Recensioni a confronto. Esquire su Lidia Poët

Recensioni a confronto. Esquire su Lidia Poët. Gabriele Niola, l’autore della recensione di Esquire, osserva: «Non è la Torino di fine 800 per come era, ma la Torino di fine 800 per quello che ha rappresentato, filtrata da una lettura precisa, quella della modernità che avanza».

La recensione di Gabriele Niola è su Esquire del 16 febbraio 2023. Su ItalianaContemporanea Il testo è rubricato nella pagina Cinema e TV. L’articolo è di 1.393 parole si legge in circa 6 minuti.


La legge di Lidia Poët è esattamente la serie tv che ci voleva, quella che ci mancava, che avremo provato a fare mille volte sulla tv generalista ma che non è mai stata fatta a un livello vero, serio, internazionale. In teoria è una serie di piccoli gialli, storie da detective come tutti i centomila investigatori della tv. È una serie in costume come le altre decine di serie in costume che si vedono sulle reti gratuite. È una serie con protagonista femminile “che fa le cose che fanno i maschi”, che si sono moltiplicate di recente. Addirittura è una serie di identità nazionale, una storia vera (più o meno) radicata in un periodo storico preciso e in un luogo preciso. Ma non è niente di tutto ciò, grazie al cielo. Ha semmai il piglio di Enola Holmes, ha l’andamento delle storie di avventura e soprattutto una capacità di relazionarsi al suo scenario che poco ha di didattico e scolastico e molto di fantasioso e narrativo. Non è la Torino di fine 800 per come era, ma la Torino di fine 800 per quello che ha rappresentato, filtrata da una lettura precisa, quella della modernità che avanza.

La storia vera di Lidia Poët

Lidia Poët è davvero esistita, è stata la prima avvocato donna d’Italia, vissuta a fine 800 a Torino e in lotta per più di 30 anni per vedersi riconosciuta l’abilitazione. Il mondo degli avvocati uomini non la voleva, perché donna. Nella serie Lidia (Matilda De Angelis) si vede revocata l’iscrizione all’albo nella prima puntata e si riduce a fare da assistente al fratello avvocato (Pier Luigi Pasino) risolvendo i casi che lui non vorrebbe nemmeno prendere e dovendo continuamente lottare con lui per fare le cose a modo proprio. In una splendida forzatura narrativa sono tutte storie di femminismo ante litteram, casi di patriarcato o di libertà schiacciata, in una città che era all’avanguardia (e così viene raccontata) e con un personaggio che funziona come l’incarnazione stessa della modernità, che non si può fermare, che trova strade sempre diverse per allargarsi e che lentamente ma inesorabilmente contagia tutti. Ancora una volta una serie tv italiana racconta la fantasia escapista italiana più ardita di tutte: il sogno impossibile della modernizzazione della nostra società.

La legge di Lidia Poët: la trama degli episodi

Ogni puntata è un caso mentre lungo i sei episodi procede la storia del ricorso contro la revoca dell’iscrizione all’albo, degli amori e tutto quello che ne consegue. La legge di Lidia Poët non è una serie che vuole sconvolgere i canoni della narrazione, anzi è molto canonica nella struttura, con una detection blanda (forse il suo punto debole), puntate autoconclusive e un po’ di trama orizzontale. Non è il prodotto fuori dalla norma ma il prodotto medio solo che, qui bisogna tenersi forte, è fatto bene per davvero. A partire dall’investigatore che come sempre nelle storie di investigazione è lo snodo cruciale, il suo carattere, il suo atteggiamento nei confronti del mondo e cosa distingue il modo in cui procede il suo intelletto. Lidia è un’adulta più intelligente degli altri, svelta e sessualmente autonoma (entra in scena la prima volta facendo sesso), ma la dinamica vincente è che è sempre costretta dal mondo intorno a lei e dal suo tempo a comportarsi come un’adolescente. Deve falsificare la firma del fratello per ottenere quel che le serve, deve scappare, mentire alla nuora nella casa di cui dorme, cacciarsi nei guai, avere più amanti da incontrare di nascosto e fingersi chi non è per risolvere i suoi casi. Un’adulta migliore della media costretta nel comportamento di una ragazzina.

La legge di Lidia Poët: la recensione di Esquire

C’era un solo modo di rendere accettabile tutto questo e non sbagliare: centrare perfettamente il tono. La legge di Lidia Poët vive esattamente del carattere della sua protagonista, è una serie molto dura sul tema del femminismo come è lei, arrabbiata e impossibile da contenere, ma anche molto sboccata (per l’epoca) e ironica, con delle piccole fiammate di umorismo e un tono più leggero di quel che si direbbe (e quello forse è l’unica cosa che non ci appartiene ma ha il sapore delle storie hollywoodiane), che per fortuna non è affidato alle spalle macchiette o ai personaggi alleggeritori, ma proprio a Lidia. Che Matilda De Angelis faccia diventare tutto questo vero, credibile e funzionante è forse la sua consacrazione.

