. Come una campagna stampa ben orchestrata contribuì alla costruzione del nemico. Persone che avevano vissuto pacificamente insieme per anni diventano all’improvviso torvi personaggi dagli occhi di scarafaggio che rubano il lavoro agli inglesi.
Figli di un Dio minore
Quei morti sono sempre stati figli di un Dio minore perché non appartenevano a nessuno. Molte famiglie l’hanno vissuto come un’onta, un episodio troppo doloroso e assurdo che andava dimenticato e rimosso. Questa è una grande storia della nostra immigrazione che andava ricordata con forza. Con la forza poetica e commovente delle emozioni che solo la fiction ti permette. Così i silenzi di quelle famiglie sono finiti nel mio romanzo insieme ai malintesi, i misteri, i sospetti, il senso di colpa dei sopravvissuti.
Come questa potente storia, anche i personaggi mi sono venuti a cercare. Ho visto il buffo Bart e la mia amata Flo, la vecchia signora inglese che conosceva i suoi nonni e piano piano dipana i dubbi del giovane. Lui trova la lettera, scopre che il nonno non è morto in guerra, come si è sempre detto in famiglia. Ma è tra i «dispersi, presunti annegati» dell’Arandora.
Flo sa. Lei c’era. Era fidanzata con un italiano di Little Italy. Lui era cameriere all’Ivy Restaurant, il luogo dei ricchi e famosi (ha fatto 100 anni l’anno scorso, esiste davvero). I loro amici erano i proprietari di un locale in Warner Street, il Berni’s Cafè. Questo invece non esiste: come i miei personaggi è frutto della mia fantasia. Ogni altro riferimento non è invece puramente casuale. Le piccole storie personali dei miei personaggi si incrociano con la grande Storia, fiction e realtà si rincorrono. La rivelazione finale è una sorta di riscatto. Volevo che la storia finisse bene. Perché l’Arandora Star ha seminato troppo dolore nella realtà. Almeno nella fiction, volevo che gettasse un seme di speranza e di felicità.
Guida alla lettura
Quando i rifugiati eravamo noi. L’autrice sottolinea in più punti della sua recensione l’analogia tra la vicenda dei 446 annegati dell’Arandora Star e quella dei migranti di oggi. Indicate questi passaggi del testo, mentre lo analizzate distinguendo le due parti della recensione.