Romagna mia

Un corsivo di Maurizio Maggiani dove si riflette sulle cause, vere, del flop elettorale, della Sinistra italiana in Romagna. Esiste un’anima, uno spirito comune che fa il carattere di un popolo, un insieme di modi di esistere, di lavorare, di vivere che si è evoluto, ha prodotto molto e si è fatto “sistema”. E Il “sistema” si è fatto rigido e anchilosato e privo di scopi, se non quello di autoconservarsi. Ma lo spirito che a quel sistema ha dato origine, lo spirito autenticamente popolare non ha smarrito la sua vitalità. Perché la vita non muore.

Il corsivo è stato pubblicato su La Stampa del 1 ottobre 2022. In fondo alla pagine è disponibile anche l’audio, utile per un esercizio di ascolto, utile ai dislessici.


Sono ligure, sono un occidentale, sono cresciuto guardando il tramonto, ho vissuto gli anni e trascorso le epoche conformato alla mentalità d’occidente, ormai si fa notte e come è andata è andata; certo che c’è del fascino nel tramonto, e persino nell’imbrunire, ma infine c’è acquiescenza, abbandono, e alla lunga disincantato sfinimento. 

Così mi sono stufato, ho preso e me ne sono andato agli antipodi, ad oriente, verso l’alba, per darmi un altro sguardo finché sono in tempo per impararlo, e ora vivo qui, nel mezzo di una vigna di sangiovese di Romagna, in un mondo nuovo, con il sole girato dall’altra parte e la gente che si sveglia la mattina tutta propensa al giorno che viene, dai che si è già fatto chiaro. Certo, ho avuto degli incentivi per questo mio rivolgimento; l’amore, naturalmente, quando mai ci si potrà negare alla rivoluzione tellurica di un amore, e poi una confortante certezza, confortante più ancora dell’amore perché più concreta, più tattile: qui arriveranno un po’ più tardi. Nella Romagna solatia, nel dolce paese cui tenne pure il Passator cortese re della strada re della foresta, in questo ultimo, pittoresco angolo di socialismo reale eretto sin dall’alba del XX secolo sul sudore dei braccianti e dei fonditori e sulle lacrime dalle donne che sebben che siamo donne paura non abbiamo, in questa terra che pur ha dato i natali a Benito Mussolini ma lo ha visto assieme a Pietro Nenni bruciare le chiese a supporto della sacrosanta protesta contro la guerra di Libia, ecco, sicuro che qui arriveranno più tardi. Loro, i disgregatori della Repubblica, gli illiberisti, gli ordinatori del disordine, gli edificatori della smemoratezza, gli indecenti, gli adoratori dell’egotismo, e, adesso lo dico, i nuovi fascisti. Dal loro assalto, da quelli che ad occidente hanno già valicato le porte, avrei avuto un po’ di tregua. La mia certezza era ben riposta; i romagnoli sono geneticamente indisponibili al conformismo, il loro di conformismo è singolarmente anticonformista, sono sediziosi, intolleranti di qualsivoglia potere che non sia il loro, il potere collettivo di un popolo che abita le Terre Basse dove da soli ci si può solo perdere, che se le è prese al Delta quelle terre scarriolando a migliaia per anni e anni, vaglielo a dire che la terra non è di chi la lavora, e la si lavora assieme. E libertari infine per mandato plurisecolare, ancora alligna nel loro animo più che ardente l’imperativo mazziniano del regicidio; diceva il vecchio prete della nostra parrocchia, gran organista e raccoglitore di erbe di campo, che i comunisti erano delle paste, i repubblicani invece piuttosto cattivelli. 

Sì, ma ora? Ora che le elezioni sono andate come sono andate e, beffa del cinico sistema elettorale, si è arrivati a eleggere nel collegio che già fu il teatro delle razzie squadriste di Italo Balbo un tal Balboni, naturalmente per il partito che al Balbo gli vuole ancora un bene da non dire, che ne sarà ora di me? di me nella Romagna solatìa? Cosa ancora vive in questo alieno pianeta? Me ne vado in piazza e li vedo, incontro i miei vicini e li ascolto, gioco a carte con i miei amici, aspetto il mio turno all’ambulatorio, e constato che loro sì, i romagnoli sono ancora vivi e colmi di brioso disincanto. È altro che si sta sfinendo e forse morendo, e loro lo sanno. Sanno che se pur loro sono vivi, le fondamenta che si sono dati per edificare quel loro mondo stanno disfacendosi. Le fondamenta erano le solide aspirazioni comuni a un modo nuovo e libero di lavorare, di vivere, di pensare, un socialismo tanto più creativo quanto più pratico, una teologia del libero pensiero e un’economia floridamente cooperante. Talmente solide quelle aspirazioni che si sono fatte istituti, le associazioni, i partiti, le unioni, le cooperative, i circoli; gli istituti erano così ben saldi che si sono costituiti in istituzioni, e le potenti istituzioni sono diventate sistema, Il Sistema. E il Sistema è un’altra storia, si alimenta di se stesso, non si mette in palio perché l’ha già stravinto e adesso basta, non si mette in discussione perché la sua stessa natura è indiscutibile, non ha più bisogno di niente e di nessuno perché tutto quello che gli serve se lo è incamerato, ne ha fatto un apparato, e l’apparato funziona perché non ha aspirazioni, se non quelle di farsi inamovibile. 