Matilda De Angelis è una perfetta Lidia Poët

Non abbiamo nel cinema o nella televisione italiana attrici che abbiano avuto la possibilità di dimostrare che si può raccontare un personaggio femminile autonomo, sessualmente potente (cioè attraente e al tempo stesso consapevole e in controllo del proprio potere attrattivo), d’azione, più intelligente degli altri (senza essere saccente) e addirittura simpatico. Già scriverlo non è scontato, ma è poi molto complicato fare in modo che queste spinte diverse convivano nella recitazione, cioè che chi recita le sappia rendere tutte e tutte insieme con coerenza. Tutto senza potersi appoggiare ad altri esempi italiani ma solo con referenti stranieri. Matilda De Angelis ce la fa, lo crea dal niente e lo crea bene. Lidia Poët è un’eroina nel senso classico del termine, il personaggio con cui è bello immedesimarsi e che è bello veder vincere. Ha la capacità di piacere. Per arrivare a questo Matilda De Angelis tiene fermo il timone sulla determinazione e si concede delle continue piccole fughe, attraverso microespressioni che la portano altrove, uno sguardo di complicità, un momenti di godimento o una smorfia di presa in giro, in contrasto con la facciata che sta tenendo per esistere nel mondo degli uomini. Mai più di uno o due secondi, dopo i quali ritorna la protagonista investigatrice.

La legge di Lidia Poët: storia italiana con ambizioni internazionali

Una protagonista così è cruciale per vendere il mondo di Lidia Poët, rendere reale la sua idea di intrattenimento e di serie tv ma ovviamente è il terminale di una squadra più grande che parte con Guido Iuculano e Davide Orsini, che la serie l’hanno ideata e poi scritta insieme a Elisa Dondi, Daniela Gambaro e Paolo Piccirillo. La serie è giustamente convenzionale e formulaica quando deve, ma poi spesso si trovano delle raffinatezze all’interno degli intrecci che ci raccontano tantissimo sul carattere e cosa avviene nei personaggi. Momenti come quello nella quinta puntata in cui, caso rarissimo, la scrittura è capace addirittura di spiazzare per un fine narrativo: scopriamo infatti che Lidia crede nel paranormale, cosa che in teoria cozzerebbe con un personaggio così illuminista. Tuttavia quando arriverà alla conclusione che la medium che ha incontrato non è una vera medium, non sarà per un ragionamento ma per una motivazione che ci dice tutto di Lidia, del suo passato, del rapporto con i genitori e di una caratteristica rara nel racconto cinematografico delle donne: il controllo dei sentimenti attraverso la forza della ragione. Questo è un personaggio.

A chiudere il tutto c’è la produzione di Groenlandia, la stessa casa di produzione di Il primo re, Romulus, The Hanging Sun, Il campione, La belva, Mondocane, Smetto quando voglio e praticamente qualsiasi film italiano o serie che (riuscito o meno) abbia cercato di fare qualcosa di diverso e internazionale negli ultimi anni. Ormai la produzione Groenlandia la si riconosce a occhi chiusi, solo dalle sinossi, ed è una delle pochissime capaci di sostenere questo tipo di imprese con un impianto al livello delle idee messe in campo. Qui la regia è per lo più di Letizia Lamartire ma le prime due puntate sono impostate da Matteo Rovere uno dei due fondatori di Groenlandia (l’altro è Sydney Sibilia). Tutte le fiction italiane in costume sono molto precise con l’epoca, questa fa di più, fa del cinema d’epoca non il museo dei costumi d’epoca, che è diverso. Crea una Torino di fine 800 vera e falsa al tempo stesso, solo leggermente fumettosa (il dettaglio da Sherlock Holmes della Mole Antonelliana ancora in costruzione sullo sfondo delle panoramiche ne è l’esempio migliore) e sa divertirsi con i colori leggermente troppo carichi dei caffè torinesi, dei cimiteri, fumerie d’oppio, bordelli, aule di tribunale, manicomi e le location più particolari o i baffoni dei volti più tipici. Non tira fuori gli abiti dal reparto costumi belli stirati ma gli dà un che di vissuto, non sembra aver riutilizzato lo stesso armamentario delle altre produzioni. Insomma, è una serie davvero nuova, che aspettavamo da tempo.


Guida alla lettura

Create una mappa mentale bipartita: anzitutto le informazioni sulla serie tv che il testo offre; poi i diversi argomenti che sostengono il giudizio (molto positivo) dell’autore sulla serie TV dedicata a Lidia Poët.

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