Il Sistema funziona perché si è servito di quelle solide fondamenta, le ha scarnificate, le ha pervertite in funzione di sé stesso, ne ha fatto una macchina e la macchina va perché il carburante è buono, va come un treno che se non scarta e deraglia può andare all’infinito, fin dove ci sono binari. E funziona perché le aspirazioni delle origini sono nei romagnoli ancora un’immagine vivida, un ricordo che permane, un credo e una fede, un’educazione, un modo di essere che non si può dare per morto a meno di non morire con lui, e, al pari dei loro antenati bizantini i romagnoli professano un elaborato culto dei morti ma nessun interesse per la morte. Così anche in queste elezioni chi è ancora andato a votare lo ha fatto nel disincantato ma consueto modo, sanno di mettere la croce su un simulacro, su un fantasma, ma anche l’esercizio stesso del voto si è ridotto a questo; il Sistema ha ancora una volta funzionato e può dirsi appagato anche se punito, punito da un sistema elettorale mortale che il suo apparato ha fattivamente collaborato perché fosse legge. Il nemico è alle porte e alacremente si dà a bullonare i binari del Sistema, ma intanto i romagnoli non demordono da quello che ancora si sentono di essere. Svuotate dei loro principi fondativi, sta crollando nel fallimento dell’apparato manageriale, nei suoi conti sbagliati, il patrimonio delle grandi cooperative storiche, ma, estranee all’apparato del Sistema, una moltitudine di nuove cooperative si costituiscono su quei principi e fanno succedere cose buone e inaspettate, visto che, pensa un po’, l’economia sociale, il lavoro partecipato e autogestito, quello che per l’apparato non è che un brand pubblicitario, mai come in questa crisi si rivela non solo una bella idea, ma anche buona, pratica ed efficace. 

E se i partiti e la loro rete partecipativa, ricreativa, culturale, si sono liquefatti e raggrumati in smunti potentati locali, non si contano le associazioni formali e informali che si vanno creando tra i giovani romagnoli per puro bisogno di stare assieme per un’idea comune, un comune interesse culturale, umano, civile, solidale; Faenza è studiata da Stanford per la sua eccezionale rete associativa, l’altro ieri ho fatto, senza successo, la coda per assistere a una conferenza organizzata dal Post sui nuovi modi di raccontare il mondo, mi dividevano tra gli altri in fila un paio di generazioni. Forse non a caso Faenza è la mosca bianca di Romagna, è inamovibilmente cattolica, e qui i preti, che al nemico alle porte parrebbero senz’altro in sospetto di ateismo, sono gli eredi di don Minzoni, ammazzato di botte dalla squadraccia di Balbo; hanno il Libro, hanno la voce e il luogo per predicarlo, hanno forti romagnole braccia per praticarlo, e la loro Chiesa è ovunque, in ogni contraddizione, in ogni bisogno, in ogni aspettativa, di fatto si prendono sulle spalle il carico abbandonato a terra della nativa vocazione delle case del Popolo, del mutuo soccorso, delle fratellanze. 

Ecco quel che ancora vive in Romagna oltre o nonostante il Sistema, che se fosse astuto e duttile come nel suo costituirsi saprebbe darsi persino un futuro, chiedendo gentilmente ai romagnoli di condividere la loro vitalità, impegnandosi in cambio a studiare diligentemente e profittevolmente la loro lezione. Magari sarebbe di utile esempio anche a qualcun altro per le disadorne lande d’Italia. Ecco perché qui ci sto bene, nonostante anche da casa mia senta forte il battere dei colpi alle porte di città.

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Guida alla lettura

Due immagini si impongono da subito all’attenzione del lettore: Liguria e Romagna, l’imbrunire dell’occidente che tramonta, affascinante anche, ma moscio, e l’alba dell’oriente vivace, esuberante, dinamica.

Una cavalcata storica (e sintattica) per la storia di Romagna (di cui c’è anche un cenno agli antenati bizantini): «Nella Romagna solatia, nel dolce paese cui tenne pure il Passator cortese re della strada re della foresta, in questo ultimo, pittoresco angolo di socialismo reale eretto sin dall’alba del XX secolo sul sudore dei braccianti e dei fonditori e sulle lacrime dalle donne che sebben che siamo donne paura non abbiamo, in questa terra che pur ha dato i natali a Benito Mussolini ma lo ha visto assieme a Pietro Nenni bruciare le chiese a supporto della sacrosanta protesta contro la guerra di Libia, ecco, sicuro che qui arriveranno più tardi. Loro, i disgregatori della Repubblica, gli illiberisti, gli ordinatori del disordine, gli edificatori della smemoratezza, gli indecenti, gli adoratori dell’egotismo, e, adesso lo dico, i nuovi fascisti». Frase principale in fondo (grassetto ndr). Soggetto definito nella frase successiva. Potete divertirvi, trovando altri esempi analoghi.

Capite subito perché l’indice di leggibilità Gulpease qui impazzisce. Perché questo è un testo molto originale nella forma espressiva che esce dallo standard. Perché ancora una volta uno scrittore con gli strumenti della letteratura prova ad esprimere qualcosa di ciò che percepisce essere la verità intorno a sé, in modo che anche altri possano vederlo.


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